domenica 28 giugno 2015
Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 17 giugno 2015
Testo di riferimento: J. Carrón, Introduzione, in UNA PRESENZA NELLO SGUARDO, suppl. a Tracce-Litterae communionis, maggio 2015, pp. 4-19; L. Giussani, «La continuità di Gesù Cristo: radice della coscienza che la Chiesa ha di sé», Perché la Chiesa, Rizzoli, Milano 2014, pp. 81-89.
• Por tudo meu Jesus
• Favola Gloria
Ci eravamo dati il compito di continuare il lavoro sull’Introduzione degli Esercizi della Fraternità e sul capitolo di Perché la Chiesa che affronta il tema della Risurrezione. La prima domanda è proprio su questo: «Nell’incontro settimanale del nostro gruppo di Scuola di comunità, in cui leggevamo il capitolo sulla permanenza di Gesù fra gli uomini, sono venute fuori alcune questioni sulle quali abbiamo animatamente discusso. Alcuni affermavano che uno può vivere bene il presente in quanto c’è la certezza della Risurrezione e della vita eterna, altri sostenevano che l’eternità è una promessa e che il centuplo lo si sperimenta qui e ora stando dentro la realtà presente, tanto che se anche, per assurdo, dopo non ci fosse niente sarebbe pieno e bello vivere lo stesso così. Forse è solo una discussione teorica, però noi ci siamo infervorati su queste due visioni rispetto alla Risurrezione. A nostro parere, significa che abbiamo una domanda e abbiamo bisogno di un chiarimento. È sorta poi un’altra discussione: uno di noi diceva che in alcune situazioni maledirebbe il fatto di essere cristiano, perché questo essere cristiano gli fa fare in certe circostanze un’esperienza più faticosa, meno felice e meno soddisfacente. Anche su questo abbiamo discusso animatamente. Essere cristiani non risparmia alcuna fatica del vivere quotidiano, ma non è forse vero che usando il criterio di giudizio che nasce dalla fede si fa un’esperienza di vera letizia?». Questa è la verifica che ciascuno di noi è chiamato a fare, altrimenti è una discussione infruttuosa (perché poi ciascuno fa la verifica nel reale del punto di vista che difende). Se davanti alle circostanze uno non trovasse nella fede un aiuto per vivere, maledirebbe il fatto di essere cristiano. Per questo agli Esercizi abbiamo detto che la fede non può dire: «È così e basta», chiedendo un assenso gratuito, perché è legata all’esperienza, tanto è vero – dice don Giussani – che deve comparire davanti al tribunale della propria esperienza. La Chiesa non può barare proponendo qualcosa che non è in grado di compiere, ma neanche io posso barare, perché per affermare la verità non devo fare carte false. Se uno, a un certo punto, non può sorprendersi a vivere diversamente la realtà, la circostanza faticosa, proprio grazie alla fede, pian piano svuoterà di ragionevolezza la fede, la quale avrà una data di scadenza. Per questo non è la discussione teorica che risolve la questione; quel che risolve, ciò a cui don Giussani ci ha invitato costantemente, è la verifica della fede nell’esperienza. Altrimenti non possiamo uscire da questo “inghippo” che la fede, come qualsiasi altra realtà della storia e della vita, fa emergere: è vero o non è vero? La verità viene a galla davanti ai miei occhi solo nell’esperienza. In queste ultime settimane mi sono obbligata a leggere la Scuola di comunità tutti i giorni, perché purtroppo ancora non è una cosa che mi riesce naturale, e spesso lo faccio controvoglia; eppure capisco che, anche se non sento un trasporto, la Scuola di comunità è il primo strumento che ho per comprendere davvero le cose; da sola mi fermerei in superficie. A fronte di questo lavoro di paragone, è emerso che domina ancora la grettezza, la storditezza e lo smarrimento del mio io. Davanti ai fatti drammatici della mia vita mai ho percepito la lontananza di Cristo, anzi il mio rapporto con Lui si è approfondito proprio in quei momenti. Constato invece, non senza tristezza, che è nella quotidianità, nella normalità della giornata, che io mi allontano da Lui. A pagina 11 del libretto si legge: «Il cristianesimo è l’esaltazione della