lunedì 26 ottobre 2015

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 21 ottobre 2015

 
 • 1  - The things that I see
•  2 - E se domani
Gloria Veni Sancte Spiritus
Incominciamo riprendendo la Giornata d’inizio anno. Inizio leggendo una lettera che scrive una persona a un amico (il quale l’ha poi mandata a me), perché la considero importante dal punto di vista del metodo, su che cosa significa lavorare sulla Giornata d’inizio anno, perché una grazia è data a uno per tutti. «A una cena con alcune persone sulle problematiche del nostro lavoro, essendo tutti del movimento si affrontano anche questioni cielline, e in quell’occasione il tema era la Giornata d’inizio anno che si era tenuta qualche giorno prima. Come sai, è ormai quasi venti anni che non partecipo più ad alcuna attività del movimento; anche se sono – possiamo dire – simpatizzante, non riesco a fare di meglio. Quella sera, poco prima della cena, mi sono stampato il testo dal sito. Non l’avevo letto, ma ero fortemente interessato e curioso di conoscere dai partecipanti alla cena quale indicazione il movimento intendesse dare per questo anno, anche perché, a essere sincero, se avessi avuto l’opportunità o qualcuno mi avesse invitato, probabilmente sarei personalmente andato alla Giornata d’inizio anno. La discussione è stata ricca di citazioni e spiegazioni di alcuni concetti evocati da Carrón. Non sono mancate, come al solito, le disquisizioni più o meno dotte sulle differenze di impostazione tra Giussani e Carrón tipo: “Però questo il Gius lo avrebbe detto in un altro modo”, “Giussani in questo altro contesto avrebbe detto così”, “Molto bello questo punto”, “Molto bello anche quest’altro”, “È proprio vero quando dice…”; tutte cose che certamente sono corrette dal punto di vista teologico e anche intellettualmente profonde, ma che non hanno appagato la mia curiosità. Mi dicevo, intanto che ascoltavo: ma perché dovrei ricominciare a interessarmi? Perché non la smetto definitivamente di reinterrogarmi da venti anni se valga la pena lasciarmi ancora coinvolgere in un’esperienza che mi ha cambiato la vita e a cui ho dato tutto di me tanti anni fa? Perché dovrei aderire di nuovo? Solo per poter dire anche io la mia in queste discussioni per niente interessanti? Sono arrivato a casa, a notte inoltrata, deluso. Consentimi una citazione azzardata dal Vangelo dei discepoli di Emmaus: “Noi speravamo che fosse Lui, invece…”. Anche io speravo che in quella cena potesse accadere qualcosa per me. Poi mi sono messo a leggere con attenzione gli appunti che avevo scaricato, non volevo credere che potesse davvero essere finita così: e sono rimasto letteralmente folgorato! Ho letto e riletto l’intervento di Carrón, e più rileggevo quelle parole, più mi commuovevo. Stava proprio parlando a me, alla mia situazione di resistenza insistente a quell’attrattiva della bellezza che pur mi aveva travolto anni fa e che quasi non speravo più possibile per me. Non voglio rischiare di ripetere o interpretare la Giornata d’inizio anno, ma improvvisamente ho finalmente cominciato a vedere, come il cieco nato. Ho capito e ho visto quanto in fondo è semplice, è fatta per me e non posso più negare questa attrattiva. È semplice. Perché, come viene detto a un certo punto: non si “può pensare […] che il metodo immaginato da noi possa essere più incidente di quello scelto da Dio […] non possiamo […] recuperare con il nostro fare ciò che abbiamo perso nella vita. Questa, dunque, è la nostra responsabilità: non resistere al metodo di Dio” (p. XV). È semplice, non bisogna inventarsi altro. È il metodo di Dio, appunto. Altro che le discussioni su Carrón e Giussani e la correttezza dell’interpretazione autentica del carisma eccetera eccetera! È tutto detto nella Giornata d’inizio anno; non sono magari capace di ridirlo e spiegarlo, basta leggerlo, ma è tutto chiaro e semplice. Come il cieco nato posso dire: “Io una cosa sola so: prima non ci vedevo, ma adesso ci vedo”. 2 Penso che, se mi consenti, un azzardo di sintesi di tutta la Giornata d’inizio anno possa essere quella bellissima frase conclusiva del libro del Gius Decisione per l’esistenza, che ho stampata indelebilmente nella memoria dai primi giorni, quarant’anni fa, in cui quella attrattiva mi ha preso: “Il cammino del Signore è semplice come quello di Giovanni e Andrea, di Simone e Filippo, che hanno cominciato ad andare dietro a Cristo: per curiosità e desiderio. Non c’è altra strada, al fondo, oltre questa curiosità desiderosa destata dal presentimento del vero” [ora in L. Giussani, Alla ricerca del volto umano, Bur, Milano 2007, p. 125]». Mi sembra che la lettera ponga una questione fondamentale di metodo per ciascuno di noi, per il modo con cui lavora – adesso su questo testo, domani sarà Riconoscere Cristo, dopodomani Perché la Chiesa – e si pone davanti alle cose. Ciò che ci siamo detti nella Giornata d’inizio anno, su cui don Giussani insiste, è il primato assoluto dell’avvenimento della fede. E questo nessuno, mi sembra, oserebbe metterlo in discussione, perché non