Appunti
dalla Giornata d’inizio anno di Gioventù Studentesca
con Julián
Carrón
Milano, Basilica di San Marco, 4 ottobre 2015
Canti: Ballata dell’amore vero
La strada
Alberto Bonfanti
Benvenuti a questo gesto con cui iniziamo
insieme un nuovo anno. Saluto tutti voi qui presenti, ringraziando di cuore il
parroco, don Luigi Testore, per l’ospitalità in questa bellissima chiesa, e
saluto tutti coloro che sono collegati. Ci sono trentadue collegamenti in
Italia e otto all’estero: da Lugano e da Friburgo in Svizzera, da Barcellona e
Madrid in Spagna, dalla Lituania, dalla Gran Bretagna, dall’Irlanda, dal
Portogallo. Don Giussani ci dice provocatoriamente, e ce lo ha ricordato Davide
Prosperi sabato scorso alla Giornata d’inizio anno degli adulti: «La giornata
più bella della settimana è il lunedì, perché il lunedì si riinizia, si
riinizia il cammino, il disegno, si riinizia l’attuazione della bellezza, della
affezione» (L. Giussani, Dal temperamento un metodo, Bur, Milano 2002, p. 31).
Anche noi abbiamo ricominciato pieni della bellezza che abbiamo vissuto in
vacanza e che tanti di voi hanno documentato, delle domande che i fatti
accaduti hanno fatto emergere, talvolta in modo drammatico, del desiderio di
comunicare ai nostri compagni questa bellezza che abbiamo vissuto, ma anche,
per alcuni, della paura di perdere questa bellezza dentro la routine della
quotidianità, che a volte sembra soffocare ogni desiderio. Dentro tutto questo
la sfida che tu, Julián – ti ringraziamo perché ci accompagni anche in questo
inizio –, ci hai lanciata al Triduo pasquale, a partire dalla quale ci siamo
convocati e abbiamo già dialogato con alcuni di voi a Cervinia insieme al
nostro amico Davide, è quanto mai attuale: «La realtà, insieme al cuore, è la
nostra grande alleata». Insieme al cuore, cioè insieme a quel desiderio di
felicità, di verità, di bellezza che non possiamo strapparci di dosso, la
realtà è la nostra alleata. Dai vostri contributi emerge un impegno serio a
verificare questa sfida e a fare i conti con le domande che nascono da questa
verifica. Abbiamo scelto alcuni interventi, alcune domande per aiutarci in
questa nuova avventura che si è aperta per ciascuno di noi, certi della
positività di ciò che ci attende. La prima domanda la leggo io, perché la
persona che l’ha mandata preferisce così; ci sembra importante per la questione
che pone. «Rispetto alla Giornata d’inizio spesso al Raggio emergono degli
interventi in cui si dice che in ambienti come quelli sportivi o in una vacanza
da soli, per esempio, la realtà risulta immediatamente come vuota di senso. A
questo spesso si risponde dicendo che anche questa realtà, se guardata fino in
fondo, è una possibilità per capire di più e per vivere quello che diciamo a
GS. Io vivo una situazione familiare complicata. A me sembra che nelle
circostanze in cui vivo quotidianamente ci sia continuamente un vuoto di senso,
che viene colmato saltuariamente nelle esperienze di CL. Questo spesso mi fa
arrabbiare, perché quando sto male, di solito a causa di attriti familiari,
appunto, sto ancora più intensamente male perché provo nostalgia per i momenti
di vita autentica vissuti, tant’è che, paradossalmente, preferirei non avere
conosciuto GS per abbandonarmi all’idea dei miei parenti: che non c’è nulla.
Tuttavia capisco che questa posizione non mi corrisponde, perché io sono
esigenza di significato, quindi la mia domanda è: come è possibile che questo
vuoto possa essere colmato sempre nella mia vita?»
Julián Carrón.
Buon pomeriggio a tutti. Sono
particolarmente contento di poter continuare il cammino insieme perché, da
quando vi ho mandato il messaggio in cui vi dicevo che la realtà, insieme al
cuore, è la nostra grande alleata, tanti di voi l’hanno preso sul serio, e così
sono emerse molte domande. Siamo compagni di cammino per questo. La nostra non
è una compagnia sentimentale, non siamo insieme per piangerci addosso o per
guardarci tra di noi. La nostra compagnia è per vedere se quello che ci diciamo
ci aiuta a entrare nel reale. Se non ci aiuta a vivere, se non percepiamo lo
stare insieme, l’appartenere a questa amicizia come pertinente alle esigenze
della vita, come ci ha detto sempre don Giussani, prima o poi questa compagnia
non ci interesserà più. Quando invece uno la prende sul serio, comincia a
vedere quanto possono essere pertinenti le cose che ci diciamo alle domande che
la vita ci pone, alle domande che sorgono nel nostro cuore, come dice la
lettera che ha appena letto Albertino. Vorrei partire chiarendo che cosa
significa per me la parola «alleata». Nella nostra immaginazione tante volte
pensiamo che una cosa ci è alleata perché toglie meccanicamente le difficoltà
del vivere; per questo, quando le cose non vanno così, quando i problemi non si
risolvono meccanicamente, diciamo: ma allora come può essere alleata la realtà?
Questa domanda ci fa iniziare un cammino. E già così la realtà si dimostra
alleata, perché fa emergere il nostro io, le nostre domande, la nostra ragione,
la nostra libertà; ci aiuta a renderci conto che non c’è nulla di meccanico, di
automatico nell’uomo. Perché tutto passa attraverso la libertà; tutto è una
possibilità, come dice la lettera, davanti alla quale si gioca la nostra
libertà. La realtà può essere percepita semplicemente come vuota di senso
oppure, se guardata fino in fondo, dice la nostra amica, come una possibilità
per capire di più. La realtà è una cosa vuota di senso o una possibilità? Chi
potrà scoprirlo? Forse chi fa girare la testa a vuoto? No. Chi rischia, chi
corre il rischio di verificare se, in quello che percepisco come privo di
senso, c’è una possibilità che non immagino e non intuisco. E allora le
circostanze cominciano a diventare alleate perché ci provocano, diventano per
noi una provocazione. Ma devo decidere: vuoto di senso o possibilità? Chi
potrebbe mettere la mano sul fuoco che la realtà è assolutamente priva di
senso? Io vi sfido! Dovete prendere sul serio le vostre domande. Chi può essere
così certo che quello che in taluni momenti ci appare come privo di senso lo è
realmente? Quante volte vi è già capitato nella vita, anche se siete ancora
giovani, di scoprire come reali delle possibilità che non vi erano passate
neanche per l’anticamera del cervello? Che aiuto ci dà Shakespeare quando dice:
«Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, che non nella tua filosofia»
(cfr. W. Shakespeare, Amleto, atto I, scena V)! Come possiamo scoprirlo? Solo
se accettiamo come una provocazione positiva le circostanze attraverso cui la
vita ci fa passare. Perché questo è decisivo? Perché ne abbiamo bisogno? Perché
l’esperienza elementare dell’uomo – cioè quella struttura che ci portiamo
addosso dalla nascita, fatta di evidenze ed esigenze di verità, di bellezza, di
bontà, di felicità − ha bisogno di una provocazione per risvegliarsi. Occorre
una provocazione che venga dal di fuori di noi per risvegliare il nostro io,
per strapparci al nostro torpore in cui tante volte cadiamo. Don Giussani,
infatti, ci diceva che l’«esperienza umana originaria», cioè quello che noi
siamo, questo complesso di evidenze e di esigenze per cui io sono uomo, «non
esiste attivamente, se non dentro la forma di una provocazione.[...] Vale a
dire dentro una modalità in cui è sollecitata» (Dall’utopia alla presenza.
1975-1978, Bur, Milano 2006, p. 193). Quindi il problema veramente radicale è
che ci sia una provocazione tale che favorisca la percezione di me stesso come
un io che desidera tutto. Sono certi incontri, certe circostanze che mettono in
azione la nostra coscienza, la natura originale del nostro io. Lo vedete quando
una persona vi piace: in quel momento comincia a emergere tutto il vostro io
con tutte le sue esigenze, con tutta la sua capacità di vibrare davanti a uno
sconosciuto che vi attira, vi sollecita e vi provoca con la sua presenza, con
la sua bellezza; non c’è alcuna possibilità di cancellarlo, tanto vi fa essere
voi stessi. L’altro ci provoca a essere noi stessi. La stessa cosa capita in
ogni circostanza. Le circostanze sono provocazioni che risvegliano il tuo io,
la tua esigenza di capire, di scoprire il significato di tutto; ti destano delle
domande. E solo chi prende sul serio queste domande, solo chi vede emergere in
sé queste domande è in grado di intercettare la risposta. Infatti solo quando
abbiamo delle domande siamo in grado di intercettare le risposte. E se la
persona che ha scritto la lettera fa attenzione, si rende conto che in quello
che vive ha già un inizio di risposta: riconosce di avere vissuto momenti di
vita autentica, e proprio per questo prova una nostalgia di quei momenti. Non è
che non le sia accaduto niente, ha vissuto momenti di vita autentica per i
quali sente una nostalgia che non riesce a togliersi di dosso, ma poi, davanti
alle difficoltà del vivere, preferirebbe non averli mai vissuti e abbandonarsi
all’idea di quelli che la circondano. Occorre decidere, ragazzi! Dovete
scegliere: essere disponibili ad assecondare quello che avete visto con i
vostri occhi o seguire quello che vi dicono gli altri. Volete vivere la vostra
vita o preferite che qualcuno la viva al posto vostro? Se non cominciate a
decidere di vivere voi, ci sarà sempre qualcuno che vi prenderà in giro. Dovete
decidere, perché voi avete vissuto momenti di vita autentica, li avete visti
con i vostri occhi, li avete sentiti vibrare nelle fibre del vostro essere. E
se qualcuno ti dice − come nella canzone Barco Negro (musica Caco Velho e
Piratini, testo D. MourãoFerreira) −: «Sei matta», «são loucas» (sono pazze),
tu rispondi: «Sei matto tu, tu lo sei! Io sono veramente certa di quello che mi
è capitato». Perché ne sei così certa? Se fate attenzione a voi stessi, trovate
in voi lo spunto della risposta: perché quello che ti dicono gli altri non
corrisponde a te come quello che ti è capitato. «Capisco che questa posizione»,
dice lei, «non mi corrisponde perché io sono esigenza di significato». Allora
decidete! La vita non vi maltratta e voi non siete dei poveracci che non hanno
mai visto niente di veramente chiaro, vivo, attraente, affascinante; lo avete
visto e vissuto, tanto è vero che se gli altri vi dicono: «Siete pazzi», questo
non vi corrisponde perché voi siete esigenza di significato.Vedete come la
realtà vi è alleata? Ma questo non è meccanico, perché occorre che ciascuno
assecondi la provocazione della realtà; così potrò vedere emergere davanti ai
miei occhi che cosa è la realtà, che cosa sono io e quale promessa mi offre la
realtà per il compimento del mio io. Quest’estate è stata una delle più
significative per me. Sono riuscita a tenere presente quella promessa,
quell’incontro che ho avuto e che riaccade quando sono in questa compagnia.
Grazie alla vacanzina e alla vacanza degli adulti mi sono resa conto sempre di
più che la realtà non è mia, ma è per me; mi entusiasma pensare che, qualunque
cosa accada, la realtà sarà sempre lì. Tutto cambia, però, da come ti poni
davanti ad essa. È questo il mio problema, perché all’Equipe di GS Davide
Prosperi ci ha detto che è un bene tornare con delle domande, ma io ne ho una
sempre presente che mi spaventa: come posso mantenere tutto ciò? Come posso
continuare a vivere con questa consapevolezza che la realtà è per me? Io sapevo
che dopo l’Equipe e dopo un’estate così vera non ce l’avrei fatta a mantenerla,
e per evitare questo mi sono buttata in tutto ciò che stavo facendo,
soprattutto le attività di GS, perché è l’unica compagnia che mi aiuta, come
diceva Prosperi, a portare il fardello della mia umanità. Con l’inizio della
scuola sento che si è annullato tutto quello che avevo costruito; sapevo che
sarebbe successo, ma non pensavo sarebbe accaduto così presto. Come posso
riuscire a non perdere il mio incontro ogni volta che la realtà mi si pone
davanti? È vero che tutto si è annullato? Rispondimi sì o no. No. «No». Non
potete mentire a voi stessi. Un pochino. Un pochino, ma non si è annullato
tutto, tanto è vero che tu sei qui a fare la domanda. Se si fosse annullato
tutto, tu non saresti qui e non desidereresti di non avere perduto quello che
ti è capitato. Dunque, il primo dato da riconoscere è questo: non tutto si è
annullato, come invece tante volte pensiamo. È molto importante rendersi conto
di questo: il fatto stesso che tu abbia posto la domanda indica che non si è
cancellato dal tuo io quello che hai incontrato. A voi questo sembra quasi
nulla; e invece è cruciale. Perché? Perché resta qualcosa di quello che io ho
visto, di quello che mi è capitato; un evento non si può cancellare del tutto
dalla vita. È importante rendersene conto, perché in questo modo cominciamo a
non spaventarci più quando sembra che tutto sia crollato. Quando vi prende
quella paura, guardatela in faccia e domandatevi: è vero o non è vero? Voi non
dovete perdere l’occasione. Quando vi viene il sospetto che tutto sia stato
annullato e cancellato, che tutto sia un’illusione, che tutto sia stato un
sogno, guardate in faccia tutto questo ponendovi la domanda: è vero o non è
vero? Se non giudicate se è vero o no ciò che pensate, voi andate in tilt. Se
invece giudicate ogni volta che vi assale il dubbio, vi scoprirete sempre più
convinti che non è stato unsogno, che non è stato tutto cancellato. Anzi,
percepirete che, quando vi sorge questa domanda, è un’occasione preziosa per
riscoprirlo ancora, per rendervi conto di quanto è consistente, di quanto dura
ciò che avete visto e vissuto. Non dovete autoconvincervi, non dovete
raccontarvi delle frottole, non dovete credere a delle “visioni”, semplicemente
dovete prendervi sul serio e domandarvi: è vero o non è vero quello che io ho
vissuto, è vero o non è vero che quello che ho vissuto non è stato cancellato?
Una persona che ha incontrato la comunità cristiana e poi se ne è andata via
per anni, addirittura dopo diciassette anni, come mi raccontava un amico,
telefona agli amici di un tempo dicendo: «Ma vi vedete ancora?», «Sì». «Posso
venire anch’io?». Dopo diciassette anni! «Certo, come mai?». «Perché ho troppa
nostalgia!». Sembrerebbe che, dopo diciassette anni, non fosse rimasto nulla,
ma quella persona ha visto quello che ha visto, ha visto che c’è un luogo di
vita, ha visto che c’è un’esperienza e ha visto che tutti i suoi tentativi
fatti andandosene non sono riusciti a dargli neanche un minuto di quella
pienezza che aveva vissuto. Noi non abbiamo alcun problema con la realtà, noi
non abbiamo paura delle sfide, perché è proprio affrontando le circostanze che
vediamo la differenza fra Cristo e qualsiasi altra risposta, ma lo scoprirà
solo chi non ha paura di verificarlo nella realtà. Per questo mi colpisce
sempre la vicenda del figliol prodigo: si sentiva stretto in casa e se ne è
andato. Uno potrebbe pensare: è finito tutto. Ma quando si trova in mezzo ai
maiali non può evitare di pensare: «Nella casa di mio padre io stavo bene e
perfino i suoi garzoni vivono infinitamente meglio di me che sono qui a
mangiare delle ghiande con i maiali» (cfr. Lc 15,16-17). È una visione, la sua?
È un’illusione? È fantascienza? Non può dimenticare l’esperienza vissuta nella
casa del padre, che sembrava cancellata da tutte le sciocchezze che ha fatto.
Quell’esperienza era stata totalmente annullata, come dice la nostra amica? No,
perché proprio quanto più si è allontanato tanto più gli è venuta una nostalgia
matta di casa. Dio non gli ha mandato un angelo a dirgli: «Poveretto!». Dalle
viscere del suo io è scaturito un desiderio di felicità e di pienezza: «Io qui
vivo come un maiale quando potrei vivere come un figlio»; e tutto si ripropone
con ancora più intensità dell’inizio: se il cristianesimo fosse solo una
invenzione per coloro che non hanno provato nulla della vita, dopo avere
provato tutto, uno dovrebbe essere veramente convinto che tutto è finito. Ma
proprio in quel momento si ripropone tutto ancora con più potenza. Dopo che
abbiamo verificato tutti i nostri sogni, tutte le scorciatoie che abbiamo
immaginato per raggiungere più in fretta la nostra felicità, proprio in quel
momento appare tutta la diversità del cristianesimo. E allora ci si domanda:
l’unica alternativa è fare sciocchezze? Andarsene via per diciassette anni? No,
c’è un’altra possibilità: quando uno sente questa tentazione può guardarla in
faccia, come dicevo prima.Con quello che mi è capitato e che non è annullato
del tutto, posso giocarmi ancora la partita in questo nuovo inizio. Le
circostanze ti sono date perché, giocandotela di nuovo, tu possa diventare
sempre più certa. È solo per gli audaci la vita cristiana. Se preferite una
vita facile, andate a cercarla da un’altra parte. L’esperienza cristiana è solo
per chi ha il desiderio di vivere un’avventura nella quale non ci raccontiamo
delle frottole e siamo costantemente invitati a verificare quello che ci
diciamo. Ma per verificarlo occorre giocare sempre di nuovo la partita. E,
secondo, giocarla insieme agli amici; non siamo lasciati da soli con i nostri
tentativi, perché siamo all’interno di un luogo che costantemente ci rilancia,
ci accompagna,risponde alle domande. E così la vita diventa un’altra cosa. Alla
fine dell’estate mi sono ritrovata con una voglia matta di tornare a scuola,
perché per la prima volta ho sentito l’esigenza di verificare se la bellezza
ela felicità che avevo vissuto durantela vacanza di GS e al Meeting fossero
veramente parte della realtà, una realtà che per mecomprende per prima cosa la
scuola. Se è vero ciò che vivo in questa compagnia, lo deve essere in ogni
circostanza, tanto da sentire il desiderio di stare seduta di fronte al mio
professore con lo stesso cuore aperto che ho durante una passeggiata in
montagna. Da quando è iniziata la scuola mi sto rendendo conto che la sto
vivendo a cuore aperto. L’ho percepito quando ho iniziato a sentireil bisogno a
fine lezione di uscire di classe e andare a raccontare la mia mattina a una mia
amica di GS, a lei come alla mia compagnia. E tutto ciò mi pare bellissimo,
perché finalmente queste due realtà che erano distinte, la scuola e GS, adesso
sono una cosa sola e sento che, senza il sostegno e soprattutto la presenza dei
miei amici, questa realtà che adesso sento alleata e vicina sarebbe distaccata
e avversa. Questo inizio scolastico, inoltre, ha suscitato in me diverse
domande, soprattutto in relazione al rapporto con la mia compagna di banco, la
quale, ogni volta che finiva una lezione a mio parere bellissima, mi mostrava
la sua reazione apatica e annoiata, tanto da farmi mettere in dubbio ciò che
avevo appena vissuto. Inizialmente mi è sembrato un limite, ma proprio in
questo mi sono resa conto che non doveva esserlo e che, anzi, doveva essere
qualcosa da cui partire, una sfida.Allora mi sono chiesta,e mi chiedo tuttora,
com’è possibile che lei, che ha un cuore come il mio e vive la mia stessa
realtà scolastica, non riesca a vedere in ciò che viviamo quello che vedo ioSecondo
te, perché? Qual è il punto di partenza per rispondere a questa domanda, quando
vediamo che noi abbiamo una serie di esigenze che, a volte, gli altri non
riconoscono come loro esigenze o quando noi vediamo certe cose che gli altri
fanno fatica a riconoscere? Qual è il punto di partenza per rispondere a tali
questioni? La mia esperienza. Bravissima! La tua esperienza. La tua esperienza!
Anni fa un universitario domandò a don Giussani qualcosa di simile: «Se […] mi
rivolgo all’altro, al compagno che incontro in università, e quello a un certo
punto mi dice: “Guarda, questo è un bisogno tuo, ma non è un bisogno mio”?».
Don Giussani gli rispose: «Chi ti risponde così è sotto anestesia. Perché? Come
fai a saperlo? Tu sai che cosa c’è nel cuore dell’uomo, perché è in te […]. E
tu capisci che l’altro non capisce quel che capisci tu perché è bloccato, è
anchilosato, è paralizzato, ha il cuore paralizzato» (L’io rinascein un
incontro. 1986-1987, Bur, Milano 2010, pp. 364-365).In te certe esigenze si
sono destate in un certo momento della tua evoluzione umana, del tuo percorso
umano, perché è successo qualcosa, perché ti è accaduto un incontro, qualcosa
te le ha risvegliate. Allora tu non devi giudicare la tua compagna,
semplicemente devi aspettare che la tua compagna abbia la possibilità di
scoprirlo, come è capitato a te. È questa la portata della nostra esperienza:
come questa tua compagna può essere sfidata a scoprirlo? Solo se prima di tutto
rispondi al bisogno che hai tu, come dicevi all’inizio, di verificare se la bellezza
e la felicità che avevi vissuto nella vacanza o al Meeting sono veramente parte
della realtà, «se è vero ciò che vivo all’interno della compagnia». Tu ne hai
bisogno prima di tutto per te, non solo per rispondere alla tua compagna. La
prima questione siamo noi. E proprio perché rispondi a te stessa, potrai
mostrare alla tua compagna qual è la novità che Cristo introduce nel modo di
vivere il reale. Tu la sfidi vivendo quello che ti è capitato; verificando
quello che ti è capitato, tu la stai sfidando: «Vedi come è possibile vivere
diversamente lo studio, vivere i rapporti con le compagne, vivere le
difficoltà, vivere la stanchezza, vivere il quotidiano che ci schiaccia?». E
allora capisci il metodo di Dio, che è lo stesso da sempre: Dio dà la grazia a
una persona perché raggiunga tutti, la dà a te perché tu la comunichi a tutti i
tuoi compagni. E tu non devi fare chissà quale proclama a lezione, tu devi
semplicemente vivere, così che gli altri possano vedere quale novità introduce
nella vita Cristo. Non lo scopriranno perché tu lo dici a parole e lo spieghi,
perché se non lo vedono in te, nel modo con cui tu reagisci alle cose, non
potrà scattare in loro la domanda: «Perché vivi così? Da dove nasce questa tua
novità? Da dove nasce il fatto che tu entri in classe contenta e che, avendo a
che fare con le nostre stesse sfide, le vivi diversamente? Perché tu non
tistanchi mai di ricominciare?». Queste domande ti offrono l’opportunità di
rispondere. I tuoi compagni hanno le tue stesse esigenze, ma hanno bisogno,
come dicevamo prima, di una provocazione adeguata per scoprire tutte le
possibilità del vivere che ancora non conoscono. E come il Signore lo ha dato a
te, a un certo punto lo darà anche a loro. Mi stupisce sempre lo spettacolo del
rispetto di Dio per la libertà di ciascuno di noi: invece di arrabbiarti con i
tuoi compagni o di confonderti perché non capiscono, pensa a Dio che bussa
senza sosta e aspetta come un mendicante la nostra risposta.Io vi sfido a
trovare qualcuno che ama così tanto la vostra libertà, che ama così tanto la
libertà dei vostri compagni. Noi non possiamo amare la libertà dei nostri
compagni meno di come la ama Dio. Quest’estate ho subito una grossa ferita
affettiva. Ciò che mi ha colpito particolarmenteèche questo rapporto era
diventato per mel’occasione principale che Cristo sfruttava per incontrarmi,
per farsi presente nella mia giornata, cambiandola in meglio e rendendola piena.
Quando questo rapporto si è interrotto lo strappo per me è stato molto
doloroso, sia emotivamente sia perché mi sono sentito tradito da Lui. Da chi?
Da Cristo. Malgrado la ferita profonda, ho chiesto aiuto ai miei più cari amici
che, semplicemente stando con me, mi hanno aiutato ad affrontare la situazione.
Scemata l’emozione, mi sono trovato a fare un bilancio di quello che mi era
successo e mi sono reso conto che la realtà, nonostante il dolore, era stata
mia alleata, perché i rapporti con i miei amici e con i miei genitori erano
cresciuti in questa situazione, ma soprattutto il mio rapporto con Cristo era
rinato. Nel dolore avevo deciso coscientemente di non recitare le Lodi e questo
no a Lui era la prova che era nata in me la coscienza di dipendere da Lui,
perché se gli dico di no vuol dire che ha una qualche sostanza. Vedete come
rimane? La mia domanda nasce con l’inizio della scuola; la quotidianità mi sta
schiacciando, mi sta appiattendo in una apatia che non mi sta lasciando vivere
quel rapporto con Lui che mi è diventato vitale,ed è una cosa assurda. Nel
momento in cui stavo male riuscivo a viverlo in un certo modo e adesso, nella
quotidianità normalissima che ho sempre vissuto, non ce la faccio e per me
questo è assurdo. Non sapere come vederLo, come trovarLo nella mia giornata mi
sta confondendo. So che ho bisogno di Lui, perché ho visto che nel doloreil
rapporto con Cristo ha trasformato la mia ferita in un’occasione per me, ma se
ora, nella banalità quotidiana, non riesco più a coglierela Sua presenza, basta
un nulla per farmi cadere. Come faccio a coglierLo nella giornata? E
soprattutto, come faccio ad arrivare a una costanza in questo rapporto con Lui
che resista alle circostanze? Quello che mi stupisce è prima di tutto questa
tua affermazione: «Nel dolore avevo deciso coscientemente di non recitare le
Lodi», proprio perché avevi il sospetto che in fondo Cristo ti avesse tradito,
ma molto acutamente osservi: «Ma questo mio no a Lui era la prova che era nata
in me la coscienza di dipendere da Lui», perché uno dice di no quando è già
incominciato un rapporto. Il no lo devo dire a qualcuno. Perfetto! E questo è
fondamentale, perché in tanti si sarebbero arrabbiati perla loro incoerenza
avendo visto soltanto il loro no, come dire: «Io, malgrado questo, ho detto di
no».Invece lui, non fermandosi all’apparenza, è andato più a fondo e ha detto:
«Ma il mio no è la prova che già è iniziata una familiarità con Lui e sono
cosciente di questo proprio perché dico di no, perché posso dire di no».Vedete
che nella vita, nell’esperienza che noi viviamo, tutto serve? E questo suo esempio
è impressionante, perché anche un no, se uno se ne rende conto, serve; infatti
gli consente di essere ancora più consapevole di Colui a cui dice di no. Domani
gli dirà di sì, non preoccupatevi di questo. La questione è che io ho già
cominciato un rapporto, che non mi concepisco totalmente autonomo, che non mi
concepisco da solo.Io ho iniziato a vedere la verità di quello che dicevamo
citando Guccini: «Non sono quando non ci sei», quando non ci sei sono da «solo
coi pensieri miei» (Vorrei, parole e musica F. Guccini). Perché mi piacciono
queste espressioni? Perché dicono che, proprio quando ci concepiamo in
autonomia totale e isolati come individui senza rapporti, l’esperienza
elementare mi dice che io sono più io quando tu ci sei, quando entra nella mia vita
un tu − un amico, la persona amata, la madre −; io sono quando tu ci sei.Che
una persona cominci a sperimentarlo è cruciale. Posso avere momenti in cui dico
di no per la mia fragilità, per la mia stupidaggine, per la mia testardaggine,
ma ho già cominciato a vedere qualcosa di più interessante di tutti i miei no:
c’è uno con cui io sono di più io, c’è uno che mi rende più me stesso, come è
capitato al figliol prodigo: ha percepito che c’è un luogo, un rapporto più
decisivo per vivere che qualsiasi altra cosa, cioè la sua casa e suo padre;
potrà fare tutte le stupidaggini del mondo, ma non potrà evitare di ritornare a
casa, da suo padre. Pensate a san Pietro: poteva sbagliare tante volte, ma
aveva visto, e infatti dice a Gesù: «Dove vado senza di te, Cristo?». Questo è
più importante di tutto il resto, compresi tutti i nostri no. Nel tempo,
secondo un disegno che non è il nostro,secondo un cammino ancora tutto da
scoprire, grazie alla pazienza infinita che Cristo ha con ciascuno di noi, un certo
giorno arriveremo a dire anche noi, come Pietro − dopo che Gesù gli ha
domandato: «Ma mi ami tu?»; glielo ha chiesto dopo che Lo aveva rinnegato
davanti a tutti −: «Non so come, ma tutta la mia tenerezza è per te,
Cristo,tutto il mio io è legato a te» (cfr.Gv 21,15-17). Sarà la vittoria anche
in voi del legame con Cristo, sarà la vittoria dell’affezione a Cristo. Tutta
la mia affezione è per te, Cristo. Pietro non si è spaventato dei tanti sbagli
che aveva fatto perché, attraverso tutti i suoi errori,si legava sempre di più
a Lui. È questo che stupisce. Per questo tu hai già la risposta alla tua
domanda. «La quotidianità mi sta schiacciando, l’apatia non mi sta lasciando
vivere quel rapporto con Lui che mi è diventato vitale». Ti domando: come
riesci a vivere senza? Punto! Allora l’apatia, la quotidianità che ti schiaccia
ti offrono la possibilità di domandarti: «Ma io che cosa faccio qui? Perché non
Lo cerco?» È come se Cristo, a partire dalle viscere della tua esperienza, a
partire dall’apatia che tu vivi, ti dicesse: «Non ti manco? Puoi vivere senza
di me?». Rispondigli! L’apatia, paradossalmente, diventa la spinta alla memoria
di Lui.Come la nostalgia quando manca lui o manca lei, anch’essa è occasione
per la memoria. L’apatia o la quotidianità diventano un’opportunità per
riprendere il rapporto, quel rapporto che in fondo in fondo non si è mai
interrotto. In questo momento sento più che mai la presenza di Cristo,e non
perché la realtà che mi circonda sia come ho pregato chefosse, anzi,è proprio
il contrario. Ovviamente ringrazio Cristo per avermi dato questi amici con i
quali io posso essere me stessa e di avermi posto in questa compagnia. Senza di
Te, Signore, dove andrei? Il fatto è che i miei desideri certe volte non
corrispondono a ciò che Lui vorrebbe per me. C’è una realtà dolorosa che mi è
stata posta davanti, ma che allo stesso tempo è un’occasione di crescita per me
ed è anche una spinta a farmi aprire sempre di più gli occhi per cercare quella
felicità, quel bene più grande che Lui vuole per me. Ogni giorno cerco di
capire cosa c’è dietro a questo dolore, perché la realtà, insieme al mio cuore,
è la mia più grande alleata. Grazie allo scontro con questa realtà mi rendo
conto sempre di più di quanto il mio desiderio di felicità sia grande. «Sia fatta
la tua volontà comein cielo così in terra». Mi abbandono a Lui lasciandomi
trasportare dalle Sue mani, dicendo sì a questo dolore. Quando sono con i miei
amici sto bene, io Gli sorrido e Lo ringrazio. Sento che con loro il mio
cammino ha un altro sapore, dolce e semplice. Nonostante tutto ciò, ci sono dei
momenti in cui sento che quel cuore, al culmine della gioia, si svuota e la
malinconia lo assale. Quando sono a casa molto spesso mi sento così etendo a
chiudermi. Ho paura di fuggire, di non poter stare davanti a Cristo perché
quando torno a casa mi riposo, ascolto un po’ di musica e sento che mi assale
questa malinconia per la qualeio non sento più Cristo al mio fianco come lo
sentivo prima. No! Non è per la malinconia che non Lo senti di più, perché
proprio la malinconia è la modalità attraverso cui Lui ti sta chiamando: «Ma
non ti manco io?». Il fatto è che, comunque, io so che Lui c’è. Io lo so, Lui è
sempre al mio fianco, ma sono io che fuggo. D’accordo. Ma la prima cosa da fare
è cominciare a vedere con chiarezza che cosa è la realtà, cominciare a
guardarla con un giudizio nuovo. La realtà, qualsiasi realtà, non solo quella
bella, ma anche quella dolorosa, può essere un’occasione di crescita, come
dicevi prima, una spinta a cercare qualcosa d’altro. E questo già dice che
stiamo iniziando a guardare la realtà diversamente da come la guardavamo prima,
quando la consideravamo solo un disturbo, qualcosa da evitare, da cui fuggire,
pensando che non ci fosse niente di buono per noi in una certa circostanza. È
da questo che nasce in voi, così come è nata in me, la scoperta della realtà
come alleata. Io non l’ho imparato leggendo qualche libro, l’ho imparato come
lo state imparando voi, cioè vivendo, vivendo. Quando uno comincia a fare
questa esperienza, la realtà gli diventa amica, ogni aspetto della realtà
diventa amico. E qualsiasi persona si introduce in questo cammino diventa
amica. Per questo uno comincia a riconoscere che gli amici rappresentano un
bene per sé. Tu dici: «Nonostante tutto ciò, ci sono dei momenti in cui sento
che quel cuore, al culmine della gioia,si svuota e la malinconia lo assale». È
proprio il momento, carissima, del tuo rapporto personale con Cristo;
altrimenti,se tutto il resto ti bastasse, come potresti entrare in un rapporto
unico e personale, assolutamente “tuo” con Cristo? Mi ricordo un racconto di
don Giussani: era andato a una festa in cui gli amici salutavano una di loro
che tornava dall’estero e lui era tutto stupito dalla bellezza della compagnia,
degli amici, dei canti, di tutta l’amicizia che c’era in quel momento di festa;
ma, a un certo punto, disse ai presenti: «Se a un certo momento ragazzi non vi
viene una voglia matta di dire il Suo nome, tutto questo svanisce» (cfr.
L’attrattiva Gesù, Bur, Milano 1999, p. 148). Lo disse in quel momento, non
perché tutto andasse male; tutto andava benissimo: bella la compagnia, bella
l’amicizia, bellissimi i canti, tutto bello, ma riconoscere che tutto questo
non basta dice chi siamo noi e di chi siamo. Per questo nel momento della più
grande nostalgia si scatena veramente il rapporto con Lui. La questione è se
noi siamo disponibili a entrare in questo rapporto invece di fuggire in
Internet, nel telefonino, negli amici, in tutto. Nel momento culminante
decidiamo di entrare in quel rapporto unico, altrimenti saremo sempre come una
mina vagante, accettiamo che tutto quello che ci accade è la porta per entrare
di più nel rapporto con Cristo. Quest’anno è iniziato in modo diverso rispetto
agli anni scorsi per una grande fatica; all’inizio pensavo che fosse per lo
studio o per la routine che sarebberipresa o perché non ci sarebbero più stati
i miei compagni più grandi. Ma mi sono resa conto che era molto più profondo il
problema, perché lo studio ha iniziato subito a prendermi e gli amici più
grandi continuo a vederli tuttora. Quando abbiamo fatto il primo Raggio e
l’ordine del giorno era: «La realtà, insieme al cuore, è la nostra grande
alleata», questo mi ha lasciato senza parole, e non per lo stupore, ma perché
non avevo nulla da dire, non avevo alcuna esperienza da raccontare. Mentre
ascoltavo gli interventi dei miei compagni, cresceva dentro di me un grandissimo
senso di risentimento verso di loro, perché avevano qualcosa da dire e io no.
Mi sono ritrovata completamente svuotata e con un astio verso questa compagnia
perché mi toccava al fondo di me. La cosa che mi ha sconvolto di più è che,
nonostante dentro di me crescesse quest’odio verso questa compagnia, io non
posso fare a meno di porre qui le mie domande più profonde. Perché, di fronte a
una cosa che fa crescere in me questo astio, io sono così legata ad essa?
Vivendo con i miei amici, mi sono resa conto anche di un’invidia profonda che
mi assaliva nei loro confronti,che aumentava ancora di più questo senso di
odio; mi assaliva un’inadeguatezza lacerante, di cui non so la provenienza;
nonostante sappia che la realtà può essere mia alleata, mi sembra che non sia
né alleata né nemica. Grazie. È bellissimo il percorso drammatico attraverso
cui noi scopriamo le cose; più uno va avanti più si rende conto di sé. «Avevo
iniziato in modo diverso rispetto agli altri anni e pensavo che fosse la paura
della routine, ma la questione era molto più profonda».Vedete? Le circostanze
ci fanno comprendere la profondità del dramma umano, la bellezza di cui siamo
stati fatti. Senza avere vissuto questo suo inizio della scuola, avrebbe potuto
dare per scontato il titolo del primo Raggio: «La realtà insieme al cuore, è la
nostra grande alleata». Quando invece uno ha domande così profonde come le ha
lei, soltanto il leggere il titolo del Raggio lascia senza parole. Che
intensità del vivere qualsiasi cosa! Alloracomincia il dramma, che dobbiamo
imparare a vivere bene, perché davanti a questo lei sente crescere un
risentimento. Ciascuno deve decidere, perché la libertà è sempre in gioco, è
sempre chiamata in causa. La realtà è un segno, ci ha detto sempre Giussani,
davanti al quale ciascuno di noi decide. Davanti a che cosa decide? Tu sei
davanti a un dato: uno che racconta delle cose belle al Raggio, delle
esperienze positive che ha vissuto, da cui ha imparato, e le offre a te e tutti
gli amici presenti. E questo è un bene, non ti ha insultato, non ti ha offesa,
ha messo davanti a te l’esperienza di un bene che ha scoperto, ti ha offerto il
contributo della sua esperienza, del cammino fatto, ha condiviso con te la sua
vita. Davanti a questo bene, perfino davanti a un bene come questo, possiamo
avere due atteggiamenti: accoglierlo per quello che è, cioè un bene, un
desiderio di condivisione, un invito a comunicare la tua esperienza («Mi
racconti che cosa hai scoperto tu?»), oppure percepirlo come un giudizio su di
noi. Nel secondo caso, tu cominci a incupirti e pensi: «Ma io non ho niente da
raccontare». Da questo scaturisce il risentimento. Ma neanche in quel momento
siamo lasciati da soli, perché, seguendo il filo del tuo racconto, ti domandi
come mai ti senti così legata a un luogo che ti desta questo astio e questo
risentimento, tanto da porre lì le tue domande. A noi sembra una
contraddizione. Invece no, a volte le due cose coesistono: avvertire un astio e
contemporaneamente riconoscere che non possiamo non tornare lì a porre le nostre
domande.Che promessa abbiamo percepito in questo luogo, se neanche tutto il
risentimento, tutto l’astio che proviamo non possono cancellare quel
presentimento di bene che continua, malgrado tutto, a prevalere, a tal punto
che ritorno qui ancora oggi! La questione è se noi assecondiamo liberamente ciò
che ci è capitato in quel luogo,se ritorniamo a quel luogo a cui ci sentiamo
legati – alla fine è un problema di affezione –, se ritorniamo lì nonostante ci
lasciamo prendere dal risentimento o dal senso di inadeguatezza che ci fa dire:
«Io non sono degna di essere qui». Per questo è stupefacente, lo ripeto, la
figura di Pietro: quante volte avrà sentito questa inadeguatezza, quante volte
avrà sentito di non essere all’altezza dell’amicizia di Gesù, della preferenza
di Gesù, ma allo stesso tempo non ce la faceva ad andarsene via: «Ma dove andrò
senza di te,Cristo?». Tutta la mia simpatia è per te, Cristo, tutta la mia
simpatia umana è più forte di tutta la mia inadeguatezza. La mia inadeguatezza
non conta nulla, perché prevale questa mia simpatia che è quasi viscerale, come
quella di un bambino per la mamma: non può non attaccarsi alla mamma. È
stupefacente vedere come questo cresce in noi. Come vedi, la realtà è
tutt’altro che indifferen[LM1] [LM2]
te, è ciò che costantemente ti sfida a tornare a quel luogo. E quante più
domande la realtà ti suscita, fa emergere in te, tanto più queste domande ti
spingono a tornare a quel luogo, l’unico dove le tue domande sono prese sul
serio. In quali altri luoghi si prendono più sul serio le vostre domande di
come facciamo qui? Se ne trovate qualcuno, andate.Vi sfido: ditemi c’è un
luogo, oltre a questo, dove per essere voi stessi non dovete cancellare le
vostre domande più umane, un luogo dove potete abbracciare tutta la vostra
umanità senza censurare niente della vostra inadeguatezza, della vostra
incoerenza, del vostro male. A questo punto, puoi capire perché, malgrado tante
volte la vita ci faccia accorgere della nostra inadeguatezza, proprio questa
inadeguatezza non introduce un sospetto su questo luogo, su questa compagnia,
su questa amicizia, anzi, meno male che c’è e meno male che non occorre essere
all’altezza. Ti assicuro che se occorresse essere all’altezza, non ci sarebbe
posto per me! Questo è il luogo proprio per coloro che non si sentono adeguati,