realtà concreta, l’affermazione del carnale 2 […], l’affermazione delle circostanze concrete e sensibili, per cui uno non ha nostalgia di grandezza quando si vede limitato in quel che deve fare: quel che deve fare, anche se piccolo, è grande, perché dentro lì vibra la Risurrezione». Spesso io invece stando a casa, nella normalità, mi trovo a pensare: è tutto qui? La normalità diventa banale e mi trovo a desiderare altro, vorrei fare altro. Penso: se ci fosse qui qualcuno o se facessi qualche altra cosa, allora sì che ne varrebbe la pena, e mi sento addosso un peso, come se fossi io responsabile di dover trasformare quella realtà in qualcosa di diverso. Questa percezione che ho delle cose non mi lascia indifferente, anzi, mi addolora molto, perché mi ritrovo a guardare la mia famiglia e la mia realtà in modo triste. Vorrei vivere non con la pretesa che il mondo intorno cambi, ma con la speranza di cambiare come Cristo mi chiede. Che cosa significa vivere la risurrezione di Cristo nella quotidianità? Come è per te? Come la Risurrezione ti fa guardare le cose e le persone nella normalità della giornata? Io desidero vivere alla luce di questo sguardo di vittoria e averlo per me, ma spesso ho un peso sul cuore. Questa è un’esemplificazione di ciò che dicevamo un momento fa. Se la Risurrezione non è un’esperienza, io vivo triste, io vivo le circostanze dicendo: «È tutto qui?». La risposta a questo interrogativo la troviamo in quel che don Giussani ci dice comunicandoci un’esperienza: «È nel mistero della Risurrezione il culmine e il colmo dell’intensità della nostra autocoscienza cristiana, perciò dell’autocoscienza nuova di me stesso, del modo con cui guardo tutte le persone e tutte le cose» (p. 11). Non c’è un altro sguardo, amici! Se io non recuperassi questo sguardo – ve l’ho detto in tante occasioni –, non potrei guardare me bene. Capisco che tu non puoi guardare qualsiasi cosa, tuo marito o tua figlia, senza lasciare entrare questo sguardo, senza dare credito a questo sguardo. Io non so come si possa vivere la fede senza dare credito a questo. Mi raccontavano di una ragazza americana appena convertita al cattolicesimo, che rispondendo alla domanda su cosa significasse per lei “uscire da sé”, affermava: «È semplice da capire. Io prima, quando stavo male, mi mettevo a scrivere sul mio diario o me ne andavo in giro senza meta; ora, invece, se mi accade di stare male, mi metto subito a fare Scuola di comunità. Ed è efficace. Questo vuol dire “uscire da sé”». È l’ultima arrivata! Perché i pubblicani – l’ho ripetuto diverse volte – tornavano da Gesù? Perché nel rapporto con Lui si introduceva un modo nuovo di guardare se stessi, le cose e le persone. Per questo Giussani dice che la Risurrezione è «la chiave di volta della novità del rapporto tra me e me stesso, tra me e gli uomini, tra me e le cose» (p. 11). Che Cristo è risorto, che la persona di Gesù di Nazareth che ha conquistato la vita vive, che non è un fatto del passato, che non è un devoto ricordo, che non è un sentimento, che è una presenza che permane nel tempo, lo si capisce perché introduce uno sguardo nuovo su tutto e noi lo possiamo toccare con mano in tante occasioni: leggendo la Scuola di comunità, attraverso le testimonianze di altri che ci introducono a un modo di guardare il reale dove vibra la risurrezione di Cristo. E questo fa sì che le circostanze concrete comincino a essere diverse. Per cui uno in quella circostanza, che è totalmente limitata e quindi non è all’altezza di tutta la sconfinata nostalgia che tu hai di pienezza, non ha una smania di grandezza. Quel che devi fare è grande anche se piccolo, perché vibra dentro la risurrezione di Cristo. E qual è la forma più immediata, più semplice di cominciare a capire queste cose? Il rapporto amoroso, quando una presenza è talmente determinante il presente che l’istante, che è e rimane pieno di limiti, esplode come pienezza di significato. Perché tutte le circostanze sono limitate! E quando noi non vediamo questa sovrabbondanza finisce che o ci