Dio ci svela il nostro volto attraverso quello che ci chiede. Me ne sono reso conto negli ultimi anni.
Dopo un primo periodo di missione in Cile, sono stato richiamato a Roma, per lavorare nel nostro seminario. La missione in Cile mi aveva affascinato e conquistato. Passavo molto tempo nella nostra parrocchia, a Puente Alto. Stavo a contatto con i poveri, con gli ammalati, con il bisogno concreto. Stavo con persone semplici e, in questo, così affascinanti. Ho avuto la fortuna di affiancare don Martino De Carli nell’insegnamento all’Università Cattolica e nella guida degli universitari del movimento. Era, insomma, una missione coinvolgente, certo con tante prove, ma anche piena di promesse. In fondo, fare il missionario me lo immaginavo così!
Poi mi è stato chiesto di tornare in Italia. Questo lo immaginavo di meno.
Il primo passo è stato accettare che la missione è qualcosa che ti affida Dio. Non decido io dove sarò utile né che cosa cambierò del mondo. È un altro che me lo chiede. È un altro che mi dona la vocazione ed è un altro che indica la strada del suo compimento. A Puente Alto ci era affidata una parrocchia di circa ottantamila abitanti. Un popolo vasto e infinito, come l’oceano e le Ande. Tornato in seminario mi sono trovato a seguire gli otto seminaristi che frequentavano i primi due anni. Uno dei primi giorni dopo il mio ritorno, inginocchiato in chiesa, pregavo insieme a loro. Guardandoli, ho intuito che ognuno di essi è un infinito, un orizzonte vasto come gli ottantamila di Puente Alto.
Un secondo passo è stato capire che non cambiava solo il continente, dovevo cambiare anch’io.
Lavorare in seminario mi ha mostrato come io debba ancora compiere tante e tante scoperte. Che non vado bene semplicemente così come sono. Io non so educare i seminaristi, devo impararlo. L’incontro con questa mancanza è stata la strada maestra che Dio ha scelto per convertirmi. La mia preghiera si è riempita di volti e circostanze e il rapporto con gli altri preti che vivono a Roma è diventato una scuola continua. Cambiare se stessi è un viaggio molto più lungo che attraversare l’oceano. In Cile avevo fatto tanti progetti, ideato tante strategie missionarie, intravisto tante vie che pensavo avrei potuto percorrere fino alla fine.
Sono dovuto entrare in una nuova visione di me stesso che non avevo mai pensato. Io non sono semplicemente come io mi vedo, io non mi conosco fino in fondo. È sempre necessario, per davvero, entrare nella conoscenza che Dio ha di me.
Nell’obbedienza a questi cambiamenti ho sperimentato una profonda letizia. In fondo, obbedire risponde a un desiderio vero del mio cuore. Il desiderio che la mia vita sia tutta di Dio, relativa a lui e non a me stesso. E vedo che piano piano lo diventa per opera Sua: Dio mi chiede di essere ciò che egli ha pensato. Obbedisco per essere ciò che sono chiamato a essere, per assumere il volto che Dio ha pensato per me. Tutto ciò non significa semplicemente che Dio mi vuole a lavorare in seminario piuttosto che in Cile, ma che egli mi vuole Suo piuttosto che mio, mi vuole disponibile a lasciarlo entrare nella mia vita come Signore della vita.
Nell’estate del 2011 ero partito definitivamente per il Cile. Nel febbraio del 2013 sono tornato definitivamente a Roma. C’è una certa ironia in tutto questo. E c’è anche una grande certezza: ciò che è definitivo è Dio, che continua a chiamare e a condurre su strade sempre nuove. Francesco Ferrari - http://www.sancarlo.org/
lunedì 13 ottobre 2014
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento