L'articolo di suor Maria Gloria Riva "Il Beato Angelico smentisce Kasper" è stato ripreso dal blog del noto vaticanista Sandro Magister. Diversi lettori hanno avanzato obiezioni, a cui suor Gloria ha puntualmente risposto.
DAL BEATO ANGELICO UNA LEZIONE SU EUCARESTIA E MATRIMONIO
di Gloria Riva
L’affresco del Beato Angelico meriterebbe molto più spazio per essere commentato. Io ho scritto un libro sul Convento di San Marco che, pur non essendo un'indagine critica (avendo anche il libro un altro scopo) sugli affreschi, affronta in modo più completo le diverse simbologie. In questo i nostri lettori hanno ragione ed interrogarsi è pur sempre segno di grande attenzione, quindi li ringrazio.
Il loro argomentare però, ahimè, mi rende ragione della lontananza che ormai abbiamo con la mentalità simbolica del medioevale e, alcune delle domande che sono sorte in merito all’affresco del Beato Angelico, i contemporanei più sprovveduti dello stesso artista non se le sarebbero poste.
Anzitutto nel grande ben orchestrato complesso degli affreschi del Convento di San Marco è presente un progetto ben preciso che si accordava con la millenaria tradizione monastica la quale si avvale – all’interno dei suoi metodi formativi – anche degli exempla, cioè di modelli e immagini che richiamassero i monaci ai loro doveri. Un secondo fatto, estremamente importante è che i simboli hanno sempre avuto una doppia valenza (a partire dallo stesso testo biblico). L’esempio più efficace potrebbe essere la parentela tra serpente infuocato (quelli del deserto incontrati dal popolo e da Mosè) e il serafino (che sempre essere infuocato è). Il primo con valenza totalmente negativa – quasi diabolica – l’altro con valenza totalmente positiva.
Allo stesso modo nella pittura dell’Angelico la postura come i colori degli abiti hanno una valenza grande e un linguaggio chiaro.
Nell’affresco della cella n° 35, la Madonna non si trova dallo stesso lato degli altri quattro commensali che sono in attesa di ricevere la comunione. Le vesti della Vergine sono poi identiche a quelle del Cristo, perché come diceva già Tertulliano caro Christi caro Mariae.
Altro quindi è lo stare dall’altra parte della mensa della Madonna, altro è lo stare dall’altra parte della mensa di Giuda. Se lo stare in ginocchio dall’altra parte della mensa avesse il medesimo significato simbolico come lo spieghiamo che la Madonna è in ginocchio e dall’altra parte della mensa come Giuda? Evidentemente l’Angelico che era tutt’altro che disinformato in ambito teologico ha voluto dare un’altra ragione.
Tra i commensali seduti a mensa sul lato sinistro dell’affresco, il primo - san Giovanni - sta con le mani levate, invitando quasi a meditare sul Mistero qui celebrato: il Verbo in Cristo si è fatto carne, ma nel Sacramento si è fatto cosa (res), per dirla con San Tommaso che alla cultura dell’Angelico non era certo estraneo. Un secondo apostolo, accanto a lui, (variamente interpretato ma nel quale potremmo riconoscere Andrea o lo stesso Pietro) volgendosi verso Giovanni guarda però la Vergine, grazie a lei abbiamo la certezza dell’Incarnazione: Cristo fu vero uomo. Per questo la Madonna e Cristo hanno lo stesso colore negli stessi abiti (perché appunto la carne di Cristo è la carne di Maria). Ora Cristo dandoci la sua carne nel Sacramento, ci dà appunto - come dicevo nell’articolo - una iniezione di eternità. La sua carne è entrata nell’eternità, la sua carne - che è la nostra carne - è stata assunta dal Verbo perciò tutto ciò che è stato assunto è stato redento.