arrabbiamo con le circostanze o vogliamo sfondare il limite delle circostanze andando oltre le nostre possibilità. Invece, quando tu vedi persone che, nelle circostanze quotidiane e banali di tutti, sono contente – cioè non hanno quella opacità della faccia, quel disagio permanente, quella acredine di fondo –, allora capisci cosa significa essere lieti perché Egli vive (e non perché le circostanze cambiano o divengono gloriose). Ti è capitato di fare qualche volta esperienza, anche nel rapporto con le persone e con le cose limitate, di una pienezza sconfinata? Sì. Bene, questo è solo un’immagine lontanissima di quel che introduce Cristo nella vita. Se la Risurrezione non è questo, se Cristo non è la Presenza che introduce questa novità nella vita, allora saremmo nella mischia come tutti, perché il desiderio 3 dell’uomo è sterminato, mentre la realtà è sempre limitata («È tutto qui?»). Ma in certi momenti è come se questo orizzonte si sfondasse e cominciassimo a vedere che il Mistero introduce qualcosa di nuovo, che ancora non ci è familiare, ma di cui abbiamo già percepito tutta la verità, tutta la densità di realtà, perché siamo stati contenti, perché siamo stati traboccanti, non perché le cose sono “andate bene”, ma per Lui. Se questo non è un’esperienza, la Risurrezione rimane un’affermazione assolutamente vuota, perché dentro lì – dentro, non accanto, non dopo, non sognando una situazione diversa –, quando sei con i tuoi figli a pulire loro il sedere, vibra la risurrezione di Cristo. Anche se ancora non è familiare, don Giussani ci offre questa possibilità: guardate che è così, anche se non è ancora totalmente nostro. La questione è se uno inizia a dare credito a questo, perché allora incomincerà a essere così. E questo da che cosa dipende? Dipende da un’apertura. Ciò che mi affligge in questi ultimi mesi non è qualche gigantesco dramma o chissà quale cosa, ma, anzi, è la calma piatta e la freddezza di cuore che mi ritrovo. La calma piatta. Sono apatico in tutto. Nulla mi smuove. E in questo tempo non è che non sia successo niente, anzi, sono accadute molte cose anche importanti (per esempio, è stata molto male la sorella di una mia cara amica; e vedevo intorno a me che per i miei amici tutto ciò non era un ostacolo o un freno, ma era sempre motivo di giudizio per non farsi scivolare la vita addosso, come invece succede a me). Ciò che mi fa arrabbiare di più è che io vedo come i miei amici crescono, come colgono ogni piccolo particolare della loro giornata per farne frutto, dall’entusiasmo che hanno quando mi raccontano le cose, entusiasmo tale che puoi non ascoltare una minima parola di quel che dicono, ma basta la loro faccia quando ti parlano per capire che dietro a quelle parole c’è molto di più. Quindi ho bisogno di ritrovare il mio “molto di più”, fosse solo banalmente perché non riesco a studiare e sto poco attento a lezione e a novembre mi laureo. L’unica certezza che ho è che quel “di più” io l’ho vissuto e so che c’è e che quindi è anche per me, ma non capisco cosa mi manca per riaverlo. La sera e la mattina prego affinché nella giornata possa ritrovarlo. Vado all’Angelus tutti i giorni e cerco di leggere la Scuola di comunità. Ma anche lì: apatia più completa. Non riesco a capire come ripartire. Non basta che preghiamo, ma occorre che siamo disponibili, aperti. Infatti, che cosa ti testimoniano i tuoi amici? Perché tu desideri crescere come loro? Perché colgono – dici – in ogni particolare della giornata quel che c’è. Questo non è un problema di volontarismo, non è un problema di bravura: il problema è cogliere quel che c’è. Lo si vede dall’entusiasmo che hanno i tuoi amici quando raccontano le cose, da come si stupiscono. Perché non è che loro abbiano di più di quel che hai tu o che ho io, il problema è che diamo per scontata tutta la realtà che è davanti a noi e per questo dobbiamo imparare, soprattutto da quegli amici con cui tu stai: «Ma che cosa hai visto?»; comincia a stare attento, immedesimati con quelli che ti sono dati: «Perché sei così