I fatti francesi e l'articolo di don Carrón sul "Corriere della Sera". Un amico di Tracce, scrittore e intellettuale milanese, racconta cosa lo colpisce. E da dove può partire quel «vero dialogo» di cui l'Europa ha bisogno
Ho letto tre volte l’articolo «La sfida del vero dialogo» di don Julián Carrónuscito sul Corriere della Sera lo scorso 13 febbraio. Le prime due volte - una da solo e una in compagnia - l’ho letto perché l’aveva scritto Carrón. La terza volta l’ho letto e basta, e solo in quel momento mi sono accorto della sua importanza.
Mi ha colpito la precisione con cui l’articolo identifica i problemi messi in luce dalla strage di Charlie Hebdo come problemi nostri, di tipo culturale, riguardanti cioè la concezione che anzitutto l’Europa ha di sé stessa. E mi ha colpito l’osservazione, capitale, che lega la missione e l’identità dell’Europa al recupero della sua radice popolare e al vero significato della laicità.
È vero: il rapporto tra ipotesi di vita diverse non è possibile sul piano astratto, ma solo in un’esperienza di popolo, cioè in una vita. La diversità diventa una premessa dei rapporti solo dove prevale l’ideologia. Dove, viceversa, prevale la vita, le possibilità si moltiplicano.
Mi ha colpito, nei giorni scorsi, in occasione del funerale di mio suocero, vedere in chiesa la sua badante, marocchina e musulmana, che ha pregato con noi parenti. Questa donna non ha pensato «io sono musulmana, questi qui sono cristiani», ha solo pensato che voleva bene a mio suocero.
La vita non ha precondizioni. La mia esperienza alla scuola “Oliver Twist” presso Cometa, a Como, a questo riguardo è molto precisa. Ci sono molte ragazze musulmane impegnate soprattutto nell’indirizzo tessile. Visto che gli altri indirizzi sono quello per baristi/camerieri/pasticceri e quello (prevalentemente maschile) per falegnami e decoratori, è comprensibile che una musulmana si rivolga al tessile.
Ma queste non sono premesse, precondizioni, sono solo caratteri di un’esperienza umana, religiosa perché umana. Una ragazza islamica non fa la cameriera, non serve carne di maiale. Ma, per il resto, queste ragazze sono perfettamente inserite nel lavoro e nella compagnia umana che lo sostiene.
Mi racconta il direttore Alessandro Mele che tra i diversi episodi che stanno all’origine della scuola “Oliver Twist” c’è anche quello delpapà di un ragazzino musulmano di terza media che frequentava il Doposcuola di Cometa. «O fate voi una scuola», disse, «o tengo mio figlio a casa».
Ora, io non voglio fare l’apologia di nessuno, però è chiaro che questo papà aveva un giudizio negativo non sul cristianesimo, ma sulla scuola italiana. E che la richiesta di fare una scuola nuova non nasceva dalle sue simpatie per il cristianesimo: nasceva da un atto di fiducia umana. «Questa», deve avere detto da sé, «è gente di cui ci si può fidare».
Ma la fiducia nasce nel concreto dell’esperienza, nasce dai fatti, dalla vita. Ci si fida di qualcuno che dice “io”, non di un robot. Se Cometa non vivesse la fatica quotidiana della vita, se non compisse ogni giorno l’ascesi di «amare la verità più di sé stessi» (le tre premesse del Senso religioso sono davvero la sintesi di tutta la nostra civiltà!), le «ragioni della vita«, come diceva Havel, lascerebbero immediatamente il posto alle «ragioni del potere».
Viceversa, dove prevale l’ideologia (qualunque ideologia) prevale il sospetto, e niente come il sospetto apre la porta al nulla.
Decenni di intellettualismo hanno devastato l’idea naturale della persona, dell’io, che nacque non da un esperimento astratto ma da un crogiolo di popoli e culture.
Se dovessi dar retta al mio intellettualismo direi che quell’unità non si può più ricostruire. Poi guardo la badante di mio suocero, guardo le ragazze di Cometa e mi accorgo che, dove la semplicità della vita prevale sull’ossessione dei distinguo, la persona e il dialogo rinascono.