sarebbe qui, non sarebbe leale con l’esperienza iniziale per cui è qui. Ma poi, una volta che questo è successo, possiamo cambiare il metodo, come se dopo non occorresse l’avvenimento a ridestare di nuovo tutta l’attrattiva nei confronti della nostra partecipazione. La delusione (testimoniata dalla lettera) nasce perché si cambia il metodo, perché si resiste al metodo. Mi sembra fondamentale che guardiamo questo, perché è una correzione fondamentale che don Giussani ci fa indicando la natura del cristianesimo. Senza questo, noi possiamo fare tutti i commenti, ma chi ci ascolta non può non tornare a casa deluso: «Io speravo…». Non basta che noi diciamo: «È così. Non è così». Possiamo discutere per ore, ma quel che non decidiamo noi è che cosa prende l’altro, che cosa è in grado di corrispondere all’attesa dell’altro. Capita quando capita. L’avvenimento – lo sappiamo, no? – accade come racconta il nostro amico nella lettera, e ciascuno dei partecipanti a quella cena deludente lo potrebbe dire di altre occasioni della vita. Perché «se l’avvenimento della fede […] è dato per ovvio, e tutto si riduce solo a spiegazioni o a dialettica […] quale interesse potrà ancora destare in noi?», ci eravamo detti già alla Giornata d’inizio anno. «Non riuscirà a prenderci neanche un minuto [un istante]. Perché nessuno dei nostri tentativi può produrre la novità umana attraverso cui Cristo ci affascina e ci fa interessare a Lui» (p. VIII). Come è capitato ad Abramo: non avrebbe potuto produrre un solo istante di quella novità che è entrata nella sua vita. Perciò mi sembra che questo contributo ci offra un suggerimento, una conferma della strada. Ciao. Ciao. Tu che fai nella vita? Il musicista. La domanda è sull’esempio del clown e del villaggio di Kierkegaard che, dopo averne parlato anche al mio gruppetto di Scuola di comunità, non mi è ancora del tutto chiaro. O meglio: in sé l’esempio è chiaro, ma non capisco la sua portata all’interno del primo punto della tua lezione («Le circostanze e la forma della testimonianza»). Oltre all’esempio, cito due tue frasi: «E per non apparire anche lui [don Giussani] come un clown, da subito aveva cercato di mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita». Oppure: «Lui [sempre Giussani], che conosceva molto bene la dottrina cattolica, si è dovuto interrogare sulla modalità più adeguata per comunicare la verità, la verità di sempre, in un contesto che stava cambiando rapidamente» (pp. VVI). Quindi, dopo questo passaggio, avrei riassunto la sfida così: come o attraverso quale strategia posso testimoniare la verità del cristianesimo senza finire per fare la figura del pagliaccio? Ma io non credo che ci sia in gioco solo questo, vero? Già. E infatti pensavo alla vita di tanti santi, come per esempio san Paolo. Quando parla davanti all’aeropago di Atene, gli Atti degli Apostoli riportano: «Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano [stesso verbo], altri dicevano: “Su questo ti sentiremo un’altra volta”» (At 17,32). Quindi direi che in qualche modo anche Paolo ha fatto la figura del clown. Eppure, continua sempre il testo, «alcuni si unirono a lui e divennero credenti». E Gesù stesso ha fatto la medesima figura, pur peggiore, se nei Vangeli possiamo trovare: «Lo spogliarono, gli fecero indossare un mantello scarlatto, intrecciarono una corona di spine, gliela posero sul capo, e gli misero una canna nella mano destra. Poi, inginocchiandosi davanti a lui, lo deridevano 3 [ancora]: “Salve, re dei Giudei!”». Ma Egli ha tirato dritto e ha salvato il mondo lo stesso. Quindi sembra quasi inevitabile questa figura del pagliaccio. E allora perché questo accento sulla figura del clown? E secondo te perché Giussani insiste che le circostanze sono decisive per il definirsi della nostra testimonianza? Attenzione a non confonderci. Gli esempi del Nuovo Testamento che tu fai indicano un aspetto verissimo: che è sempre possibile rifiutare la verità come tale. Entrando in rapporto con san Paolo, con Gesù, con te o con me le persone possono aderire o non aderire. Ma io – io – prima di arrivare lì devo domandarmi se la modalità con cui dico la verità è adeguata o meno alle persone, come faceva don Giussani. Quando hanno incontrato don Giussani tanti che avevano ricevuto la predicazione della Chiesa l’avevano già scartata. Lo dicono loro stessi e lo dice don Giussani: quando va al Berchet tanti studenti erano figli di genitori cristiani, avevano partecipato in qualche modo alla vita della Chiesa, e vi avevano rinunciato. Allora perché, dopo, si sono sentiti chiamati di nuovo dalla modalità con cui don Giussani ha testimoniato la fede? Perché hanno percepito che questa testimonianza era più pertinente per rispondere alle esigenze della loro vita. Loro avevano già ricevuto l’annuncio cristiano, ma non lo sentivano più pertinente alla vita. Per questo don Giussani insiste che una qualsiasi modalità di testimonianza non è ugualmente pertinente. Perché? Perché la fede si cala in una circostanza storica reale. E tutto lo sforzo del Concilio Vaticano II non è stato quello di cambiare la dottrina, ma di cercare una modalità più adeguata per comunicarla in un contesto storico-culturale mutato. Capite? Questo non vuol dire che, anche di fronte alla testimonianza più vera (come quelle che hai citato di san Paolo e Gesù), uno non possa dire di no, ci mancherebbe; ogni sfida della verità può esser rifiutata, perché è rivolta alla ragione e alla libertà della persona. Ma prima di incolpare gli altri perché la rifiutano, io mi domando tante volte se la modalità con cui l’ho annunciata a un altro è stata la più adeguata. Voglio essere sicuro che la rifiutano non perché la modalità della mia testimonianza è inadeguata, ma che la rifiutano in quanto tale, per una scelta della libertà. Ma il rischio in questo caso non è di misurarsi sul successo dell’annuncio? Non è un problema di misura. È uno struggimento per l’altro. A un padre non piacerebbe comunicare la verità al figlio in modo persuasivo? Oppure pensa a te: quando insegni musica non ti piacerebbe farlo in modo da accendere nei tuoi studenti la passione per essa? Quante persone conosci che rifiutano la musica perché vi sono state introdotte in maniera palesemente inadeguata? Tu lo sai perfettamente. Questo è il problema. Ed è un problema reale. Altra cosa è che, malgrado si trovi davanti al miglior professore di musica, uno la possa rifiutare comunque. La libertà ultima dell’altro non è in discussione. Ma questo non ti toglie il desiderio di migliorare e di verificare continuamente la modalità della tua comunicazione per destare la passione nei tuoi studenti; sì o no? Sì. Grazie. E questo la gente lo capisce. Io sono infermiera. Qualche settimana fa, prima della Giornata d’inizio anno, ho attraversato alcuni giorni al lavoro in cui costantemente mi invadeva il cuore una domanda di significato sul mio tempo in reparto, che chiede sempre più spazio alla mia vita. In alcuni momenti, però, questa domanda si tramutava in un dubbio: ma sarà il posto giusto? O: ma starò veramente costruendo qualcosa? Una mattina la mia caposala mi chiama a colloquio per discutere di una proposta di studio, e prima di andarmene dall’ufficio mi ferma e mi dice: «Aspetta, devo dirti una cosa importante». Io, nella mia stupidità, ho pensato: mi avrà beccata… Avrai combinato qualche guaio! Esatto. E invece mi guarda e mi dice: «Io ti ho osservata molto in questi mesi di inizio di lavoro, e mi sono accorta di una cosa: quando tu sei al lavoro si genera un clima diverso, si lavora insieme. Chiunque, dalla signora che pulisce le stanze alla collega infermiera, al chirurgo, ha desiderio di essere travolto dalla tua febbre di vita. E questo senza che tu faccia o dica qualcosa di particolare, anche perché sei l’ultima arrivata e hai ancora giustamente tutto da imparare. Ma quel che è 4 sempre dolorosamente mancato in questo posto è un lavoro di equipe; tutti bravi e preparati, ma spesse volte incapaci di accogliere l’altro. Tu sei il regalo che tanto aspettavamo». Io ero senza parole. In quel momento entra un medico per chiedermi di fare una trasfusione, e in un attimo mi ritrovo travolta dalla vita del reparto. D’impeto mi è accaduto di pensare: questa è la misura con cui Tu mi guardi; non la misura con cui mi guarderei io, ma la misura con cui mi guardi Tu, e io mi ritrovo stupita, tanto quanto la mia caposala, di ciò che Tu fai con la mia vita; eppure non basta, vorrei amare di più questa donna, vorrei amare di più i miei colleghi, vorrei amare di più questo posto. Più la vita è segno che il rapporto con Lui è infinito e più Lo ritrovo davanti agli occhi e più Lo voglio di nuovo e di più. La testimonianza deve coincidere con questo stupore davanti a Lui e questo bisogno di stare ancora e di più insieme a Lui, proprio come descrivevi alla Giornata d’inizio anno parlando degli apostoli: non un fare, non le parole giuste, ma lasciarsi travolgere da questo stupore. Perché vedo che è questo che mi sta facendo generare lì dove sono. Non per questo non devi fare il tuo mestiere, perché è proprio la modalità con cui lo fai che stupisce. La testimonianza non è «non fare», ma è «fare diversamente» le solite cose, con la novità che introduce nella vita il guardare Lui. E allora le persone lo riconoscono perché, come dicevamo prima, non ti percepiscono come un clown, ma come il regalo che tanto aspettavano: incontrare una persona che, vivendo così – perché tu sola sai qual è l’origine della novità che porti –, è per tutti. È questa la modalità della testimonianza: una presenza pertinente alle esigenze di quel che gli altri vivono. Io ti sarei molto grata se potessimo approfondire la questione che le circostanze sono fattore essenziale, fondamentale della propria vocazione personale, perché questa cosa non riesco proprio a togliermela dalla testa. Ho bisogno di capire cosa vuol dire che le circostanze, in particolare quelle che feriscono di più, sono preziose perché attraverso di esse il Mistero ci chiama a Sé. Più che bisogno di capirlo, è proprio un bisogno di poterlo accettare. Anzitutto: di poterlo