che non si spaventano della loro inadeguatezza, che non hanno bisogno di essere
all’altezza per essere accettati. Siamo tutti compagni di Pietro, il primo che
Gesù ha scelto non perché era bravo, non perché era adeguato, ma perché aveva,
come te, una stoffa umana per cui non poteva, malgrado tutto, non sentire che
tutta la sua simpatia umana era per Lui, per Cristo. Si sentiva così legato che
niente lo faceva staccare da Lui. Carissimo Julián, quando ho saputo che il
titolo scelto per l’apertura di questo nuovo anno era «La realtà, insieme al
cuore,è la nostra grande alleata», mi sono commossa profondamente. Nessuna
frase poteva essere più corrispondente a quello che ho vissuto in questi primi
giorni di scuola e soprattutto durante l’estate. Il mio inizio anno, infatti,
si capisce solo se ripenso ai miei mesi di vacanza: prima a Londra e poi al
mare mi sono ritrovata a dover affrontare una serie di circostanze che non solo
non avevo programmato, ma che non avrei mai voluto. Mi ero fatta la mia idea di
come dovesse essere la vacanza perfetta prima dell’ultimo anno e invece è
andato tutto al contrario. All’inizio sentivo il peso insopportabile della
fatica e della tristezza, continuavo a rimanere bloccata su me stessa e i
problemi, e mi dicevo: «Ma perchécapitano questecose?». Dopo alcuni giorni
vissuti soffocando,mi si è posta un’alternativa: o stare chiusa nel mio
angolino di mondo a guardare e riguardare le cose che non erano come volevo o
alzare lo sguardo e accettare con umile obbedienza che esse potessero essere
un’occasione privilegiata per diventare grande. È stato un momento di svolta,
perché mi si è chiesto di mettere in gioco tutta la grandezza della mia
libertà. Infatti sarebbe stato molto più facile rimanere schiava del mio
lamento costante e della continua misura di me stessa e degli altri. Poi mi è
tornato in mente quando dicevi che, per ingaggiare la lotta di prendere sul
serio il desiderio di essere felici, occorre volersi veramente bene. Occorre
volersi bene, perché io sapevo chelecose non sarebbero cambiateeche avrei
dovuto lottare peresserelibera dalla loro apparenza. In quel momento era
necessario che io amassi me stessa eil mio cuorechecosì benesa ciò che
glicorrispondee non può mai ingannarsi. Sostenuta dall’amorevole tenerezza di
tanti amici, dalla mia famiglia e dalla bellezza dei luoghi che ho visto, ho
deciso di alzare lo sguardo e di tenerlo fisso sull’essenziale, sull’Aconcagua,
come mi dicesti tu una volta. Allora mi sono riscoperta libera di amare anche
la fatica, di non perdermi nelle apparenze, di non fermarmi a ciò che la gente
pensa di me e a come dovrei essere. Le circostanze non sono cambiate, anzi, con
la morte di una mia amica il dolore è aumentato, ma era tutta una grazia
continua, perché Dio si è servito di esse per farmi tirare fuori ancora più
realmente tutta la passione del mio cuore. La realtà ha permesso che essa si
ridestasse. È emerso prepotentemente, infatti, il desiderio di stare di fronte
alla bellezza delle cose che vedevo con sguardo profondo e grato, in contemplazione
silenziosa e stupita, di ricercare la purezza e la limpidezza nei rapporti con
gli amici, di donarmi totalmente nel sacrificio di aiutare in casa. Tornata
dalle vacanze, ero preoccupata, non vedevo tanti amici da tre mesie non sapevo
cosa aspettarmi. Allora Dio ha deciso di farmi definitivamente capire che è
molto più originale e fantasioso di me con tanti piccoli fatti: la chiamata di
un adulto mio amico che mi dice che ci tiene a me, la riscoperta dell’amicizia
con una mia compagna tornata dall’America, la preparazione della festa per i
primini e il vedere le loro facce stupite, il riabbracciare gli amici e
conoscere nuove persone; sono esempi dell’abbraccio paterno con cui è iniziato
l’anno. Le materie a scuola si sono fatte straordinariamente interessanti, ogni
cosa mi suscita sorpresa. So che mi aspetta un anno faticoso per lo studio e le
scelte da prendere, ma per la prima volta non sono spaventata, ho un desiderio
immenso di vivere tutto, di amare tutto, ogni persona che incontro, anche quelle
che vedo sulla metro e le cose in cui mi imbatto. A volte mi faccio impressione
nel ritrovarmi addosso questo cuore così bruciante e vivo, voglioso di
camminare. Le piccole sofferenze quotidiane ci sono, sento che spesso fanno
male, ma è attraverso di esse che mi viene indicata la strada, è attraverso di
esse che capisco che cosa veramente desidero. Tutto quello che capiterà sarà
una grazia sovrabbondante che non posso immaginare. Grazie. Tu descrivi bene
l’itinerario davanti al quale si trova ciascuno di noi. All’inizio potevi
pensare che le circostanze fossero un peso insopportabile, ma dopo qualche
giorno ti si è posta l’alternativa: vivere rinchiusa nel tuo angolino o alzare
lo sguardo e vivere quella situazione come un’occasione privilegiata per
diventare grande. La vita, ragazzi, è vocazione. Dio ci chiama attraverso le
circostanze. E solo chi asseconda le circostanze può cominciare a scoprire quello
che Lui, il Mistero che fa tutte le cose e che ha molta più fantasia di noi, ha
preparato per noi. Chi pensa già di sapere, e quindi chi crede di non avere
bisogno di giocarsi la vita rispondendo alle circostanze attraverso cui il
Mistero ci chiama, si perde il meglio. Invece quando le asseconda, scopre che
Dio è molto più originale e fantasioso di noi, tutto diventa interessante; e
uno non è più spaventato, ma ha un desiderio immenso di vivere tutto. Questo
accade attraverso le circostanze e la questione più interessante è scoprire,
come dice lei, che «attraverso di esse mi viene indicata la strada». La strada
non è qualcosa che sappiamo già a priori, perché si scopre la vita vivendo.
Dice un poeta spagnolo: «Se hace camino al andar» (A. Machado, «Proverbios y
cantares», XXIX, in Campos de Castilla, 1917), si scopre il cammino camminando,
si scopre la strada camminando, non è già tracciata nella nostra testa. Per
questo, come vi dico sempre, la vita è solo per gli audaci, per chi accetta la
sfida della provocazione costante che ci viene rivolta dalle circostanze, che
tante volte sono banali, ma è attraverso di esse che il Mistero che ci ha fatti
ci convoca per introdurci sempre di più alla pienezza del vivere. Buon anno,
amici! Bonfanti. Ringraziamo veramente di cuore Julián per la strada che ci ha
indicato, una strada che è per ciascuno di noi e che io, noi, vogliamo
percorrere, una strada in cui anche gli strumenti che ci sono dati e che
trovate nel foglietto degli avvisi sono da prendere sul serio, ciascuno nel
proprio gruppo.
Appendice Altri contributi
scritti ricevuti Quest’estate ho dovuto studiare per i debiti. Per questo ho
passato molti giorni in biblioteca e in metro. Ovviamente non ne avevo per
niente voglia, visto che potevo essere in spiaggia o in qualche altro posto.
