domenica 28 giugno 2015
Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 17 giugno 2015
Testo di riferimento: J. Carrón, Introduzione, in UNA PRESENZA NELLO SGUARDO, suppl. a Tracce-Litterae communionis, maggio 2015, pp. 4-19; L. Giussani, «La continuità di Gesù Cristo: radice della coscienza che la Chiesa ha di sé», Perché la Chiesa, Rizzoli, Milano 2014, pp. 81-89.
• Por tudo meu Jesus
• Favola Gloria
Ci eravamo dati il compito di continuare il lavoro sull’Introduzione degli Esercizi della Fraternità e sul capitolo di Perché la Chiesa che affronta il tema della Risurrezione. La prima domanda è proprio su questo: «Nell’incontro settimanale del nostro gruppo di Scuola di comunità, in cui leggevamo il capitolo sulla permanenza di Gesù fra gli uomini, sono venute fuori alcune questioni sulle quali abbiamo animatamente discusso. Alcuni affermavano che uno può vivere bene il presente in quanto c’è la certezza della Risurrezione e della vita eterna, altri sostenevano che l’eternità è una promessa e che il centuplo lo si sperimenta qui e ora stando dentro la realtà presente, tanto che se anche, per assurdo, dopo non ci fosse niente sarebbe pieno e bello vivere lo stesso così. Forse è solo una discussione teorica, però noi ci siamo infervorati su queste due visioni rispetto alla Risurrezione. A nostro parere, significa che abbiamo una domanda e abbiamo bisogno di un chiarimento. È sorta poi un’altra discussione: uno di noi diceva che in alcune situazioni maledirebbe il fatto di essere cristiano, perché questo essere cristiano gli fa fare in certe circostanze un’esperienza più faticosa, meno felice e meno soddisfacente. Anche su questo abbiamo discusso animatamente. Essere cristiani non risparmia alcuna fatica del vivere quotidiano, ma non è forse vero che usando il criterio di giudizio che nasce dalla fede si fa un’esperienza di vera letizia?». Questa è la verifica che ciascuno di noi è chiamato a fare, altrimenti è una discussione infruttuosa (perché poi ciascuno fa la verifica nel reale del punto di vista che difende). Se davanti alle circostanze uno non trovasse nella fede un aiuto per vivere, maledirebbe il fatto di essere cristiano. Per questo agli Esercizi abbiamo detto che la fede non può dire: «È così e basta», chiedendo un assenso gratuito, perché è legata all’esperienza, tanto è vero – dice don Giussani – che deve comparire davanti al tribunale della propria esperienza. La Chiesa non può barare proponendo qualcosa che non è in grado di compiere, ma neanche io posso barare, perché per affermare la verità non devo fare carte false. Se uno, a un certo punto, non può sorprendersi a vivere diversamente la realtà, la circostanza faticosa, proprio grazie alla fede, pian piano svuoterà di ragionevolezza la fede, la quale avrà una data di scadenza. Per questo non è la discussione teorica che risolve la questione; quel che risolve, ciò a cui don Giussani ci ha invitato costantemente, è la verifica della fede nell’esperienza. Altrimenti non possiamo uscire da questo “inghippo” che la fede, come qualsiasi altra realtà della storia e della vita, fa emergere: è vero o non è vero? La verità viene a galla davanti ai miei occhi solo nell’esperienza. In queste ultime settimane mi sono obbligata a leggere la Scuola di comunità tutti i giorni, perché purtroppo ancora non è una cosa che mi riesce naturale, e spesso lo faccio controvoglia; eppure capisco che, anche se non sento un trasporto, la Scuola di comunità è il primo strumento che ho per comprendere davvero le cose; da sola mi fermerei in superficie. A fronte di questo lavoro di paragone, è emerso che domina ancora la grettezza, la storditezza e lo smarrimento del mio io. Davanti ai fatti drammatici della mia vita mai ho percepito la lontananza di Cristo, anzi il mio rapporto con Lui si è approfondito proprio in quei momenti. Constato invece, non senza tristezza, che è nella quotidianità, nella normalità della giornata, che io mi allontano da Lui. A pagina 11 del libretto si legge: «Il cristianesimo è l’esaltazione della realtà concreta, l’affermazione del carnale 2 […], l’affermazione delle circostanze concrete e sensibili, per cui uno non ha nostalgia di grandezza quando si vede limitato in quel che deve fare: quel che deve fare, anche se piccolo, è grande, perché dentro lì vibra la Risurrezione». Spesso io invece stando a casa, nella normalità, mi trovo a pensare: è tutto qui? La normalità diventa banale e mi trovo a desiderare altro, vorrei fare altro. Penso: se ci fosse qui qualcuno o se facessi qualche altra cosa, allora sì che ne varrebbe la pena, e mi sento addosso un peso, come se fossi io responsabile di dover trasformare quella realtà in qualcosa di diverso. Questa percezione che ho delle cose non mi lascia indifferente, anzi, mi addolora molto, perché mi ritrovo a guardare la mia famiglia e la mia realtà in modo triste. Vorrei vivere non con la pretesa che il mondo intorno cambi, ma con la speranza di cambiare come Cristo mi chiede. Che cosa significa vivere la risurrezione di Cristo nella quotidianità? Come è per te? Come la Risurrezione ti fa guardare le cose e le persone nella normalità della giornata? Io desidero vivere alla luce di questo sguardo di vittoria e averlo per me, ma spesso ho un peso sul cuore. Questa è un’esemplificazione di ciò che dicevamo un momento fa. Se la Risurrezione non è un’esperienza, io vivo triste, io vivo le circostanze dicendo: «È tutto qui?». La risposta a questo interrogativo la troviamo in quel che don Giussani ci dice comunicandoci un’esperienza: «È nel mistero della Risurrezione il culmine e il colmo dell’intensità della nostra autocoscienza cristiana, perciò dell’autocoscienza nuova di me stesso, del modo con cui guardo tutte le persone e tutte le cose» (p. 11). Non c’è un altro sguardo, amici! Se io non recuperassi questo sguardo – ve l’ho detto in tante occasioni –, non potrei guardare me bene. Capisco che tu non puoi guardare qualsiasi cosa, tuo marito o tua figlia, senza lasciare entrare questo sguardo, senza dare credito a questo sguardo. Io non so come si possa vivere la fede senza dare credito a questo. Mi raccontavano di una ragazza americana appena convertita al cattolicesimo, che rispondendo alla domanda su cosa significasse per lei “uscire da sé”, affermava: «È semplice da capire. Io prima, quando stavo male, mi mettevo a scrivere sul mio diario o me ne andavo in giro senza meta; ora, invece, se mi accade di stare male, mi metto subito a fare Scuola di comunità. Ed è efficace. Questo vuol dire “uscire da sé”». È l’ultima arrivata! Perché i pubblicani – l’ho ripetuto diverse volte – tornavano da Gesù? Perché nel rapporto con Lui si introduceva un modo nuovo di guardare se stessi, le cose e le persone. Per questo Giussani dice che la Risurrezione è «la chiave di volta della novità del rapporto tra me e me stesso, tra me e gli uomini, tra me e le cose» (p. 11). Che Cristo è risorto, che la persona di Gesù di Nazareth che ha conquistato la vita vive, che non è un fatto del passato, che non è un devoto ricordo, che non è un sentimento, che è una presenza che permane nel tempo, lo si capisce perché introduce uno sguardo nuovo su tutto e noi lo possiamo toccare con mano in tante occasioni: leggendo la Scuola di comunità, attraverso le testimonianze di altri che ci introducono a un modo di guardare il reale dove vibra la risurrezione di Cristo. E questo fa sì che le circostanze concrete comincino a essere diverse. Per cui uno in quella circostanza, che è totalmente limitata e quindi non è all’altezza di tutta la sconfinata nostalgia che tu hai di pienezza, non ha una smania di grandezza. Quel che devi fare è grande anche se piccolo, perché vibra dentro la risurrezione di Cristo. E qual è la forma più immediata, più semplice di cominciare a capire queste cose? Il rapporto amoroso, quando una presenza è talmente determinante il presente che l’istante, che è e rimane pieno di limiti, esplode come pienezza di significato. Perché tutte le circostanze sono limitate! E quando noi non vediamo questa sovrabbondanza finisce che o ci arrabbiamo con le circostanze o vogliamo sfondare il limite delle circostanze andando oltre le nostre possibilità. Invece, quando tu vedi persone che, nelle circostanze quotidiane e banali di tutti, sono contente – cioè non hanno quella opacità della faccia, quel disagio permanente, quella acredine di fondo –, allora capisci cosa significa essere lieti perché Egli vive (e non perché le circostanze cambiano o divengono gloriose). Ti è capitato di fare qualche volta esperienza, anche nel rapporto con le persone e con le cose limitate, di una pienezza sconfinata? Sì. Bene, questo è solo un’immagine lontanissima di quel che introduce Cristo nella vita. Se la Risurrezione non è questo, se Cristo non è la Presenza che introduce questa novità nella vita, allora saremmo nella mischia come tutti, perché il desiderio 3 dell’uomo è sterminato, mentre la realtà è sempre limitata («È tutto qui?»). Ma in certi momenti è come se questo orizzonte si sfondasse e cominciassimo a vedere che il Mistero introduce qualcosa di nuovo, che ancora non ci è familiare, ma di cui abbiamo già percepito tutta la verità, tutta la densità di realtà, perché siamo stati contenti, perché siamo stati traboccanti, non perché le cose sono “andate bene”, ma per Lui. Se questo non è un’esperienza, la Risurrezione rimane un’affermazione assolutamente vuota, perché dentro lì – dentro, non accanto, non dopo, non sognando una situazione diversa –, quando sei con i tuoi figli a pulire loro il sedere, vibra la risurrezione di Cristo. Anche se ancora non è familiare, don Giussani ci offre questa possibilità: guardate che è così, anche se non è ancora totalmente nostro. La questione è se uno inizia a dare credito a questo, perché allora incomincerà a essere così. E questo da che cosa dipende? Dipende da un’apertura. Ciò che mi affligge in questi ultimi mesi non è qualche gigantesco dramma o chissà quale cosa, ma, anzi, è la calma piatta e la freddezza di cuore che mi ritrovo. La calma piatta. Sono apatico in tutto. Nulla mi smuove. E in questo tempo non è che non sia successo niente, anzi, sono accadute molte cose anche importanti (per esempio, è stata molto male la sorella di una mia cara amica; e vedevo intorno a me che per i miei amici tutto ciò non era un ostacolo o un freno, ma era sempre motivo di giudizio per non farsi scivolare la vita addosso, come invece succede a me). Ciò che mi fa arrabbiare di più è che io vedo come i miei amici crescono, come colgono ogni piccolo particolare della loro giornata per farne frutto, dall’entusiasmo che hanno quando mi raccontano le cose, entusiasmo tale che puoi non ascoltare una minima parola di quel che dicono, ma basta la loro faccia quando ti parlano per capire che dietro a quelle parole c’è molto di più. Quindi ho bisogno di ritrovare il mio “molto di più”, fosse solo banalmente perché non riesco a studiare e sto poco attento a lezione e a novembre mi laureo. L’unica certezza che ho è che quel “di più” io l’ho vissuto e so che c’è e che quindi è anche per me, ma non capisco cosa mi manca per riaverlo. La sera e la mattina prego affinché nella giornata possa ritrovarlo. Vado all’Angelus tutti i giorni e cerco di leggere la Scuola di comunità. Ma anche lì: apatia più completa. Non riesco a capire come ripartire. Non basta che preghiamo, ma occorre che siamo disponibili, aperti. Infatti, che cosa ti testimoniano i tuoi amici? Perché tu desideri crescere come loro? Perché colgono – dici – in ogni particolare della giornata quel che c’è. Questo non è un problema di volontarismo, non è un problema di bravura: il problema è cogliere quel che c’è. Lo si vede dall’entusiasmo che hanno i tuoi amici quando raccontano le cose, da come si stupiscono. Perché non è che loro abbiano di più di quel che hai tu o che ho io, il problema è che diamo per scontata tutta la realtà che è davanti a noi e per questo dobbiamo imparare, soprattutto da quegli amici con cui tu stai: «Ma che cosa hai visto?»; comincia a stare attento, immedesimati con quelli che ti sono dati: «Perché sei così entusiasta? Che cosa ti rende così entusiasta?». È il tuo sguardo che deve allargarsi, è uno sguardo che deve entrare nel tuo sguardo! E che cosa facilita questo? Dice un’altra