- ''Luz'' presenta ''Charlie Hebdo'' del 14 gennaio.
È uscito il primo numero di "Charlie Hebdo" dopo la strage. In copertina, Maometto. Eppure sono spuntate una lacrima sul volto del profeta e una frase: «Tutto è perdonato». Come se, per non rimanere schiacciati dal dolore...
«Ho disegnato Maometto e poi ho scritto “Io sono Charlie”. L’ho guardato e ho aggiunto: “Tutto è perdonato”. Poi ho pianto. Avevo trovato la soluzione. Ed era la nostra soluzione, non era tutto quello che gli altri volevano che noi facessimo». Così ieri Renald Luzier, in arte Luz, aveva spiegato a centinaia di giornalisti schierati come aveva pensato e disegnato la copertina del primo numero di Charlie Hebdo, dopo la strage del 7 gennaio.
La cronaca ci dice che i tre milioni di copie non sono bastati, perché i francesi si sono messi in coda all’edicola sin dall’alba: E così ne è stata fatta un'extra tiratura di due milioni. Tutto previsto e prevedibile. Tutto tranne quella copertina, in cui fa capolino una parola anomala nella prospettiva inesorabilmente laica del giornale satirico francese: perdono. Una parola imprevista che una volta accettata e messa in pagina, suona un po’ come una liberazione: «Ho pianto», ha infatti confidato il disegnatore.
Personalmente non amo lo stile delle vignette di Charlie Hebdo. Lo trovo abbastanza datato, ingolfato di indignazioni che appartengono a stagioni ormai tramontate. Uno stile emblematico di una Parigi che s’illude di essere ancora barricadera.
In più aggiungo che non avevo per nulla condiviso la scelta di pubblicare quelle vignette, per altro neanche tanto brillanti, su Maometto. Ma questa volta, quando forse meno ce lo aspettavamo, Charlie Hebdo ci ha sinceramente sorpresi.
E viene da chiedersi da dove sia scaturita questa intuizione così imprevista e fuori copione. L’unica risposta credibile è di tipo umano:arrivano momenti in cui il dolore che ha investito la nostra vita è talmente fuori proporzione e talmente insostenibile, da costringerci a uscire da noi stessi. Ad affidarci ad una logica che sino a quel momento avevamo guardato magari con un po’ di altezzosità.
A Luz e ai suoi amici che lo hanno lasciato fare, credo sia accaduto proprio questo. Ha disegnato Maometto, quasi volesseproseguire nell’oltranzismo di sempre, senza “se” e senza “ma”. Poi deve aver avuto un tentennamento. Proviamo ad immaginare: quel tentennamento non era dettato dalla paura, ma dalla domanda «cosa c’entra questo che sto disegnando con il dolore che ho vissuto?». E così è spuntata la lacrima, quasi un po’ stravagante, sul volto del profeta. Nel muro, a quel punto, si era già aperta una breccia. Ma non bastava.
C’era bisogno di una parola a cui attaccarsi per andare avanti, per non restare schiacciati dall’accaduto. E quella parola è spuntata fuori, contro ogni schema e fuori da ogni copione. Perché è una parola familiare al vocabolario della Bibbia e del Corano («Mi abbandono a Colui che perdona, Egli è il migliore dei perdonatori», dice un passo bellissimo del libro sacro dell’Islam): ed è ben noto quanto quelli di Charlie vedessero le religioni come fumo negli occhi... Ma c’era bisogno di una parola così, una parola pienamente umana. Perdono.
Chissà cosa ne hanno pensato quei 5 milioni di francesi che si sono fiondati a comperare Charlie Hebdo. Giuseppe Frangi
La cronaca ci dice che i tre milioni di copie non sono bastati, perché i francesi si sono messi in coda all’edicola sin dall’alba: E così ne è stata fatta un'extra tiratura di due milioni. Tutto previsto e prevedibile. Tutto tranne quella copertina, in cui fa capolino una parola anomala nella prospettiva inesorabilmente laica del giornale satirico francese: perdono. Una parola imprevista che una volta accettata e messa in pagina, suona un po’ come una liberazione: «Ho pianto», ha infatti confidato il disegnatore.
Personalmente non amo lo stile delle vignette di Charlie Hebdo. Lo trovo abbastanza datato, ingolfato di indignazioni che appartengono a stagioni ormai tramontate. Uno stile emblematico di una Parigi che s’illude di essere ancora barricadera.
In più aggiungo che non avevo per nulla condiviso la scelta di pubblicare quelle vignette, per altro neanche tanto brillanti, su Maometto. Ma questa volta, quando forse meno ce lo aspettavamo, Charlie Hebdo ci ha sinceramente sorpresi.
E viene da chiedersi da dove sia scaturita questa intuizione così imprevista e fuori copione. L’unica risposta credibile è di tipo umano:arrivano momenti in cui il dolore che ha investito la nostra vita è talmente fuori proporzione e talmente insostenibile, da costringerci a uscire da noi stessi. Ad affidarci ad una logica che sino a quel momento avevamo guardato magari con un po’ di altezzosità.
A Luz e ai suoi amici che lo hanno lasciato fare, credo sia accaduto proprio questo. Ha disegnato Maometto, quasi volesseproseguire nell’oltranzismo di sempre, senza “se” e senza “ma”. Poi deve aver avuto un tentennamento. Proviamo ad immaginare: quel tentennamento non era dettato dalla paura, ma dalla domanda «cosa c’entra questo che sto disegnando con il dolore che ho vissuto?». E così è spuntata la lacrima, quasi un po’ stravagante, sul volto del profeta. Nel muro, a quel punto, si era già aperta una breccia. Ma non bastava.
C’era bisogno di una parola a cui attaccarsi per andare avanti, per non restare schiacciati dall’accaduto. E quella parola è spuntata fuori, contro ogni schema e fuori da ogni copione. Perché è una parola familiare al vocabolario della Bibbia e del Corano («Mi abbandono a Colui che perdona, Egli è il migliore dei perdonatori», dice un passo bellissimo del libro sacro dell’Islam): ed è ben noto quanto quelli di Charlie vedessero le religioni come fumo negli occhi... Ma c’era bisogno di una parola così, una parola pienamente umana. Perdono.
Chissà cosa ne hanno pensato quei 5 milioni di francesi che si sono fiondati a comperare Charlie Hebdo. Giuseppe Frangi
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