Era venerdì pomeriggio e tornavo da un giorno di studio in biblioteca. Ho
dovuto aspettare la metro quasi quindici minuti e non ne ero entusiasta, perché
volevo solo arrivare a casa, buttarmi sul letto e non dover pensare più a niente
che avesse a che vedere con lo studio. Quando finalmente è arrivata, sono
entrata e mi sono seduta nell’ultimo posto a sinistra. Quel venerdì era uno di
quei giorni in cui se trovi qualcuno che non hai voglia di salutare, fai il
possibile per non guardarlo e perché non ti guardi; io mi sentivo così rispetto
a tutti.Avevo la mia musica e le mie cuffie e pensavo solo ad arrivare a casa,
ma in quel momento è successo qualcosa.Ho girato un po’ la testa e ho visto una
ragazza incinta che piangeva all’altro lato del vagone. Però non stava
piangendo come quando ti bocciano o ti succede qualcosa di non tanto
importante: stava piangendo con dolore, con molto dolore. E il dolore era tanto
che l’ho notato perfino io e mi sono intristita molto. In quel momento mi si è
scombussolato tutto, e ho pensato di avvicinarmi. Però cosa poteva fare una
ragazza come me parlando con una persona così triste e che nemmeno conosceva?
Mi è sembrata una stupidata parlare con lei o anche solo salutarla, e ho
cercato di evitarlo in tutti modi. Ho alzato il volume della musica e ho girato
la testa. Ma non potevo, non potevo evitare il dolore di quella ragazza in un
modo così meschino. Non potevo far finta di niente dopo averla vista così, e
allora qualcosa mi ha mosso ad alzarmi, e più mi avvicinavo, più mi veniva
paura e mi venivano domande. Che cosa le avrei detto? Che cosa mi avrebbe
detto? Che cosa sarebbe successo? E perché mi stavo avvicinando a lei? Alla
fine mi sono seduta vicino a lei, e mi è venuto solo da presentarmi. Le ho detto
il mio nome, che l’avevo vista dal mio posto e che qualcosa si era mosso in me.
Mi ha detto il suo nome, mi ha guardato e ha iniziato a raccontarmi cosa le
succedeva. Non ci potevo credere. Come faceva una ragazza assolutamente
sconosciuta a raccontarmi quello per cui stava soffrendo così? Mi ha raccontato
che era molto triste e che stava andando a una clinica per abortire. Le ho
chiesto perché andava e se voleva tenere la bambina. Lei mi ha detto di sì, ma
che la cosa presupponeva moltissime difficoltà e che non si riusciva a vedere
con una figlia da curare, da mantenere e a cui star dietro ogni minuto, ma che
nonostante questo voleva tenerla. Allora le ho chiesto perché, se voleva tenere
la bambina, andava alla clinica. Mi ha guardato senza parlare e di nuovo si è
messa a piangere. Io ho visto che aveva paura, paura di essere abbandonata,
umiliata dalla gente, maltrattata dal suo fidanzato per aver voluto tenere la
bambina, e paura di altre cose che sarebbero potute succedere. Quando alla fine
si è calmata mi ha detto che aveva paura e che non voleva perdere ilsuo
fidanzato per questo che le stava succedendo. Le ho chiesto se pensava che dopo
l’aborto sarebbe stata tranquilla per essersi tolta un peso o se ne sarebbe
pentita. Senza dubitare mi ha risposto che se ne sarebbe pentita e che lei
voleva già bene alla sua bambina, che iniziava a rendersi conto di che cosa è
l’amore di una madre e del sacrificio che c’è dietro e che lei voleva la
bambina ugualmente. Se era così sicura, perché andava alla clinica? Mi ha detto
che quella stessa mattina il fidanzato l’aveva chiamata mentre beveva una birra
con i suoi amici e le aveva detto di andare quel pomeriggio stesso alla clinica
perché lui non voleva la bambina. In quel momento sono crollata. Ho pensato:
come era possibile parlare di questo per telefono? Le ho detto che mi sembrava
terribile e lei mi ha dato ragione. Le ho raccontato anche delle case di
accoglienza, delle persone che accolgono, del movimento… E vedevo che più
parlavo più si rasserenava un pochino. Ma continuavo a vedere quel dolore così
terribile. In quel momento siamo arrivati a una fermata e lei si è alzata ed è
corsa fuori. Ma all’improvviso si è girata ed è rientrata. Mi ha guardato, mi
ha abbracciato e mi ha detto: «Torno a casa. Non vado alla clinica. Mi sono
resa conto che questa figlia di cui sono incinta è del mio fidanzato, ma anche
mia, e le voglio un bene dell’anima. Grazie». Ed è uscita.Io sono rimasta in
piedi senza sapere cosa fare.Cosa era successo? Chi era quella ragazza? Che
cosa sarebbe stato di lei e di sua figlia? Continuavo a pensarci: chi sono io
per far cambiare opinione a una persona sconosciuta? Chi sono io perché quella
ragazza mi raccontasse tutta la sua storia? Che ruolo ho io in tutto questo?
Come staranno ora quella ragazza e sua figlia? Ho chiara solo una cosa. Questo
è un vero Mistero, qualcosa che non riesco a capire, ma la felicità che sento
adesso per averla accompagnata in quei minuti di metro è incredibile. ***
Frequento il quinto anno del Liceo Classico. All’Equipe di GS, la mattina, dopo
colazione, ci han detto che ci sarebbero stati l’Angelus e le Lodi prima
dell’incontro-assemblea. Io non avevo voglia di andarci (scusate se lo dico, ma
voglio essere franca), perché volevo iniziare subito con l’assemblea. Ma nel
momento in cui l’ho pensato, mi manda un messaggio una mia amica, dicendomi:
«Occhi aperti». Eh, sì! Ho aperto gli occhi! Perché mi sono accorta di quello che
avevo davanti. Prima di iniziare le Lodi abbiamo cantato Al mattino e il don è
intervenuto dicendo: «Che cosa permette di ripartire la mattina? Di
risvegliarti ogni mattina? “Ch’io ti veda, ed è questo il mattino”. Il
mendicare di vederLo, stare davanti al tuo desiderio. La preghiera è un
mendicare e il mendicare è costitutivo dell’uomo. Per questo preghiamo: per
chiedere che ci incontri». Io per tutta l’estate mi ero sentita mendicante e
per questo motivo parlava a me direttamente. Mi sono goduta a pieno le Lodi,
perché volevo stare attenta alle parole: non volevo dire parole così per
dire... infatti, stando ad occhi aperti ho capito che le Lodi sono espressione
de “Il desiderio”, perché ogni parola parlava della mia posizione da
mendicante! Dopo questa esperienza io e la mia compagnia “scalcagnata” ci siamo
richiamati sempre a stare ad “Occhi aperti”! A stare davanti a ciò che ci
succede e riconoscerlo. E così ho iniziato la scuola in modo diverso,
mendicando che Lui mi incontrasse ogni mattina all’Angelus insieme ai miei
amici. Stando ad occhi aperti insieme a quella compagnia, mi sono goduta il
primo giorno, il secondo, il terzo, il quarto, il quinto, eccetera. Ogni giorno
in piccole cose che mi sono successe: un semplice sorriso delle mie amiche; un
intervento della prof di filosofia sulla sua posizione riguardo al Gender,
contraria alla mia, ma che mi ha spinto a informarmi di più, per capire meglio;
un incontro in cui si è parlato del bisogno dell’uomo; l’abbraccio di una mia
amica che sta passando un periodo difficile della sua vita... l’elenco andrebbe
ancora avanti. Uno dei primi giorni di scuola abbiamo avuto la prof di greco.
Ho pensato tra me e me: «Oh, adesso ci fa la solita ramanzina sul fatto che
siamo passivi, che non stiamo attenti ecc...». Però, al tempo stesso, ho
pensato: «Beh, se la realtà è alleata, lo deve essere anche in questo
momento!». Così mi sono posta in un altro modo. E poco dopo parlando di
Euripide la prof dice: «Euripide mostra nelle sue tragedie che l’uomo non si fa
da sé, ha bisogno di qualcos’altro». Questa frase mi ha spiazzato, soprattutto
perché detta dalla prof in quel momento. Quella lezione era per me Scuola di
comunità tra i banchi di scuola, tra persone non di CL, parlando di un autore
accusato dai molti suoi contemporanei di ateismo, pur essendo “religioso” nel
senso in cui lo intende don Gius. Riconosco in tutto ciò di aver verificato
l’ipotesi della realtà come vera alleata anche nella scuola. L’unica cosa che
chiedo per quest’anno che viene è che, in questa compagnia scalcagnata che è
GS, ci aiutiamo a tenere gli occhi aperti, per riconoscere la nostra alleata!