mail: «Rispetto alla donna di Barco Negro o alla Maddalena, mi rendo conto che spesso non ho questa percezione del bisogno. Pensavo anche ai ragazzi di Gioventù Studentesca che a un raggio qualche settimana fa dicevano: “Quando non ci sono problemi è difficile riconoscerLo”. Come volere e permanere nel bisogno? Questo volere e permanere nel bisogno è amare il puro o espungere lo spurio?». Permanendo nel bisogno come bambini, come dice Giussani parlando della Risurrezione, perché i bambini si stupiscono di tutto. Invece noi siamo piatti, perché a un certo punto la realtà non ci parla più. E questo, dice don Giussani, è ciò che dobbiamo costantemente educare; occorre l’intelligenza del bambino per poter guardare le cose in modo vero: «Si chiama “fede” l’intelligenza umana quando, rimanendo nella povertà della sua natura originale, è tutta riempita da altro, poiché in sé è vuota, come braccia spalancate». È quel che dobbiamo rinnovare, perché la realtà è lì tutta per te, ma tante volte non ti parla perché, come diceva sant’Agostino, la realtà parla solo a chi fa il paragone con il cuore. Per questo don Giussani ci ha rimandato costantemente a quel capitolo che è la chiave di volta per uscire da questa impasse: il capitolo decimo de Il senso religioso, perché quando la presenza di 4 Cristo risorto ti fa vedere le circostanze, ti fa vedere il reale, ti fa sobbalzare, questo è il segno più palese della Risurrezione. Leggiamo: «Questo Mistero − Cristo risorto − è il giudice della nostra vita […]; la giudica di giorno in giorno, di ora in ora, di momento in momento» (p. 12). Cosa vuol dire che giudica, che è il giudice? È come se tu fossi innamorato; il giudizio su che cosa significa la tua morosa tu lo vedi nel tuo rapporto con il reale, di istante in istante, tu verifichi se quello sguardo è così determinante, così presente, così invadente la tua vita che tu non puoi entrare nel reale, vivere qualsiasi cosa, senza che quella presenza, che si è ficcata nelle tue ossa, determini la vita. Quando questo manca, quando viene meno questo, tutto è piatto; quando questa esperienza viene meno tutto diventa piatto. Perché è piatto in sé? No, perché manca quella intelligenza del bambino che dobbiamo costantemente rinnovare. Per questo Giussani dice che ci vuole una educazione; era la condizione che Gesù poneva sempre: «Potete entrare nel Regno dei cieli, cioè vedere tutta la ricchezza che è la vita e quel che Io porto, solo se diventate bambini». Che cosa ti fa diventare meno piatto? Non sei tu a doverlo generare, ma devi lasciarti colpire con semplicità, come un bambino, dal reale. Mi ricordo un amico che aveva avuto un incidente stradale, era rimasto paralizzato e senza coscienza per mesi; quando si è ridestato, tutto gli sembrava nuovo, diverso, tutto era nuovo! Noi lo vediamo tutti i giorni: e siamo piatti, perché noi ci siamo abituati, diamo tutto per scontato. E questo chiede da parte nostra un lavoro, sostenuti da quelle persone che ci troviamo accanto, che facilitano questa educazione. Le scorse settimane abbiamo portato in università la mostra su don Giussani Dalla mia vita alla vostra. Mi sono accorta di due cose. La prima è che è stata un’immensa grazia per tutti a causa degli incontri che abbiamo fatto; spiegando la mostra, tutti hanno approfondito di più cosa era loro successo nella vita, e questo li rendeva molto più stupiti davanti alla realtà che avevano davanti. Questo invito a portare in giro la mostra trova il primo riscontro in noi: si trovavano più stupiti. Poi quel che il Signore farà con il nostro sì è affare Suo. La seconda cosa è che ho visto in atto ciò che ci diceva il Papa il 7 marzo rispetto al carisma e al decentrarsi: attraverso la spiegazione della vita di Giussani tutti i ragazzi hanno approfondito il loro primo amore, il loro incontro con Cristo. Ed era questo che portavano a tutti. Ciò che ci è accaduto è stato grande, tanto che tutti si sono chiesti: ma si può vivere sempre così? E abbiamo visto nei giorni successivi che, con quello sguardo di Risurrezione negli occhi, se uno è leale con un cuore veramente bisognoso, non può che tornare a cercarLo giorno e notte. L’esempio più eclatante di questo è stato un ragazzo che ha visitato la mostra e da quel giorno è stato sempre con noi, venuto anche all’assemblea che abbiamo fatto la scorsa settimana e ci ha scritto questo (è veramente di un’intelligenza incredibile): «Conclusa la Scuola di comunità, oggi avevo il desiderio profondo di poter guardare tutti negli occhi e abbracciarli. Sono rientrato a casa in treno pieno di gioia e volevo capire. Ma è stato qualcosa di talmente grande che la sola cosa che mi è venuta da fare è stato rimanere in silenzio, pieno di uno stupore vivo. Come vorrei che fosse per ogni cosa, per ogni incontro! Ma c’è di più. È stato un silenzio pieno, lo stesso silenzio che ho vissuto di fronte alla Sacra Sindone: quel Volto che avevo guardato e che più mi attirava a Sé, oggi L’ho incontrato di nuovo attraverso di voi. Io ho detto solo di sì. Oggi, mentre parlavate, mi sono commosso. Mi sono chiesto: perché mi sono commosso? E mi sono accorto che ho un cuore desideroso di verità che mi ha reso consapevole di ciò che stava accadendo. Voi raccontavate che Gesù ha usato di chi spiegava la mostra per ricordare che si può vivere così come ha vissuto Giussani. E io mio sono chiesto: chi è Gesù per me? Oggi, così come negli ultimi giorni, siete stati voi, amici veri, che inaspettatamente in modo misterioso mi consentite di ricordami per che cosa sono al mondo e per Chi vale la pena vivere. Oggi avete detto: “Si vive per amore di qualcosa che sta accadendo ora”. E io mi sono chiesto: ma chi sono stato per voi io? Io ho fatto una cosa normale, ho detto di sì, sono venuto a visitare una mostra, ma in questa normalità tu, io e gli altri abbiamo riconosciuto Lui vivo in noi. Io mi sono riscoperto attraverso di voi, e mi viene da dire: è bello vivere così, vivere con la consapevolezza della presenza di Gesù a farci compagnia. Voglio vivere sempre così». Mi ha colpito perché ho visto in lui ciò che tu ci dicevi di Pietro: non basta riconoscere il 5 fatto, ma