sabato 3 ottobre 2015

Leggere Scola e scoprire la cosa più indecente di papa Francesco: la fede in Cristo

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È bello avere un vescovo così. Parlo del cardinale di Milano, Angelo Scola (lo ha intervistato, sulla prima pagina del Corriere della Sera, Aldo Cazzullo). Perché c’è nel suo dire la luce di una ragione calma e profonda. Si vede che ha incontrato non una teoria su Gesù, ma Cristo stesso. Il quale dona a chi lo frequenta anche “un pensiero forte”, che non è affatto il contrario della tenerezza. La misericordia non è svenevolezza da “animulae blandulae”, è la solidità del padre che ti accarezza.
Non ho mai letto una apologia di Bergoglio-persona e del suo ministero petrino più profonda e meno lecchina di questa. Scopre la cosa più indecente e meno detta di Francesco, quasi fosse un ammennicolo civettuolo: la sua fede in Gesù Cristo. «È un grande uomo di fede», ha il «carisma del popolo» (e il carisma è cosa che viene dallo Spirito, vuol dire grazia). Insomma: la Provvidenza ha voluto questo Papa, non il potere mondano o un’interferenza, discorso chiuso, anzi magnificamente aperto. Si tratta di immedesimarsi con il suo insegnamento, di «uno che parla con autorità», come Gesù. Non ha paura di questo paragone “audace”, Scola.
Con intelligenza e senza alcuna teatralità, ma con la logica disarmante della sincerità, scopre gli altarini demoniaci dell’ideologia che pretende di ingabbiare papa Francesco come un canarino rosso. Non adopera mezze frasi: il cardinale, dalla cattedra dei santi Ambrogio e Carlo, e dei beati Ferrari, Schuster e Montini, a questo punto denuncia «l’uso che si fa di questo papato». Sia da parte di laudatores che di scomunicatores.
L’uso – e qui è tutta farina di Boris, Scola non c’entra – è di due tipi, opposti e in fondo uguali. Il primo è quello più evidente: ed è appunto il trasformare il magistero bergogliano in una decalcomania devota al progressismo dei nuovi diritti, per cui il sentimento amoroso è la sola sostanza della vita e delle cose. Il secondo uso è apparentemente il suo contrario, ma in realtà accetta questa deformazione, e ne cava il pretesto per dichiararlo anti-Papa e proclamare che il cattolicesimo non è più utile neppure come cemento di valori morali. Questa idea coinvolge anche teste nobili, ma tragicamente convinte di una sorta di primato intellettuale persino nei confronti dello Spirito Santo.
La posizione giusta non sta nel mezzo, cioè in un terzo schema, in una ideologia mediana. Ma nel primato della persona. Tu e Boris. Noi non siamo – afferma Scola – categorie, ma persone. Non siamo omosessuali con certi diritti da riconoscere più o meno, oppure appartenenti alla corporazione degli eterosessuali. O magari nella casta degli sposati felici, con certe pretese e certi doveri, oppure in quella dei divorziati risposati a cui si deve studiare se passare l’eucarestia come diritto. Ogni persona, ogni rapporto è un unicum.
Persino il dramma non è mai identico. Lo scriveva, a proposito delle famiglie infelici, già Tolstoj nell’incipit di Anna Karenina. E Scola attacca il pelagianesimo di chi ritiene che l’indissolubilità del matrimonio cristiano sia legata alla buona volontà. Ma no. Essa è possibile, e c’è, perché costruita sacramentalmente da Cristo. E non si tratta allora di rendere facile lo sciogliere il vincolo con il consenso del vescovo. Ma di vedere se esso c’era in origine. Perché se c’era, c’è. E se non c’era, meglio non ingarbugliare le trafile.
E le unioni omosessuali? Scopro con Scola che trasformarle in una categoria sociale disperde persino il tesoro di un amore tra due persone dello stesso sesso, banalizzandolo, riducendolo a problematica sociale. E invece anche lì. Ogni storia è unica. E perché non proporre di vivere un cammino difficile di castità, un sacrificio d’amore. È così bella la strada dell’obbedienza alla sorgente. Con questo pensiero forte in testa, Boris si sente pieno di tenerezza, disposto ad andare in giro disarmato. La bella ragione.

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