guardare. Prima di ogni cosa, le circostanze capitano, sono la modalità attraverso cui il Mistero ti chiama a rispondere. Brutte o belle che siano, le circostanze ci chiamano. Per questo don Giussani ci ha sempre introdotto alla vita dicendo che la vita è vocazione, la vita è la chiamata che il Mistero ci fa attraverso le circostanze. Per questo esse sono fattore essenziale della modalità con cui siamo chiamati. Non è che Dio ti dia certe circostanze e poi ti chiami da un’altra parte; ti chiama attraverso le circostanze che ti mette davanti. E quali sono le circostanze più semplici, più chiare? Quelle che sono inevitabili, perché, non avendole scelte tu, puoi essere sicura che ti sono date dal Mistero. Il Mistero non ti prepara prima per un evento e dopo te lo dà; permette la malattia, per esempio, e poi ti dà tutto il tempo per capirne il significato. Ti chiama. Altrimenti mai lo scopriremo, perché nessuno entra in queste cose con l’immaginazione, vi entra perché la vita lo chiama a viverle. E così uno può scoprire, se accetta di riconoscere le circostanze come la chiamata di un Altro, non una serie di fattori in fondo senza volto, bensì che dietro la realtà – e questa è la prima questione – c’è il volto buono del Mistero che ti sta chiamando. Ancora non sai a che cosa potrà portare, ti può sembrare apparentemente “contro”, puoi non riuscire a capire; ma per quel che ti è capitato nella vita, tu non puoi evitare, nel vivere quelle circostanze, di riconoscere la Presenza che te le dà. E questo apre «processi nuovi», come dice il Papa, apre il cammino. La fede non ti risparmia il rapporto con la realtà, la fede ti dà la compagnia di Cristo presente nella compagnia della Chiesa per aiutarti a scoprire il significato di ciò che vivi. È cruciale. In questo caso, cosa significa per te? Che più ti feriscono le circostanze, più ti senti sproporzionata, e più sei richiamata a riconoscere il Mistero che te le dà e che ti consente di viverle in un modo umano. Chi potrebbe vivere, come tu dici, le ferite più profonde senza la compagnia di un Altro? E questo come lo scopri? Attraverso le circostanze, perché è quando la vita ti mette alle strette che hai la possibilità – niente è meccanico – di aprirti al Mistero che si fa conoscere anche attraverso questo. Attraverso un Tu. 5 Come ti ho scritto, se c’è una cosa che non sopporto, così a pelle, è sentire le canzoni scritte per un uomo o una donna traslate a un significato più “alto”. No, no, no! Voglio spiegare bene questo: non sono traslate a un’altra cosa. Io le faccio cantare per spiegare – poi continua il tuo intervento – che già al livello elementare del vivere noi abbiamo la percezione chiara e netta che la presenza di un tu (minuscolo) non è qualcosa che rovina l’autonomia dell’io, ma che lo rende più se stesso. Questo lo sappiamo già al livello elementare dell’esperienza umana, ben prima che Dio diventi un Tu incontrabile. Non faccio cantare La mente torna perché pensiate immediatamente a Cristo. No. Faccio cantare La mente torna perché pensiate innanzitutto a quel che cantiamo. Perché viviamo in una mentalità in cui la persona è chiusa in se stessa, è concepita individualisticamente come autonomia totale, senza legami. Invece occorre cominciare a vedere che nell’esperienza comune tutti riconoscono che «non sono quando non ci sei». E se questo succede già nell’esperienza comune, immagina quando il problema del vivere comincia a crescere, quando l’urgenza diventa più stringente. Quindi la Giornata d’inizio anno comincia con una canzone così, come anche stasera... Anche questa sera: era per te! E allora io subito reagisco con un po’ di disagio e penso: che esperienza affascinante quella di Battisti e Mogol, che scrivono queste cose per una donna, questa è un’esperienza concreta, reale, desiderabile. E invece pensare a un Tu con la maiuscola mi sembra un “di meno”. Poi la Giornata d’inizio anno è andata avanti, io ho accantonato molto velocemente questo disagio, ho ascoltato, ero con delle mie amiche, sono rimasta colpita da tante cose che hai detto, e quindi è andato tutto bene, ero molto contenta. Quando con la Scuola di comunità ho cominciato a lavorare, a riprendere in mano il testo, mi è tornato fuori questo disagio e ho pensato: perché un Tu mi sembra di meno? Mi sono sentita un po’, per riprendere l’esempio del clown, pagliaccio a me stessa, come se la mia esperienza di fede non fosse credibile (neanche per me!). Questa è la mia domanda. La prima risposta che mi è venuta è un proverbio abbastanza stupido, che neanche dice esattamente quel che voglio dire, però mi è venuto in mente: meglio un uovo oggi che una gallina domani. Al di là che non sia ciò che penso esattamente, però mi ha fatto pensare subito, questo fatto dell’oggi e del domani, che comunque per me il Tu non è una presenza oggi. Questo riconoscimento è già un passo. La prima questione è lasciare aperto questo disagio e cominciare, come hai fatto oggi, ad avere la libertà di guardarlo. E se continui a lasciare aperta questa domanda, senza