serve quell’intelligenza positiva tutta pronta ad affermare la realtà e ciò che costituisce la realtà. Si vede che è entrata una presenza nello sguardo per il fatto che uno si trova addosso un desiderio che non aveva prima: il desiderio di poter guardare tutti negli occhi e abbracciarli, non come l’esito di un proprio progetto (ritornare a casa sobbalzando di gioia, in silenzio). E lì, ascoltando quelli che gli presentavano la mostra, ha dovuto riconoscere chi erano loro, cioè la presenza di Gesù, qualcosa che è entrato nella sua carne e ha cominciato a introdurre una novità nel suo limite, nelle circostanze di tutti i giorni. Questa è un’opportunità a portata di mano di chiunque la lasci entrare, qualsiasi siano le circostanze. Anch’io ti racconto degli incontri che abbiamo fatto in università durante la mostra su don Giussani, col cuore pieno di gratitudine. Il primo giorno, mentre montavamo i pannelli, arrivano due ragazzi che solitamente si ritrovano proprio in quel posto per fumare. Sorpresi di averci trovato lì, si avvicinano e iniziano a sbirciare; e noi: «Volete che ve la spieghiamo?». La mostra apre le porte e i primi sono loro due. All’inizio hanno le facce scettiche e ogni tanto scappa loro un sorrisino, ma piano piano le loro facce cambiano e raccontano di sé e delle loro domande. A un certo punto, uno ci guarda e ci dice: «Bellissimo! Non pensavo che fosse così, la gente non sa queste cose, dovete dirlo a tutti!». Poi guarda l’orologio e dice: «Ragazzi, ma è passata un’ora e mezza! Io dovevo andare a un pranzo con dei miei amici, il tempo è volato». Il pomeriggio, mentre ci riposavamo, lo rivedo dietro la siepe, e gli grido: «Cosa ci fai ancora qui?». Risponde che doveva andare a lezione ed era svogliatissimo. Gli dico: «Qual è l’aula dove devi andare?». È un’aula che sta dalla parte opposta dell’ateneo… Mi dice: «Lo so, ma volevo rivedervi. Lasciatemi i vostri numeri, anche se non so se vi chiamerò». Il giorno dopo ritorna e mi dice: «Mai avevo fatto una lezione così bella come quella di ieri». Il pomeriggio abbiamo stampato centocinquanta volantini e abbiamo invitato tutti i ragazzi che c’erano in università. Quando gli amici mi hanno chiesto il perché, ho risposto: «Perché ieri un ragazzo appena conosciuto ci ha detto di invitare tutti». Il terzo giorno è venuto un nostro professore (a nostra insaputa, non è del movimento) che aveva letto la nostra mail di invito. Durante la mostra si è commosso più volte. E senti cosa ci ha scritto il giorno dopo: «La ringrazio di cuore per l’invito, ma soprattutto per l’accoglienza e l’accompagnamento di oggi. Un dono speciale è avere accanto degli studenti come voi, con il sorriso e la dolcezza che portate nel cuore, trasparenti come l’aria e limpidi come l’acqua della sorgente. Questa è l’immagine che, con don Giussani, oggi ho portato a casa alla mia famiglia, alla quale ho narrato di oggi. La vostra testimonianza di fede in prima persona rappresenta uno stimolo ad andare avanti anche nei momenti difficili per tutti noi». Di fronte a questi fatti (e ad altri che adesso non ho tempo per raccontare), mi chiedevo che cosa c’è di diverso rispetto ai discepoli di Emmaus che, dopo essere stati con Lui, tornano a casa e dicono: «Ma non ci batteva forse il cuore mentre stavamo con Lui?». Duemila anni. Cristo è presente oggi e non è roba mia. Io di tutto questo non son capace con le mie mani e con tutta la buona volontà. Poi il giorno dopo vado a messa e c’era il Vangelo in cui Gesù dice a Simone: «Prendi il largo e calate le reti per la pesca» (che per me vuol dire tu e i miei amici che mi dicono: «Vai a fare la mostra. Ti do quest’occasione»). E Simone gli risponde: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso un solo pesce, ma sulla Tua parola getterò le reti». Qui c’è tutta la resistenza che io ho, ma, a un certo punto, uno cede, «e avendolo fatto presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano». Se guardo ai pesci presi davanti alla tentazione di inorgoglirmi per il buon lavoro fatto, abbasso la testa e dico: «Grazie Signore, perché io non ho fatto altro che seguire Te». Sto capendo sempre più che questo Tu con la maiuscola coincide con un volto umano. La realtà, la compagnia del movimento, i miei amici, le proposte che ci vengono fatte sono la carne di Gesù che mi viene a prendere per dirmi: «Amico, vieni qui, rispondiMi qui, ti faccio vedere Io chi sono». Ma la scoperta più grande di tutte per me non sono stati tanto i pesci presi, ma essermi riaccorto che il primo “gamberetto” a essere stato acciuffato misteriosamente e indegnamente sono stato proprio io. Infatti, mentre guardavo come tanti dei ragazzi incontrati cerchino una risposta alla loro vita, le 6 domande che hanno, le resistenze che non riescono a superare, mi è venuto in mente un episodio in cui don Giussani parlando di un uomo che aveva incontrato da poco, commenta: «Se vedo […] in che modo s’affanna, cerca la strada, c’è un rispetto che nasce proprio dalla certezza che si ha; ché uno che è certo se vede uno che è incerto, ne ha pietà senza fondo e dice: “Dio, che cosa ho fatto io per essere diverso da lui?”». Questa novità nel quotidiano delle circostanze banali di tutti i giorni è semplicemente quell’intensità del vivere che ha introdotto nella vita la Risurrezione. Il giudizio che emerge da questi fatti è che Cristo è presente perché introduce questa novità. La questione è se noi, quando non succede, ne abbiamo nostalgia e torniamo a Lui. Non perché vogliamo generarlo noi con il nostro tentativo, ma per lasciare entrare la Sua presenza nel mio io che sta soffocando nelle circostanze. In occasione della presentazione della mostra, in città c’era la possibilità di avere i pannelli qualche giorno prima; allora ho pensato di allestirla nella scuola dove insegno; si tratta di un istituto paritario, medie e liceo, con circa trecentocinquanta alunni. Pensavo di fare visite guidate solo alle mie classi durante le mie ore, anche perché la mostra sarebbe rimasta a scuola solo per due giorni, poi dovevo montarla altrove. Per ragioni logistiche la mostra era allestita nell’atrio dove ci sono le macchinette del caffè e dove i liceali fanno la ricreazione. Le circostanze hanno voluto che presentassi la mostra a una mia classe (una terza media) proprio durante la ricreazione degli alunni del liceo e nel momento dove molti colleghi erano fermi in coda alle macchinette. Ero già pronto a chiedere piuttosto bruscamente silenzio, ma a un certo punto, mentre parlavo, sono arrivato di fronte al pannello «Donna, non piangere!», e ripensando e avendo ben presente quel che prima il don Gius e poi tu ci avete sempre ripetuto, ho detto ai miei alunni: «Ragazzi, immaginatevi questo fatto, questa donna che segue la bara di suo figlio, questa donna disperata che ha perso suo marito e adesso ha perso anche suo figlio. Immaginatevi il dolore, immaginatevi l’angoscia di questa donna. Provate a immaginare queste lacrime che nessun uomo può asciugare. Si avvicina Gesù e le dice: “Donna, non piangere!”