Ma per partecipare di questa carne è necessario l'incontro con Cristo e l’adesione a lui. Maria allora è l’exemplum - non di chi ha peccato ma, esattamente il contrario - di chi ha seguito Cristo come perfetto discepolo. Scrisse infatti sant’Agostino che la Madonna è grande non per essere stata Madre del Signore (quello è un privilegio che le è stato concesso) ma è grande perché è stata discepola del Signore. Ella concepì prima dalle orecchie che dal grembo.
Quindi la Madonna è in ginocchio nel segno forte dell’adorazione: "ad - os", portare la mano alla bocca e baciare. Ella sta bocca a bocca con quel Sacramento perché è stata con l’orecchio teso verso quel Signore che il Sacramento cela.
Dall’altra parte invece ci sono gli apostoli che anelano a questo, che sono - potremmo dire - alla sua scuola. Una scuola anzitutto di umiltà che è verità. Lo stare in ginocchio come seduti per terra, esprimeva nel medioevo anche l’umiltà, in quanto verità. L’essere humus, terra, quindi riconoscere pienamente la propria creaturalità: ha guardato all’umiltà della sua serva. È evidente allora che una è la verità della Vergine e altra quella degli apostoli o di Giuda.
L’indegnità poi degli apostoli di ricevere i Sacramenti l’ha palesata chiaramente l’Evangelista Giovanni il quale, non parla della Istituzione dell’Eucaristia, bensì della lavanda dei piedi. Cristo lascia intendere che è necessario che egli ci lavi i piedi e che non tutti siamo mondi.
Nelle predicazioni del tempo dell’Angelico, Sacramento della Confessione e Sacramento dell’Eucaristia erano strettamente legati, non c’era l’uno senza l’altro. Da qui lo stare in ginocchio viene inteso come disposizione al pentimento, condizione necessaria per essere in grazia di Dio (anche per chi si confessa). Certamente anche gli apostoli dovevano avere questa disposizione, pena la sorte di Giuda, la cui colpa non fu il tradimento (giacché in diverso modo e misura tradirono anche gli altri apostoli compreso Pietro), ma disperare della salvezza e non disporsi al pentimento.
Possiamo negare che l’Angelico guardasse così al Sacramento? O vogliamo leggere le opere del XV secolo con la mentalità del “cattolico” post moderno (e le virgolette non sono casuali)?
Dire per esempio - come mi è stato detto - che (cito testuali parole): «La presenza in ginocchio della donna nel cenacolo» sarebbe perché «anch'essa investita del potere di celebrare l'eucaristia», infatti «ai presenti (donna compresa) è stato detto "fate questo in memoria di me”», non sarebbe far dire all’Angelico quello che non avrebbe nemmeno potuto pensare o immaginare?
In realtà l’Angelico fu ardito nel collocare Maria nel Cenacolo perché come sappiamo ancora ai suoi tempi si discuteva se la donna avesse o no un’anima. E anche la donna più donna, la Madonna appunto, non veniva facilmente accostata all’altare o al Mistero dell’Eucaristia, amministrato solamente da uomini. Quello dell’Angelico fu uno sguardo contemplativo e teologico già innovatore ma non nel senso di un sacerdozio offerto alle donne come lo si è inteso nella sopracitata citazione. Questo sarebbe obiettivamente fuorviante.
Qualcuno poi attribuiva agli sgabelli vuoti e agli apostoli inginocchiati una funzione puramente estetica perché (e ancora cito): «Quale sarebbe stato l'effetto prospettico di avere tutte le figure in piedi schiacciati sulla parete, oppure avanti coprendo alcune delle figure retrostanti»?
Forse potremmo credere che accingendosi a un compito così grande l’Angelico non conoscesse Giotto? O Duccio da Boninsegna nella vicina Siena, dove la problematica era stata risolta benissimo e senza alcun imbarazzo? E che dire allora dello stesso soggetto realizzato dall’Angelico negli Armadi degli Argenti dove la prospettiva è totalmente diversa? (ma dove gli sgabelli vuoti ci sono ugualmente anche se non ce n’era un bisogno specifico dal punto di vista compositivo)?