accantonarla, staremo a vedere che cosa scoprirai. Perché quanto più abbiamo una domanda, tanto più siamo facilitati nell’intercettare la risposta. Se vuoi un suggerimento: comincia a riguardare la tua vita, a riguardare quando hai fatto esperienza di un tu che ha aperto il varco al Tu. Perché noi vediamo nei Vangeli che tante volte l’incontro con Gesù faceva aprire le persone a un’altra cosa. Vedevano un miracolo e dicevano: «Siamo grati che Dio…». Perché pensano a Dio se hanno incontrato solo un tu umano? Ci sono momenti della vita in cui quel tu porta qualcosa di così sovrabbondante che non lo rimandi al futuro, è talmente presente nell’esperienza che fai che sei facilitata a riconoscerlo. E questo è ciò di cui tante volte non ci rendiamo conto. Perché? Perché diamo per scontato tutto. Tante delle cose che ci raccontiamo ogni giorno – per esempio, come abbiamo appena ascoltato, lo stupore dei colleghi per una presenza diversa sul lavoro – documentano una sovrabbondanza che gli altri vedono, forse non arrivano immediatamente a riconoscere il Tu, ma non possono non riconoscere una diversità, che è il segno di questo Tu. Come il Mistero può dirsi, in un modo per cui possa essere riconoscibile nell’esperienza presente senza bisogno di salti mortali? Attraverso la sovrabbondanza che appare in un’esperienza umana. Ma spesso noi operiamo una riduzione già mentre ascoltiamo queste cose. E per questo dopo, quando ci troviamo davanti a una affermazione come quella del Tu con la maiuscola, ci sembra, come dice Giussani, una fiaba. Perciò avevo citato la sua frase: «Quando uno si alza al mattino, quando ha difficoltà o delusioni, ansie o contrattempi, l’immagine di un Altro [con la maiuscola] che accompagna [la vita] […], che scende fino a lui [così com’è] per restituirlo a se stesso, è come un sogno» (Alla ricerca del volto umano, op. cit., p. 27). Allora riconoscere il disagio è il primo passo, perché questo è il problema della fede, come hai detto tu. E questa è la 6 grande questione per cui siamo insieme: per aiutarci al riconoscimento di questo Tu. Che è la stessa cosa che esprime un’altra domanda che mi hanno fatto in molti: che cosa educa la memoria? Come mi diceva una universitaria qualche settimana fa: «Ho dovuto fermarmi e guardare quel che stava succedendo»; mi sembra un’espressione laica di ciò che siamo abituati a identificare (spesso archiviandola come un “già saputo”) con la parola «memoria». Fermarsi per vedere fino in fondo ciò che c’è dentro l’esperienza che facciamo, ai rapporti che abbiamo, alle cose che ci raccontiamo come testimonianza; fermarsi e guardare, senza sostituire questo guardare con il pensare astratto. No. Guardare quel che sta accadendo, come diceva la prima lettera che ho letto questa sera: prima non vedevo e adesso ci vedo. Così comincio a vedere quel che c’è, non me lo devo inventare né devo fare il triplo salto mortale per pensarlo. C’è! Ma tante volte mi sfugge. Per questo è necessario il lavoro della memoria: fermarsi e guardare. È questo il lavoro della memoria: fermarsi e guardare. Vi domando: voi quanto tempo date a questo lavoro? Chi si stupisce fermandosi a guardare? Senza questo lavoro tutto sparisce, le cose che ci vengono dette non incrementano la coscienza della concretezza di questo Tu. E quando arriva il momento della prova constatiamo che qualsiasi altra cosa ci appare più concreta di questo Tu. Ma io vi sfido a verificare se è vero questo, se qualsiasi altra cosa è più concreta di questo Tu! Pensate ai discepoli: qualsiasi altra cosa dell’esperienza umana normale del vivere era più concreta di quella diversità umana che vedevano quando si trovavano davanti a Gesù? Ma quella stessa diversità non la troviamo costantemente davanti a noi, tra di noi in tante occasioni? O è immaginazione? Sono un padre di quattro figli. L’ultima, di quattro anni, è arrivata quando avevo cinquant’anni, quindi un bel regalo. È stata per noi una sorpresa che ci ha spiazzato fin dall’inizio, che ci chiede ogni giorno fatica, ma che quotidianamente è un dono, sicuramente. In un giorno come al solito faticoso e pieno di varie preoccupazioni, la piccola chiede a mia moglie di giocare con lei. Mia moglie era occupata a fare altro; facendo uno sforzo per staccarsi da quel che stava facendo, si mette di fianco a lei a giocare pensando ai problemi che ci sono sempre in una famiglia di sei persone. A un certo punto, la piccolina dice: «Mamma, mi curi con la faccia felice?». Non è che si accontenti di qualsiasi cosa! Vedete? Questo è il punto. I bambini lo rintracciano al volo, altro che pupazzi senza testa! Da subito hanno il detector funzionante! Mia moglie, che si sentiva fino a quel momento in fondo con la coscienza a posto perché, nonostante tutto, riusciva a dare del tempo a tutti e anche alla più piccola, è rimasta spiazzata da quella domanda; come ci dici tu, ci ha subito decentrato e lasciato con la bocca aperta. E quella domanda, quella sera, ci ha cambiato, letteralmente, nel modo con cui stavamo con lei e stavamo anche con gli altri figli. La