. Ma chi può fare una cosa di questo genere? C’è qualcuno in grado di dire una frase così? Chi può farlo?». Ho smesso di parlare e mi sono accorto che il brusio iniziale era sparito. Ho alzato lo sguardo e ho visto che i presenti nell’atrio – non li ho contati, ma erano molti perché c’era tutto il liceo che stava facendo la ricreazione e i miei colleghi che bevevano il caffè – erano in silenzio e guardavano il pannello; non guardavano me, guardavano il pannello, guardavano quella domanda. E sono arrivato alla fine della mostra con soggezione, per un silenzio molto più assordante del brusio iniziale. Dopo qualche ora alcuni ragazzi mi si avvicinano e mi dicono: «Prof, presenta la mostra anche a noi?». Così per due giorni praticamente ho presentato a raffica la mostra. Mi è capitato di farlo persino a un gruppo di miei colleghi, cosa impensata e imprevedibile. Adesso non so cosa accadrà, ma ciò che è accaduto è una risposta per me, è un fatto che ha percosso il mio cuore. Magari qualcuno poteva anche liquidare la faccenda, e probabilmente qualcuno l’ha fatto, come una cosa piccola. Del resto, alcuni avevano detto che gli apostoli erano ubriachi, quindi magari – io non ero ubriaco! –… Ma nulla toglie a quel che è accaduto. Alla fine un ragazzo – e questo mi ha colpito molto – mi si è avvicinato e mi ha detto: «Prof, ma perché nessuno ci dice queste cose?! Perché non ce le ha dette prima?». E io mi sono sentito un po’ piccolo, perché in fondo è un po’ così, soprattutto in questo periodo di esami la mia preoccupazione è quella di preparare i ragazzi, non è proclamare un Uomo che, adesso, nonostante tutto, nonostante tutti i problemi, dice: «Non piangere!». Quel che mi stupisce della semplicità di queste testimonianze è che il primo guadagno è per noi, cioè che l’invito che il Papa ci fa a uscire, a comunicare ciò che ci è capitato, è prima di tutto per noi; perché è diverso che uno veda succedere queste cose nel reale come occasione per sfidare qualsiasi momento piatto, qualsiasi difficoltà. La fede cresce, come ci siamo detti sempre, donandola, condividendola, perché a noi è stata data per condividerla in qualsiasi circostanza, in questo caso la mostra su don Giussani. Perché una volta che i nostri fratelli uomini lo incontrano, ci dicono: «Dovete dirlo a tutti!», «Prof, perché nessuno ci dice queste cose?!». Qual è il nostro contributo? Che cosa stanno aspettando da noi? Che cosa significa essere una presenza? Tutte 7 queste testimonianze ci mostrano veramente qual è l’attesa di tanti che abitano accanto a noi. Per questo, nel tentativo nostro di vivere quel che ci è capitato, di entrare sempre di più in quel che ci è stato donato, si capisce il metodo di Dio, come Dio raggiunge altri e li cambia. Come ci ha detto don Giussani, è solo se cresce costantemente la nostra fede che potrà diventare un bene anche per tutti gli altri. * * * Prima di concludere dico una parola sulla manifestazione del prossimo 20 giugno, di cui si è discusso in questi giorni. La difesa della famiglia è una urgenza fortemente avvertita in tutta la Chiesa: lo ha sottolineato il Papa ancora una volta domenica scorsa, all’Angelus e soprattutto al Convegno della Diocesi di Roma. Lo ha dichiarato il Pontificio Consiglio per la famiglia, oltre che numerosi vescovi, associazioni e movimenti ecclesiali. Anche la Segreteria della Conferenza Episcopale Italiana ha espresso ufficialmente una posizione, ribadendo l’urgenza di unità di tutti i cattolici sul tema della famiglia. Su questo c’è una condivisione totale di tutta la Chiesa. Tuttavia proprio la CEI ha chiarito che nessuno ha il monopolio della modalità con cui intervenire nel dibattito pubblico e politico. Per questo non ha ritenuto di impegnare la Chiesa italiana in un sostegno diretto alla manifestazione. Andare in piazza il 20 giugno è, dunque, solo una delle opzioni, libera e legittima, ma che può essere del tutto discutibile. Questo vuol dire che viene meno la convinzione che la famiglia vada difesa? Io ho nei miei occhi l’esperienza della Spagna, che può valere come un esempio. Noi spagnoli abbiamo fatto molte e molte più numerose manifestazioni per difendere la famiglia (non so se qualche altra nazione ne abbia fatte così tante), portando in piazza milioni di persone. Tutti sappiamo che questo non ha portato al successo che noi desideravamo, anzi, sappiamo come sono finite le cose: una legislazione molto più permissiva nella direzione dei “nuovi diritti”. Che cosa impariamo da questo? Che le manifestazioni in piazza, che sono una modalità legittima in una società democratica come la nostra, lasciano il tempo che trovano. E che è ancora più urgente riconoscere ciò che abbiamo ripetuto citando l’allora cardinale Ratzinger, che ha avuto il coraggio di dire certe cose di cui, secondo me, noi facciamo fatica a renderci conto: che siamo davanti al «crollo di antiche sicurezze», delle evidenze più elementari. Per questo nell’intervento sulle elezioni europee dell’anno scorso ho citato questo passo: «Nell’epoca dell’Illuminismo [...] nella contrapposizione delle confessioni e nella crisi incombente dell’immagine di Dio, si tentò di tenere i valori essenziali della morale [cioè la famiglia, la vita eccetera] fuori dalle contraddizioni