*** Durante queste vacanze ho scoperto la bellezza dello stare alle cose
semplici che mi sono chieste. In particolare, lavorando nella sorveglianza al
Meeting, mi era essenzialmente chiesto di attendere. Aspettare l’orario per
aprire le porte della fiera, aspettare persone sconosciute e magari anche
scorbutiche, che avessero bisogno del mio aiuto. Non capivo il senso
dell’attesa: io chi stavo aspettando? I primi due giorni sono stata arrabbiata
per questo lavoro che sembrava quasi inutile. Pian piano però l’attesa iniziava
a non essermi più così ostile. Col passare dei giorni la compagnia degli altri
del mio gruppo ha iniziato a sostenermi: non attendevamo più mezzi
addormentati, ma cantavamo, ogni persona che arrivava anche solo per chiedere
dove fosse il bagno era un grande evento, una piccola cosa che dava senso
all’attesa. Poi il penultimo giorno di lavoro è arrivata per caso a chiedere
aiuto una persona cara che non vedevo da tempo. Col suo arrivo una buona parte
della mia attesa aveva preso senso. Avevo atteso tutta quella settimana
incosciente, ma non invano. Questo non può che darmi fiducia in quel Qualcuno
che mi ha donato l’attesa, sapendo prima di me ciò che dovevo aspettare. ***
Sono nata con una malattia rara, che mi ha costretto a sottopormi a diverse operazioni
alle gambe; poi è successo quello che non sarebbe mai dovuto succedere: il
chiodo che mi hanno messo nel femore si è rotto, e con esso il mio femore.
Quando questo è successo ovviamente mi è caduto il mondo addosso, ma poi ho
capito che tutte le volte che mi hanno operato io ne sono uscita molto felice,
con la consapevolezza che tutto quello che mi accade è per me, peril mio
bene.Ho addirittura ringraziato Dio non per un’idea, ma perché io l’ho vissuto,
l’ho sperimentato, ne ho fatto esperienza. In questa avventura ho riscoperto i
miei compagni di classe e la mia famiglia, la mia casa, i miei nonni e tutti
coloro che mi circondano. Inoltre sono rimasta spiazzata dalla quantità enorme
di amici che hanno pregato per me. Questo fatto è stato per me come una
rinascita, perché poco prima di essere operata ero incavolata nera con Dio
perché non mi voleva guarire; in realtà ho capito, ho compreso che la
guarigione non può essere solo fisica, ma anche morale, tanto che io mi sto ritrovando
a ringraziare continuamente il Signore, perché senza questa mia situazione io
non sarei quella che sono. Quest’estate ho capito che la realtà è una mia
grandissima alleata in quanto senza l’incappo nella realtà (il mio chiodo che
si è rotto) io non sarei quella che sono; la realtà mi permette di vivere al
meglio le mie giornate e di riscoprire ogni volta che tutto quello che mi è
donato è per il mio bene. Prima di tutto questo “disastro” ero molto apatica
nei confronti della mia realtà, della mia vita, ero una persona che «non
riusciva a vedere i colori della realtà», era tutto in bianco e nero, ma poi la
realtà è voluta in modo prepotente entrare nella mia vita, ha voluto farmi
capire che lei c’era, che lei c’era sempre stata, ma che io non la volevo
guardare, non la vedevo, riducevo tutto a quello che volevo io, per me il resto
non contava, non valeva neanche la pena guardarlo. Tutto quello che mi è dato è
per me, ma è come se ogni volta lo dovessi riscoprire; ognuno di noi, credo, ha
sempre bisogno di qualcosa che lo scuota da tutto quello che il mondo ci
propone e che ci fa sempre dimenticare che la realtà è bella per ognuno di noi.
*** «La realtà, insieme al cuore, può essere tua alleata?». Questa domanda mi è
stata ripetuta numerose volte nell’ultimo anno, diventando ben presto un punto
che, probabilmente anche per l’insistenza con cui mi è stata ricordata, esigeva
una risposta. Devo dire che inizialmente mi sono trovata a rispondere a questa
questione in modo molto scettico. Questo perché quest’anno ho dovuto affrontare
fatti, come il tumore di mia nonna, che si imponevano lasciandomi senza la
possibilità di fare nulla e solo con una grande sofferenza di fronte alla mia
inutilità, che quegli avvenimenti facevano risaltare sempre di più. All’inizio
di quest’anno ho incontrato un punto di svolta che mi ha fatta ricredere sulla
mia posizione e sul mio scetticismo. Sono stata invitata a partecipare
all’Equipe nazionale di GS a Cervinia. Partita da Milano con l’intenzione di
vivere quei giorni per me, dopo un anno in cui avevo fatto tutt’altro che
fermarmi e guardarmi seriamente, mi sono trovata dopo poche ore già persa. Ho
infatti incontrato una persona con cui avevo avuto vari trascorsi; questo fatto
mi ha portata a perdere subito di vista l’idea di vivere quei giorni per me;
problematiche del tipo «come mi devo comportare con lui?» mi avevano distratta.
Quella stessa sera Albertino ci ha detto: «Ricordatevi che siete qui solamente
per voi. Dovete prendervi per primi voi sul serio. Quello che date agli altri è
una sovrabbondanza che nasce spontaneamente». Quel richiamo a vivere quei
giorni per sé hanno fatto la differenza. In primo luogo a Cervinia,raccontando
questo fatto a dei miei amici, mi sono vista ringraziare da uno che mi ha
detto: «Ti sei presa sul serio già questa sera raccontandoci tutto ciò, mi hai
fatto prestare attenzione a quelle parole che mi erano rimaste indifferenti. Se
ci fai caso, questa è già una sovrabbondanza che hai dato a me». È inutile dire
quanto sia stato grande il mio stupore nel vedere quanto questa sovrabbondanza
si sia fatta sempre più presente una volta tornata a Milano, nella mia vita di
tutti i giorni. A partire da una mia amica che, non essendo potuta venire a
Cervinia, mi aveva chiesto di raccontarle ogni cosa; mettendo da parte una mia
svogliatezza iniziale, mi sono trovata a raccontarle tutto quello che mi aveva
colpito, capendo ancora meglio ciò che avevo vissuto. È nato un dialogo
sorprendente, al punto che il giorno dopo mi ha inviato un messaggio dove mi citava
una frase del suo preside che le aveva ricordato una cosa di cui avevamo
parlato il giorno prima. Non è sovrabbondanza questa? O una semplice cena con
le compagne di classe in cui io e un’altra mia amica, venuta anche lei a
Cervinia, ci siamo ritrovate a raccontare per due ore filate tutto quello che
ci aveva colpito e come ciò ci aveva già fatte ripartire a Milano. Quello che
avevamo raccontato aveva suscitato talmente tanto stupore tra di loro che ci
sono venute a ringraziare e di nuovo mi è venuto da chiedere: «Che cos’è questo
se non un prendersi sul serio? Che cos’è questa se non una sovrabbondanza?». Mi
sono accorta che qualcosa scatta inevitabilmente quando ci si inizia a
chiedere: «Ma io cosa desidero per me? Cosa scatena in me questo fatto?». Questo
è uno sguardo amorevole che uno ha su di sé e che poi si riflette nel rapporto
con l’amico, coi genitori eccetera, al punto da far diventare la scuola, nella
quale magari non ci si trova benissimo, un luogo in cui potersi giocare fino in
fondo. L’altro giorno in classe abbiamo letto un testo di Pasolini nel quale ad
un certo punto scriveva: «È un urlo fatto per invocare l’attenzione di qualcuno
/ o il suo aiuto; ma anche, forse, per bestemmiarlo. / È un urlo che vuol far
sapere, / […] che io esisto, / oppure, che non soltanto esisto, / ma che so. È
un urlo / in cui in fondo all’ansia / si sente qualche vile accento di
speranza; [...] / Ad ogni modo questo è certo: che qualunque cosa / questo mio
urlo voglia significare, / esso è destinato a durare oltre ogni possibile
fine», ed è questo che contiene il prendersi sul serio. Mi sono resa conto che
la realtà come alleata non significa che essa si sostituisce a te,
semplificandoti ogni cosa, non permettendo che il dolore sia un dato importante
nella tua vita; ma significa, appunto, che essa ti fa compiere un passo in
primo luogo nella serietà che hai nei tuoi confronti, come lo stesso Pasolini
afferma.
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