piccola aveva a modo suo espresso anche il mio bisogno e, io sono convinto, il bisogno di tutti, come ci dici tu. È proprio così: la testimonianza non è essere più buoni – soprattutto chi mi conosce sa che su questo fallisco sempre –, ma è essere più felici, o più lieti come direbbe in modo più corretto la tradizione cristiana. Questo mi fa anche capire che non è una cosa che dipende dal mio fare, ma è un essere, è un dono, io non riuscirei a farmi più felice neanche un minuto. Nasce da una sovrabbondanza, da qualcosa che viene prima. È un essere felici perché si riconosce un dono. È qualcosa di strutturale, è ciò che sono io. Non è garantita da sovrastrutture che facilitano il fare, ma che comunque non ti fanno più felice. Come ci stai dicendo in questi giorni, questo episodio ci ha fatto toccare con mano che la testimonianza nasce da una libertà che trova qualcosa di così affascinante da far venire la voglia di muoversi dal proprio torpore, dalla noia e anche dal sentirsi con la coscienza a posto. Nasce da un Tu che fa appassionare al proprio io, un Tu che rende affascinante il mio io prima di tutto a me stesso. Grazie. «Nasce da una sovrabbondanza». È questa sovrabbondanza che testimonia la presenza di un Altro, perché non possiamo non riconoscere che non ce la diamo noi, non è prodotta da noi. È un dono. E gli altri lo riconoscono. Mi raccontava una persona che uno dei suoi figli era andato a un convegno in America e, appena è arrivato, uno di lì gli ha detto: «Ma tu sei di CL?». «Sì, come lo sai?». «Perché siete sempre lieti». La gente non è che non intercetti subito questa diversità, questa sovrabbondanza, che non c’è, ovviamente, perché siamo più bravi, ma per una presenza che 7 documenta il Tu attraverso un modo di stare nel reale altrimenti impossibile. La gente che ci incontra «trova qualcosa di così affascinante da far venire la voglia di muoversi dal proprio torpore». È da questo che nasce la moralità. Viene la voglia di mettere le mani in pasta, di impegnarsi nelle cose, di cambiare. Inizio l’ultimo anno di università, e pian piano mi sto accorgendo di quanto possa essere un anno diverso a seconda di come mi pongo di fronte alla realtà. È proprio un periodo di transizione. Sto vedendo le mie amiche più care che si laureano e si sposano, e di colpo stanno venendo meno nella quotidianità i rapporti che prima erano presenti. Inoltre ho cominciato davvero a chiedermi cosa rende attuali e nuovi gesti a cui partecipo quasi di routine. Sono venuta alla Giornata d’inizio anno e ho provato un’invidia pazzesca per i protagonisti degli esempi che raccontavi, intravedevo un’eccezionalità che mi faceva desiderare una semplicità di cuore così. È iniziato così un lavoro nuovo e continuo sul testo pubblicato, proprio per capire più a fondo questa eccezionalità che dopo anni di movimento mi ha nuovamente pervasa. Potrei citare tutti i pezzi che sono stati significativi in tutti questi giorni, ma in particolare mi ha afferrata e provocata questo: «Quando ci complichiamo la vita e sentiamo il rapporto con la realtà come una violenza, non è […] perché tutto sia sbagliato o cattivo. No, no! Il problema è che manca il Tu, quel Tu che rende possibile che tutto – tutto! – diventi amico» (p. XI). Questa ricerca del Tu come punto centrale ha di fatto chiarito ciò che mi è chiesto, innescando in me il desiderio di vedere in modo carnale i segni della Sua presenza in ciò che c’è, con chi rimane in facoltà, con chi ho davanti. Mi sono sentita chiamata personalmente lì, come se Gesù ora volesse farmi camminare proprio lì. In questi giorni mi hanno presentato una nuova matricola che non conosceva il movimento e si è appena trasferita nella mia città. Abbiamo parlato a lungo e alla fine della chiacchierata l’ho invitata alla Scuola di comunità, perché sono rimasta colpita dal suo entusiasmo nel fare ogni cosa. Alla fine del gesto è venuta da me e mi ha detto: «Da qui non me ne voglio andare più, perché mi sento protagonista di una storia enorme». Ha deciso di seguirmi ovunque e ha iniziato con me la caritativa ed è la prima che si è iscritta alla Scuola di comunità perché è grata dell’incontro fatto. Ripensando a come ho iniziato l’anno, mi accorgo di come sia davvero più conveniente il metodo di Dio rispetto al mio. Lasciandomi un po’ andare alla Sua opera, ho riscoperto che Egli, al contrario di me, per rispondere alle mie domande e alle mie paure non alimenta i miei ragionamenti, ma impone la Sua grandezza attraverso dei fatti (come l’incontro con questa ragazza). Attraverso l’entusiasmo di questa ragazza ho rivisto l’entusiasmo di iniziare; attraverso i suoi occhi riscopro ogni giorno la grandezza della storia che ho incontrato, e di che aiuto è alla mia vita. Da qui sto capendo sempre di più il valore della testimonianza di cui parli tu. I tre punti indicati non li ho visti come regole attraverso cui convertire persone nuove dopo che le si incontra, ma come strumenti attraverso cui convertirci prima di tutto noi ed essere continuamente perturbati. Ed è solo per questo