e di cercare per loro un’evidenza che li rendesse indipendenti dalle molteplici divisioni e incertezze delle varie filosofie e confessioni. Così si vollero assicurare le basi della convivenza e, più in generale, le basi dell’umanità. A quell’epoca sembrò possibile, in quanto le grandi convinzioni di fondo create dal cristianesimo in gran parte resistevano e sembravano innegabili» (J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto e la crisi delle culture, LEV-Cantagalli, Roma-Siena 2005, p. 61). Qual è stato l’esito di questa “pretesa”? Ratzinger risponde senza mezze parole: «È fallita» (Ibidem, p. 62). Possiamo dispiacerci di questo, ma è un dato. Per questo il primo realismo è constatare che le cose stanno così, e quindi che noi siamo chiamati a vivere queste sfide, come quella giustissima a riguardo della famiglia, in un contesto totalmente nuovo. E questo nuovo contesto è una sfida, prima che per gli altri, per noi: che cosa consente – a noi! – di resistere in un mondo in cui tutto, tutto, dice l’opposto? Come faranno le nostre famiglie a non essere allo sbando, nella loro consistenza, nell’educazione dei figli, nel rapporto tra marito e moglie? Crediamo ancora che il metodo di Dio è in grado di sostenere questo o no? Ora, ciò che abbiamo affidato a un avviso interno inviato alle comunità – che non è un comunicatostampa, un documento o un volantino, come hanno scritto taluni in questi giorni − e che volutamente non abbiamo messo sul sito di CL, era solo per un aiuto a un giudizio. Non è che ci siamo dimenticati di firmarlo – non abbiamo alcun problema a firmarlo, così come non ho alcun problema a parlarvi di queste cose apertamente –, non l’abbiamo voluto firmare di proposito; e ora 8 spiego perché. Le preoccupazioni contenute nell’avviso sono state fatte presenti fin dalla prima riunione del 27 marzo scorso promossa dal Cammino Neocatecumenale, alla quale siamo stati invitati insieme a tutto l’associazionismo cattolico. In quella riunione proprio le manifestazioni spagnole, di cui vi ho detto, erano state portate a esempio di una grande mobilitazione cattolica. In quella occasione e nella successiva riunione, nella quale è stata annunciata come già decisa la data della manifestazione (malgrado nella precedente non si fosse arrivati a un accordo), abbiamo spiegato perché non ritenevamo opportuno, proprio per affermare il valore della famiglia, la modalità proposta di una manifestazione di piazza. Discutendo su quali strumenti fossero più adeguati per affrontare il tema della difesa della famiglia, non si è arrivati a una ipotesi chiara e condivisa. Insieme a noi gran parte dell’associazionismo cattolico italiano (Azione Cattolica, Rinnovamento dello Spirito, Comunità di Sant’Egidio, Focolarini, membri dell’Opus Dei) e il Forum delle Associazioni familiari non hanno ritenuto opportuno aderire. E così quella che era stata pensata come una iniziativa dei cattolici è diventata una manifestazione “aconfessionale”, senza sigle e bandiere, cui hanno aderito il Cammino Neocatecumenale e altre sigle come Alleanza Cattolica, Manif pour Tous, Pro Vita. A questo punto, ci siamo sentiti liberi, e per questo abbiamo ritenuto fuori luogo prendere come movimento una posizione pubblica a riguardo della manifestazione. Ma poiché nelle ultime settimane tanti amici chiedevano un aiuto per un giudizio sull’iniziativa, abbiamo preparato l’avviso. La non-adesione non è stata dettata da tatticismo politico, ma da un criterio di realismo e prudenza, perché la storia recente dimostra che ogni volta che per difendere un valore si punta alla piazza, l’esito non è una possibilità di incidenza positiva, ma un muro; non si arresta né si rallenta un processo, ma lo si accelera. D’altra parte, già nel 2007, in occasione della proposta di una manifestazione dei cattolici contro il disegno di legge sul riconoscimento delle coppie di fatto eterosessuali e omosessuali (i famosi DICO: «Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi»), avevamo espresso giudizi analoghi, convinti che nel clima culturale in cui viviamo è difficile che le contrapposizioni portino a risultati costruttivi e convincenti, perché viviamo in una società in cui l’ideologia prevale sull’esperienza. In questo senso, sottolineavamo che la tendenza all’ideologizzazione si combatte attraverso la testimonianza di un’esperienza in cui si possa constatare che la famiglia è un “di più” di umanità. E questo non significa allora chiudersi nelle sacrestie, perché questo “di più” si dà nella vita! La testimonianza nella vita quotidiana è altrettanto pubblica come la manifestazione di piazza, non è che l’una sia privata e l’altra pubblica. Altrimenti, facilmente ci si disperde e, soprattutto, si tralascia l’aspetto più rilevante, che è quello educativo. Ma nel 2007 la CEI chiese esplicitamente a noi e a tutti gli altri movimenti e associazioni di sostenere la manifestazione; e noi obbedimmo. Ora, evidentemente, il contesto differente ha suggerito ai Vescovi una scelta diversa. E noi continuiamo a seguire. Questo non impedisce che – come hanno detto anche i Vescovi – chiunque voglia andare, vada. Da dove ripartire in questo contesto? Ci siamo appellati tante volte in questi ultimi tempi ai cristiani perseguitati. Quando crolla tutto, da dove ripartono loro? A che cosa si appellano, se non a quel che abbiamo detto questa sera, alla testimonianza della novità di vita che Cristo risorto ha introdotto nella vita? In una situazione come questa, il metodo non è altro che mostrare un di più di umanità nella testimonianza della vita quotidiana. Ma a noi questo tante volte sembra troppo poco, e per questo ci stupisce il metodo di Dio che quando ha deciso di diventare uomo spogliò Se stesso vivendo come uno dei tanti (nessuno avrebbe fatto così, nessuno di noi avrebbe fatto così!) e scommettendo tutto sull’attrattiva che provocava la Sua persona davanti a tutti. E questo noi lo sappiamo perché don Giussani ci ha comunicato il cristianesimo così. Ciò che mi stupisce è che noi facciamo tanta fatica a capirlo. Resta per noi decisivo il dovere della testimonianza dentro le circostanze quotidiane, anche