Ricorrendo i dieci anni dalla sua scomparsa (22 febbraio 2005), siamo sicuri che don Luigi Giussani schiferebbe mirra e incenso sulla sua persona. Ci richiamerebbe a stare davanti al «Mistero che fa tutte le cose». E «a essere sempre nella vostra giornata appuntati sulla preghiera, sull’avamposto della domanda: la domanda è l’avamposto dell’uomo che va in battaglia». Così che, proseguiva il Giuss in una di quelle giornate – questa è del 2001 – a tu per tu con i giovani di Cl e non di Cl, «non so, fra 50 anni, fra 500 anni, ci abbiamo a ritrovare tutti nella consolazione che l’Essere porta a chi non Lo distoglie, nella affermazione del niente, dalla sua intensa partita».
Lungi dalla preziosa reliquia in cui lo si potrebbe incartare, defraudandolo della santità conclamata vox populi (e, noi pensiamo, tra dieci o cento anni dalla Chiesa certificata), il Giuss, come lo chiamavano tutti, è un fenomeno della natura dove la natura prende coscienza infallibile del proprio desiderio e destino: Gesù Cristo.
Dalla sua vita, «dalla mia vita alla vostra», diceva senza mai confondere se stesso con Colui che lo portava, e, anzi, ripugnando ogni forma di personalismo, è sgorgata una fonte per la persona, è sgorgato un popolo; è sgorgato un movimento “sorgivo”, come ha detto del carisma giussaniano il cardinale di Milano Angelo Scola.
Cristianesimo che ha incendiato, in primis, ragazzi delle superiori e ragazzi universitari che, dal 1954, Giussani seguì a migliaia, seguì uno a uno, dando tutto, con passione del “rendere ragione” e sbalorditivo impeto umano. Al punto che un medico tedesco che lo visitò agli inizi della sua lunga malattia gli domandò quanto avesse parlato e fatto nella vita per ridursi in quello stato di limone spremuto, senza fiato. E gli ordinò di tacere.
Tacere? «Ma la mitraglia non la mollo», usava dire quando salute o potenze laiche e clericali cospiravano al bel mettere a tacere la sua “povera voce” («il nostro canto più bello» diceva Giuss, scritto da una delle sue prime ragazze al liceo Berchet, Adriana Mascagni). Ma poi, quale “mitraglia”?
Così, se «è questa carenza atroce che si nota in voi, come giovani d’oggi, questa carenza tremenda di stupore di fronte alla bellezza, di capacità ricettiva della bellezza». Se «l’esito che invece vi colpisce è quello che provoca una pura reattività. L’esito con cui le cose vi raggiungono è quello di una reattività: vi provocano una reattività e vi bloccano in voi stessi… Lo stupore, il ricevere la bellezza è l’inverso… si chiama estasi, essere nell’altro… La vostra è una incapacità di estasi, ma diciamolo con un termine più banale, è una incapacità di affezione». Ed «è l’incapacità di affezione quella che vi impedisce la decisione». Ecco la “mitraglia”: l’affezione. Tant’è. «Se qualcheduno, invece che prendere spunto dalle categorie del movimento per fare le sue filosofie o le sue dottrine, svolgesse una dottrina dell’esperienza del movimento – ma dovrebbe essere uno capace di estasi – la chiave di volta di quella dottrina sarebbe la parola “affezione”».
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