che è possibile incontrare e lasciarsi cambiare dall’ultimo che arriva. Grazie. Questo è il metodo di Dio, che ci fa incontrare una ragazza e ce la dona con questo entusiasmo: «Da qui non me ne voglio andare più»: e si coinvolge subito in tutto. Il cambiamento accade in lei proprio attraverso quel sussulto, quella scintilla che si è accesa in lei e che la cambia più di qualsiasi altra cosa. E tu leghi questo al metodo di Dio. Se soltanto facessimo attenzione a come agisce Dio! Con le tue sole forze non l’avresti convinta, neanche legandola. Invece il metodo di Dio, che a noi sembra troppo poco incidente, è il solo che cambia davvero la vita delle persone e genera la comunità cristiana. Come dicono gli Atti degli Apostoli: si incorporano nuovi membri alla comunità cristiana, cioè a questa amicizia che viviamo. Per questo capire il metodo ci facilita di più, perché altrimenti perdiamo quel che il Mistero ci dà. Perché, amica, quale altra cosa ti poteva dare di più il Mistero per incominciare questo anno particolare per te, se non una ragazza che ti sfidasse così, che diventasse testimone così per te? Qualche settimana fa ho conosciuto una donna anziana e malata. Sono andata a trovarla e mi ha detto: «Avevo proprio voglia di vederti, di parlarti, di sentirti, perché io non sto più pensando a 8 Dio, ogni tanto ci litigo». E poi mi dice: «Sai, io ho fatto tante cose nella vita». Allora io l’ho guardata un po’ così e m’ha detto: «Eh sì, sai, quando ero giovane io avevo dentro un desiderio di trasgressione, soprattutto sessuale, e quindi poi mi ingarbugliavo, e quindi ho fatto tante cose che non andavano bene, ho avuto anche degli aborti». A quel punto mi sono commossa davanti a lei, non riuscivo ad andare via – perché con me Dio non va via –, per cui mi sono avvicinata, ha allargato le braccia e io l’ho abbracciata. Mi ha detto: «Senti, tu sei l’unica con cui sono libera di parlare di queste cose». E ha aggiunto: «Ma come si fa a entrare in CL? Io ci vorrei entrare. E poi devi venire a cena, ti preparo una cosa che ti piace». Io lì per lì non ho risposto, non sapevo cosa dire. Due giorni fa mi ha telefonato e mi ha detto: «Volevo sentirti, mi mancavi. Quando torni?». Mi sono veramente commossa, perché questa è la domanda della vita alla mia vita: c’è uno nella vita senza cui tu non puoi vivere? Tanto che devi chiedere: «Quando torni?», perché, se non torni, non è vita. «Quando torni?». Tutto lì! Tutta la moralità della persona è ridestata da un rapporto. Perfino una persona con una storia alle spalle così – che penseresti di non poter smuovere, nemmeno con la gru – può essere mossa “dentro” da un incontro che apre di nuovo una strada. Questi esempi così estremi ci fanno capire che anche in situazioni dove tutto crolla, dove neanche si sente il rimorso più elementare, si può riaprire la partita. Ma come si riapre la partita? Dobbiamo guardare come la riapre Dio. Perché a volte, cercando di riaprirla coi nostri metodi, roviniamo tutto. Per questo alla Giornata d’inizio anno parlavamo della preminenza dell’Avvenimento rispetto all’etica; e non perché vogliamo fare fuori l’etica, ma perché l’etica nasce dall’Avvenimento. E infatti, quando manca l’Avvenimento, viene meno tutta l’etica. Non diventiamo più morali perché ci facciamo più richiami morali, occorre che accada. «Quando torni?». L’abbiamo ascoltato questa sera in tanti esempi: il desiderio di muoversi, il desiderio di cambiare, da dove nasce? Da dove nasce in ciascuno di noi? Ciascuno deve guardare in sé che cosa lo fa mettere in moto, da dove gli viene la voglia di dare un passo diverso alla vita. Perché solo se questa origine accade, può nascere la moralità, come ci ha insegnato sempre don Giussani. La moralità nasce davanti alla Presenza. La moralità nasce dal fascino di sentirsi abbracciati così, come Zaccheo o Matteo. O Pietro, che dopo aver sbagliato si sente domandare: «Ma mi ami tu?». Questa è una sfida prima di tutto alla nostra mentalità: da dove pensiamo di poter partire per cambiare, noi e gli altri? Solo se ci fermiamo e guardiamo come fa il Mistero: «Tu pensi di cambiare a modo tuo? Ti sfido. Non è che Io non conosca qual è la situazione dell’uomo, non è che Io non conosca te. Se ho fatto come ho fatto, è perché questo metodo è l’unica modalità di far risorgere l’io, anche dalle proprie ceneri». La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 18 novembre alle ore 21. A partire da adesso iniziamo a lavorare su Riconoscere Cristo, che è la seconda lezione degli Esercizi della Fraternità. Questo non vuol dire accantonare tanti esempi che ci possono aiutare a capire anche quel testo. Cominciamo dalla lezione di don Giussani perché tante delle cose che ci siamo detti alla Giornata d’inizio anno c’entrano, come vedrete, con quello che lì si dice. Ci aiuterà a capire con più chiarezza quello che ci siamo detti alla Giornata d’inizio anno: qual è il metodo di Dio e qual è la modalità con cui io posso rintracciarlo: la corrispondenza, che ci consente di riconoscere la presenza del