Mi sembra che una posizione simile banalizzi un autore che ha voluto in-segnare con la sua arte al monaco la verità dei suoi gesti quotidiani e la profondità di sentimenti da coltivare rispetto all’opera di Salvezza del Salvatore, fra cui l’assillo per coloro che non potevano accostarsi alla mensa del Signore, la vita offerta per le anime, la riparazione per le comunioni sacrileghe (delle quali si parlava eccome al tempo dell’Angelico).
Oltre a tutto posizionare Giuda insieme ad altri apostoli, era una costante in opere che facessero riferimento alla tradizione domenicana ed era in aperto contrasto con altre tradizioni religiose e correnti teologiche. Giuda, per la tradizione domenicana, non era un predestinato, uno scelto per un compito necessario del quale tutto era già scritto, e dunque non era mai messo isolato e solo dall’altra parte della tavola alla maniera, ad esempio, di un Perugino. Era piuttosto inserito nel gruppo degli altri apostoli per sottolineare il libero arbitrio, l'assoluta libertà di Giuda nei confronti di Cristo dove, appunto anche a fronte del gesto estremo del tradimento aveva ancora la libertà e l’opportunità di pentirsi per essere salvato.
Un’analoga posizione la adottò più tardi Leonardo da Vinci nel suo famoso Cenacolo (sempre dentro a un convento domenicano), dove Giuda abbassa la testa sottraendosi volontariamente dalla linea prospettica dello sguardo di misericordia del Salvatore. E a proposito di quest’opera mi domando perché certe domande non furono sollevate dai più quando, all’uscita di una certa interpretazione della Cena vinciana da parte di Dan Brown, si dedussero cose del tutto incompatibili con l’ambiente storico e culturale di Leonardo. Forse perché tutto sommato Dan Brown diceva cose appetibili e più in linea con una certa mentalità da Gossip, cara a questo nostro tempo.
Anche io sono stata educata con il catechismo di Pio X e mi hanno insegnato a trattare con coscienza il sacramento dell’Eucaristia, eppure anche io non ho rispettato talora certi insegnamenti, essendomi lasciata affascinare in passato da altro genere di teorie e teologie, perciò non trovo strano che le persone sposate o come le fidanzate e le consacrate e i consacrati e i preti stessi abbiano bisogno di confessarsi prima di ricevere il Sacramento. Del resto «chi è senza peccato scagli la prima pietra», direbbe ancora oggi Gesù. Ma la mia annotazione, in ogni caso, era riferita (implicitamente) a quanti affermano che sono tanti i fidanzati che vivono una sessualità identica agli sposati e non per questo si astengono dal fare la comunione, oppure sono tanti gli sposati che cadono in adulterio eppure fanno la comunione e, allora, perché negarla a quanti vivono situazioni irregolari? Questi fanno alla luce del sole quello che altri fanno di nascosto (e questo, secondo alcuni, basterebbe per risanarli).
In realtà bisognerebbe rieducare a una confessione più frequente intanto perché il peccato “contra sexto” non è l’unico peccato, ce ne sono altri ben più gravi; e poi perché ciò che la Chiesa deve avere a cuore è la formazione della coscienza, tanto che cade in una implicita scomunica (potremmo dire in una auto scomunica) chi vive stabilmente e pubblicamente una condizione che, in coscienza, non dovrebbe essere ammissibile per un cristiano.
Con tutto ciò credo, e lo ribadivo anche nel mio articolo, sia necessario prendere in considerazione a livello del Magistero le tante situazioni irregolari e operare un discernimento su come risanare una così grande falla e una sbavatura del fatto cristiano nella famiglia senza precedenti. Il liberalizzare però non è mai stato un rimedio: non lo è stato nell’aborto, non lo è stato nella droga, non lo è stato con il divorzio non lo sarà nemmeno con una ammissione tout court dei divorziati e affini alla Comunione.
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