con gli strumenti della propria professione. Il nostro contributo al dibattito consiste nel comunicare una positività ultima in ogni situazione e rapporto; e questo è un compito che ciascuno può – e dovrebbe − vivere nel dialogo con chiunque. Perché è qui il problema: quando le famiglie vengono meno, quando le persone non sono in grado di stare in piedi davanti alla realtà, c’è qualche cosa che vedono aprire una possibilità per loro? Perché le nazioni erano piene di leggi buone, ma questo non 9 ha fermato la valanga che stiamo vivendo adesso. È parte di questa testimonianza anche la difesa di uno spazio di libertà per ciascuno e per tutti, come abbiamo detto in occasione delle elezioni europee. E come abbiamo scritto dopo i fatti parigini, «spazio di libertà vuol dire spazio per dirsi, ognuno o insieme, davanti a tutti. Ciascuno metta a disposizione di tutti la sua visione e il suo modo di vivere. Questa condivisione ci farà incontrare a partire dall’esperienza reale di ciascuno e non da stereotipi ideologici che rendono impossibile il dialogo» (J. Carrón, «La sfida del vero dialogo dopo gli attentati di Parigi», Corriere della Sera, 13 febbraio 2015, p. 27). Chiediamo la stessa libertà di vivere e di educare che gli altri chiedono per sé. Un amico mi ha scritto comunicandomi una preoccupazione che tanti genitori sentono: «Alla fine rimane di difficile risposta la preoccupazione più grande: come proteggere i miei figli? È indubbia la necessità di testimoniare loro la “vita” e di vigilare su quanto viene proposto a scuola o in altri contesti, ma spesso mi chiedo se è sufficiente. Come padre vorrei sempre proteggerli e isolarli dal male del mondo, con la tentazione di combattere al posto loro. In questo contesto mi sembra, però, che possano essere sopraffatti dalla forza di una ideologia veramente devastante, e a volte mi viene il dubbio se non sia ormai inevitabile contrastare l’invasione. So bene che la storia ci insegna che a contrastare le invasioni barbariche non fu quel che restava dell’esercito romano, ma la “vita” dei monaci; però durante quelle invasioni molti furono i caduti e la mia preoccupazione di padre è che i “caduti” possano essere i miei figli». Per questo mi sembra utile per noi vedere come i nostri amici cristiani perseguitati educano i figli, per affrontare le sfide del vivere. Guardiamo questo video. Proiezione del video dell’intervista a Myriam, profuga irachena a Qaraqoush. - «Durante la nostra visita a questo campo, ci siamo sorpresi di trovare questa ragazzina che ci ha detto che guardava la nostra trasmissione “Laysh Hayak”. Si chiama Myriam. Come stai Myriam?» - «Bene e tu?» - «Molto bene» - «Veramente guardi la nostra trasmissione?» - «Sì» - «Ti piace SAT-7 Kids?» - «Sì» - «Di dove sei? Sei anche tu di Qaraqoush?» - «Sì, sono di Qaraqoush» - «Hai dieci anni, vero?» - «Sì» - «Da quanto tempo sei in questo campo?» - «Da quattro mesi» - «Qual è la cosa che ti manca di più di Qaraqoush che non hai qui?» - «Avevamo una casa dove ci trovavamo a giocare e qui non c’è, ma grazie a Dio, Dio si preoccupa per noi» - «Cosa intendi con “Dio si preoccupa per noi?”» - «Che Dio ci ama e non ha permesso che l’ISIS ci uccidesse» - «Tu sai quanto Dio ti ama, vero?» - «Sì, Dio ci ama tutti, non solo me, Dio ama tutti» - «Credi che Dio ami anche coloro che ti hanno fatto del male o no?» - «Lui li ama, ma non ama Satana» - «Cosa senti nei confronti di quelli che ti hanno obbligato a lasciare la tua casa, e ti hanno causato disagi?» - «Non voglio far loro niente, chiedo solo a Dio di perdonarli» - «E anche tu puoi perdonarli?» - «Sì» - «Ma è molto difficile perdonare chi ti ha fatto soffrire, Myriam, o è facile?» 10 - «Io non voglio ucciderli. Perché ucciderli? Sono solo triste che ci hanno cacciato dalle nostre case, perché lo hanno fatto?» - «Ti piaceva la tua scuola a Qaraqoush, vero?» - «Sì, ero la prima della classe» - «Avevi anche degli amici a scuola?» - «Sì» - «Sono qui con te o non c’è nessuno?» - «Ci sono, ma non so dove sono» - «Magari qualcuno di loro sta guardando SAT-7 Kids in televisione adesso. Cosa vorresti dire loro?» - «Avevo un’amica prima di venire qui. Si chiama Sandra, stavamo insieme tutto il giorno, tutto il giorno a scuola stavamo insieme anche se non abitavamo vicine, ci volevamo bene. Se una faceva un torto all’altra, ci perdonavamo. A volte giocando ci facevamo del male, ma sempre ci perdonavamo. Ci volevamo bene, adesso mi piacerebbe solo rivederla» - «Non sai dov’è adesso, vero?» - «No, non so dov’è» - «Se Sandra ci sta guardando, sono sicuro che penserà a te e sono sicuro che ti vuole bene, Myriam» - «Mi vuole molto bene e io voglio molto bene a lei. E spero di rivederla un giorno» - «Certamente mi piacerebbe essere con te il giorno che la incontrerai» - «Spero» - «Cosa speri?» - «Spero di tornare a casa e che anche lei torni a casa così ci possiamo rivedere» - «Spero che tornerai in una casa ancora più bella della tua prima casa» - «Se Dio vuole. Non quello che vogliamo noi, ma quello che vuole Dio, perché Lui sa» - «Non sei triste qualche volta? Non ti sembra, per esempio, che Gesù ti abbia dimenticato?» - «No, certe volte piango perché abbiamo lasciato la nostra casa e Qaraqoush, ma non sono arrabbiata con Dio perché abbiamo lasciato Qaraqoush. Lo ringrazio perché Lui si occupa di noi. Anche se qui stiamo soffrendo, Lui ci dà quello di cui abbiamo bisogno» - «Tu mi hai insegnato molte cose, sì» - «Grazie, anche tu mi hai insegnato molte cose» - «Cosa ti ho insegnato?» - «Mi hai insegnato… No, non insegnato, voglio dire che hai condiviso quello che sento io. Tu hai condiviso con me… in un certo modo volevo che le persone sapessero come mi sento, come si sentono i bambini qui» - «Sai che Gesù non ti abbandona mai?» - «Lui non mi dimentica mai. Se ci credi davvero, Lui non ti abbandona mai» - «Ti ricordi qualche canzone che ti piace cantare quando sei da sola? Per parlare a Gesù? O non te ne ricordi?» - «So delle canzoni» - «Mi canteresti, canteresti per noi, la tua canzone preferita? Anche una canzone corta che puoi cantarci, che ne dici?» - «Ce n’è una: “Che gioia il giorno in cui ho creduto