Il dialogo è possibile, perché è qui, presente. Per questo, nonostante l’Isis, val la pena stare qui e lavorare: l’Europa è e continua ad essere un posto meraviglioso. Luca Doninelli
Mi ha colpito la precisione con cui l’articolo identifica i problemi messi in luce dalla strage di Charlie Hebdo come problemi nostri, di tipo culturale, riguardanti cioè la concezione che anzitutto l’Europa ha di sé stessa. E mi ha colpito l’osservazione, capitale, che lega la missione e l’identità dell’Europa al recupero della sua radice popolare e al vero significato della laicità.
È vero: il rapporto tra ipotesi di vita diverse non è possibile sul piano astratto, ma solo in un’esperienza di popolo, cioè in una vita. La diversità diventa una premessa dei rapporti solo dove prevale l’ideologia. Dove, viceversa, prevale la vita, le possibilità si moltiplicano.
Mi ha colpito, nei giorni scorsi, in occasione del funerale di mio suocero, vedere in chiesa la sua badante, marocchina e musulmana, che ha pregato con noi parenti. Questa donna non ha pensato «io sono musulmana, questi qui sono cristiani», ha solo pensato che voleva bene a mio suocero.
La vita non ha precondizioni. La mia esperienza alla scuola “Oliver Twist” presso Cometa, a Como, a questo riguardo è molto precisa. Ci sono molte ragazze musulmane impegnate soprattutto nell’indirizzo tessile. Visto che gli altri indirizzi sono quello per baristi/camerieri/pasticceri e quello (prevalentemente maschile) per falegnami e decoratori, è comprensibile che una musulmana si rivolga al tessile.
Ma queste non sono premesse, precondizioni, sono solo caratteri di un’esperienza umana, religiosa perché umana. Una ragazza islamica non fa la cameriera, non serve carne di maiale. Ma, per il resto, queste ragazze sono perfettamente inserite nel lavoro e nella compagnia umana che lo sostiene.
Mi racconta il direttore Alessandro Mele che tra i diversi episodi che stanno all’origine della scuola “Oliver Twist” c’è anche quello delpapà di un ragazzino musulmano di terza media che frequentava il Doposcuola di Cometa. «O fate voi una scuola», disse, «o tengo mio figlio a casa».
Ora, io non voglio fare l’apologia di nessuno, però è chiaro che questo papà aveva un giudizio negativo non sul cristianesimo, ma sulla scuola italiana. E che la richiesta di fare una scuola nuova non nasceva dalle sue simpatie per il cristianesimo: nasceva da un atto di fiducia umana. «Questa», deve avere detto da sé, «è gente di cui ci si può fidare».
Ma la fiducia nasce nel concreto dell’esperienza, nasce dai fatti, dalla vita. Ci si fida di qualcuno che dice “io”, non di un robot. Se Cometa non vivesse la fatica quotidiana della vita, se non compisse ogni giorno l’ascesi di «amare la verità più di sé stessi» (le tre premesse del Senso religioso sono davvero la sintesi di tutta la nostra civiltà!), le «ragioni della vita«, come diceva Havel, lascerebbero immediatamente il posto alle «ragioni del potere».
Viceversa, dove prevale l’ideologia (qualunque ideologia) prevale il sospetto, e niente come il sospetto apre la porta al nulla.
Decenni di intellettualismo hanno devastato l’idea naturale della persona, dell’io, che nacque non da un esperimento astratto ma da un crogiolo di popoli e culture.
Se dovessi dar retta al mio intellettualismo direi che quell’unità non si può più ricostruire. Poi guardo la badante di mio suocero, guardo le ragazze di Cometa e mi accorgo che, dove la semplicità della vita prevale sull’ossessione dei distinguo, la persona e il dialogo rinascono.
Il dialogo è possibile, perché è qui, presente. Per questo, nonostante l’Isis, val la pena stare qui e lavorare: l’Europa è e continua ad essere un posto meraviglioso. Luca Doninelli
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