Mistero. Perché? Perché mobilita la totalità dell’io, perché rigenera il mio io. Perché in questo momento storico in cui vediamo crollare tutto, l’unica cosa che non crolla sono questi “ii” che vediamo, che sono la testimonianza della Sua opera in mezzo a noi e che risvegliano altri. E così comincia a cambiare di nuovo la realtà. Per questo continuiamo sulla stessa traccia, sulla stessa falsa riga che stiamo percorrendo affrontando ora Riconoscere Cristo. Per la prossima volta leggeremo da pagina 63 a pagina 75 del libretto degli Esercizi. Nei prossimi mesi il Libro del mese sarà La bellezza disarmata. Questo libro è un tentativo di offrire le ragioni dell’esperienza che stiamo vivendo davanti a tante sfide, come ho avuto modo di 9 dire, per esempio, in un’intervista al Tg2 Mizar, che potete vedere sul sito di CL. Il 5 novembre faremo la presentazione del volume a Roma. Parteciperanno con me il cardinale Tauran e Luciano Violante. Coordinerà Roberto Fontolan. Sarà possibile seguire l’evento in diretta streaming dai nostri siti. Inizio alle ore 18.30. Per promuovere o organizzare incontri pubblici di presentazione del libro nelle vostre città il punto di riferimento è l’associazione italiana dei Centri Culturali. Quest’anno la campagna TendeAVSI ha per titolo: “Profughi e noi. Tutti sulla stessa strada”. Vogliamo raccogliere l’appello di papa Francesco che ci invita ad accettare la sfida della storia che stiamo vivendo e ad accogliere i profughi. Vediamo già lo slancio di tante persone e comunità che vogliono prendere iniziativa. La campagna Tende è uno strumento e una proposta per coinvolgerci in questo. La campagna di Avsi intende sostenere alcuni progetti, in particolare in Sud Sudan, Iraq, Siria, Libano, Giordania e in Italia. Avsi ha realizzato anche un nuovo e importante servizio, che si chiama Network#ProfughiEnoi. Siccome il tema profughi è complesso e delicato, perché ci sono anche questioni giuridiche che non sono di nostra competenza, con questa iniziativa Avsi si propone di collaborare con realtà e soggetti che a livello diverso sono già attivi sul territorio nazionale sul tema profughi e indirizzare a questa realtà sia chi desidera capire di più cosa sta succedendo, sia chi chiede suggerimento per aiutare in modo concreto. Sul sito Avsi trovate in modo più dettagliato le informazioni di questa iniziativa. Oltre alla TendeAVSI, vi ricordo che il movimento indica in particolare come gesto di caritativa la Colletta alimentare, che questo anno si terrà sabato 28 novembre. Da ultimo vi ricordo che è attivo un indirizzo mail a cui potete inviare domande e brevi interventi sulla Scuola di comunità. Vi chiedo di mandarli entro la domenica sera precedente il nostro incontro, in modo tale di avere il tempo di leggerli. L’indirizzo mail è: sdccarron@comunioneliberazione.org e vi raccomando di usarlo solo ed esclusivamente per la Scuola di comunità. Diciamo una preghiera per il Papa e per il Sinodo della famiglia che si sta concludendo. Veni Sancte Spiritus
Testo della canzone (traduzione italiana) 
Questa bella canzone del gruppo newyorkese riprende l'episodio evangelico della guarigione del cieco nato (Vangelo di Giovanni, cap. 11). I farisei accusano Cristodi essere un peccatore, perché compie miracoli in giorno di sabato, cioè in contraddizione con una norma da loro considerata intoccabile. Il miracolato viene interrogato e diffidato. Ma egli ha ben chiara una cosa: che adesso ci vede. Questa evidenza non è sottoponibile a discussione, non è negabile. Prima era cieco; ha incontrato un uomo straordinario e adesso ci vede. 
Discutere l'evidenza di questo segno è irragionevole. È ideologico: cioè è una violenza fatta alla realtà in nome di un'idea, di un preconcetto.
È un segno che rimanda ad un altro. Il cieco guarito cerca perciò di rincontrare e vedere colui che lo ha guarito. 
 
 •The things that I see
Le cose che vedo
Mi fanno ridere come un bambino
Le cose che vedo
Mi fanno piangere come un uomo
Le cose che vedo:
posso guardare a ciò che Lui mi ha dato, ed Egli mi mostrerà
ancora di più di ciò che vedo. 

Proprio l'altro giorno
Ho udito una voce nelle mie tenebre
Mi ha mandato altrove
Con del fango sulla mia faccia
Udivo la gente dire
Che egli è un pazzo e un disperato,
Finchè uno spruzzo d'acqua ha lavato via da me le tenebre! 

Cercando di spiegarmi
A gente col volto arrabbiato
Di parlare a loro chiaramente…
Ma loro non ascoltano ciò che dico
E mi dicono ancora
"Lui è un peccatore e un imprudente"
Ma c'è solo una cosa che io posso dire… 

Egli venne di nuovo vicino a me
E questa volta potevo vederlo;
mi disse che mi aveva cercato
E mi disse di credere
Io chiesi: "In cosa devo credere?"
Mi disse: "Continua a credere in me".

• 2
E se domani 
io non potessi 
rivedere te, 
mettiamo il caso 
che ti sentissi stanco di me 
quello che basta all'altra gente 
non mi darà 
nemmeno l'ombra 
della perduta felicità. 
E se domani 
e sottolineo "se" 
all'improvviso perdessi te 
avrei perduto il mondo intero 
non solo te

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