in Cristo. La mia gioia era completa all’alba e la mia voce cantava di gratitudine il mio amore per il mio glorioso Salvatore. Crescerà di giorno in giorno. Una nuova vita, un giorno felice quando mi riunirò con il mio Amato. Per amore, è venuto, oh che meraviglioso amore! Mi ha fatto giustizia in nome di un’alleanza santa. Il mio amore per il mio glorioso Salvatore crescerà di giorno in giorno. Una nuova vita, un giorno felice, quando mi riunirò con il mio Amato”». Tante volte noi siamo preoccupati o spaventati per i figli, per il contesto in cui vivono, per la violenza ideologica veramente imponente che li assale. Ma qui c’è di più, come avete visto: 11 Myriam, dieci anni, vive in un contesto dove la violenza – ideologica e fisica − ha strappato via tutto. Ma tutto il male del mondo non riesce a bloccare un ragazzina come lei. Per questo rappresenta una bella sfida educativa per noi: possiamo tirare grandi figli che, in questo contesto, possano vivere davanti alle sfide che dovranno affrontare? Di che cosa hanno bisogno per vivere come Myriam? Che testimonianza offrono i cristiani perseguitati a noi cristiani occidentali? Di che cosa abbiamo bisogno per tirare su dei figli capaci di vivere come lei? Questa è una grande sfida. Questa è la grande sfida educativa; qualunque sia la possibilità che abbiamo di bloccare altro, la radice ultima della sfida è questa: se la fede, qualsiasi sia il contesto in cui ci troviamo a viverla, è in grado di resistere. Per questo, come abbiamo detto agli Esercizi, «è nel mistero della Risurrezione il culmine e il colmo dell’intensità della nostra autocoscienza cristiana». Noi abbiamo bisogno che questo diventi sempre di più carne della nostra carne per poterlo comunicare ai nostri giovani. Il lavoro di Scuola di comunità continua fino a fine giugno sull’Introduzione degli Esercizi della Fraternità compreso l’inizio dell’assemblea, perché la prima domanda e risposta si riferiscono proprio all’introduzione. Insieme agli Esercizi riprendiamo anche il primo capitolo della seconda parte del testo della Scuola di comunità, Perché la Chiesa, da pagina 81 a pagina 89. Nei mesi da luglio a settembre riprenderemo la lezione degli Esercizi del sabato mattina insieme alle domande e risposte dell’assemblea relative a questa lezione, da pagina 91 a pagina 100 e 104- 105. In questa lezione, come sappiamo, affrontiamo il tema di una difficoltà di intelligenza causata da una situazione non evoluta del senso religioso che abbiamo definito, con un’espressione di Benedetto XVI, uno «strano oscuramento del pensiero» (Benedetto XVI, Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald, LEV, Città del Vaticano 2010, p. 47); per cui, come vediamo, non riconosciamo già più neanche le cose più elementari del vivere. Allora la domanda su cui vi invito a lavorare è: che cosa ci aiuta a uscire da questo strano oscuramento? Dove ti sei sorpreso a uscire da questo oscuramento e che cosa ti ha reso possibile riconoscere la realtà, l’evidenza elementare delle cose? Perché questo documenta che la Risurrezione è veramente un fatto che invade la vita e che ci consente di guardare tutto, così come la Chiesa guarda tutto la notte di Pasqua. Questo è il giudizio. La Risurrezione è un giudizio, perché? Perché nessuno si potrebbe sognare di guardare tutto − dalla domanda sul perché vale la pena essere nato alla colpa, al male, alla difficoltà − senza la risurrezione di Cristo. Abbiamo davanti questi mesi per aiutarci a capire veramente il contesto in cui siamo chiamati a vivere la fede. Intervista su Repubblica. In merito all’intervista che ho rilasciato al giornale la Repubblica sulle inchieste di Roma, siccome noi non disponiamo di grandi strumenti di comunicazione, sui quali invece siamo continuamente tirati in ballo a sproposito, chiedo a ciascuno di voi di impegnarsi veramente nel far conoscere il più possibile il contenuto dell’intervista agli amici e conoscenti nei luoghi in cui vivete. Vacanze estive. Le vacanze comunitarie avranno come tema: «Quando abbiamo sorpreso e riconosciuto nella nostra esperienza una presenza nello sguardo?». Non facciamo riflessioni astratte su che cosa è la presenza, ma verifichiamo quando l’abbiamo riconosciuto, quando ci siamo resi conto che soltanto quella presenza nello sguardo ci consente di guardare tutto in un modo nuovo, il rapporto tra me e me, tra me e mia moglie, tra me e le cose e le persone. Durante l’estate e le vacanze suggeriamo di proporre pubblicamente nei luoghi di villeggiatura la mostra su don Giussani Dalla mia vita alla vostra e il video di don Giussani Il pensiero, i discorsi, la fede. Proponiamo inoltre di fare un dialogo insieme sul testo del Bardy (La conversione al cristianesimo nei primi secoli), per una verifica di cosa la lettura di questo testo ha provocato e che giudizio e domande ne sono nate; è un’occasione per riproporlo e per condividere gli uni gli altri quello che ciascuno ha potuto guadagnare da questo testo. L’abbiamo proposto proprio perché siamo chiamati a vivere la fede in un contesto simile a quello che descrive il Bardy nei primi secoli. 12 Ricordiamo l’importanza della partecipazione al Meeting di Rimini (20-26 agosto 2015), andando tutti almeno un giorno. Libri per l’estate. Un’attrattiva che muove. La proposta inesauribile della vita di don Giussani, a cura di A. Savorana, con la raccolta di presentazioni del libro della vita di don Giussani. Tutta la gloria nel profondo. Il mondo, la carne e padre Smith, di Bruce Marshall. Vive come l’erba… Storie di donne nel totalitarismo, di Bonaguro, Dell’Asta e Parravicini. La mia porta è sempre aperta. Una conversazione con Antonio Spadaro, intervista di A. Spadaro a papa Francesco. È stato realizzato, In cammino, il dvd dell’Udienza del 7 marzo 2015 con papa Francesco. Lo proponiamo come occasione per prendere ancora più consapevolezza dell’incontro fatto e di quanto ci ha proposto. La Giornata d’inizio anno si terrà sabato 26 settembre 2015 a Milano e in collegamento in molte città della Lombardia e dell’Italia. Veni Sancte Spiritus Buona estate a tutti!
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