entusiasta? Che cosa ti rende così entusiasta?». È il tuo sguardo che deve allargarsi, è uno sguardo che deve entrare nel tuo sguardo! E che cosa facilita questo? Dice un’altra mail: «Rispetto alla donna di Barco Negro o alla Maddalena, mi rendo conto che spesso non ho questa percezione del bisogno. Pensavo anche ai ragazzi di Gioventù Studentesca che a un raggio qualche settimana fa dicevano: “Quando non ci sono problemi è difficile riconoscerLo”. Come volere e permanere nel bisogno? Questo volere e permanere nel bisogno è amare il puro o espungere lo spurio?». Permanendo nel bisogno come bambini, come dice Giussani parlando della Risurrezione, perché i bambini si stupiscono di tutto. Invece noi siamo piatti, perché a un certo punto la realtà non ci parla più. E questo, dice don Giussani, è ciò che dobbiamo costantemente educare; occorre l’intelligenza del bambino per poter guardare le cose in modo vero: «Si chiama “fede” l’intelligenza umana quando, rimanendo nella povertà della sua natura originale, è tutta riempita da altro, poiché in sé è vuota, come braccia spalancate». È quel che dobbiamo rinnovare, perché la realtà è lì tutta per te, ma tante volte non ti parla perché, come diceva sant’Agostino, la realtà parla solo a chi fa il paragone con il cuore. Per questo don Giussani ci ha rimandato costantemente a quel capitolo che è la chiave di volta per uscire da questa impasse: il capitolo decimo de Il senso religioso, perché quando la presenza di 4 Cristo risorto ti fa vedere le circostanze, ti fa vedere il reale, ti fa sobbalzare, questo è il segno più palese della Risurrezione. Leggiamo: «Questo Mistero − Cristo risorto − è il giudice della nostra vita […]; la giudica di giorno in giorno, di ora in ora, di momento in momento» (p. 12). Cosa vuol dire che giudica, che è il giudice? È come se tu fossi innamorato; il giudizio su che cosa significa la tua morosa tu lo vedi nel tuo rapporto con il reale, di istante in istante, tu verifichi se quello sguardo è così determinante, così presente, così invadente la tua vita che tu non puoi entrare nel reale, vivere qualsiasi cosa, senza che quella presenza, che si è ficcata nelle tue ossa, determini la vita. Quando questo manca, quando viene meno questo, tutto è piatto; quando questa esperienza viene meno tutto diventa piatto. Perché è piatto in sé? No, perché manca quella intelligenza del bambino che dobbiamo costantemente rinnovare. Per questo Giussani dice che ci vuole una educazione; era la condizione che Gesù poneva sempre: «Potete entrare nel Regno dei cieli, cioè vedere tutta la ricchezza che è la vita e quel che Io porto, solo se diventate bambini». Che cosa ti fa diventare meno piatto? Non sei tu a doverlo generare, ma devi lasciarti colpire con semplicità, come un bambino, dal reale. Mi ricordo un amico che aveva avuto un incidente stradale, era rimasto paralizzato e senza coscienza per mesi; quando si è ridestato, tutto gli sembrava nuovo, diverso, tutto era nuovo! Noi lo vediamo tutti i giorni: e siamo piatti, perché noi ci siamo abituati, diamo tutto per scontato. E questo chiede da parte nostra un lavoro, sostenuti da quelle persone che ci troviamo accanto, che facilitano questa educazione. Le scorse settimane abbiamo portato in università la mostra su don Giussani Dalla mia vita alla vostra. Mi sono accorta di due cose. La prima è che è stata un’immensa grazia per tutti a causa degli incontri che abbiamo fatto; spiegando la mostra, tutti hanno approfondito di più cosa era loro successo nella vita, e questo li rendeva molto più stupiti davanti alla realtà che avevano davanti. Questo invito a portare in giro la mostra trova il primo riscontro in noi: si trovavano più stupiti. Poi quel che il Signore farà con il nostro sì è affare Suo. La seconda cosa è che ho visto in atto ciò che ci diceva il Papa il 7 marzo rispetto al carisma e al decentrarsi: attraverso la spiegazione della vita di Giussani tutti i ragazzi hanno approfondito il loro primo amore, il loro incontro con Cristo. Ed era questo che portavano a tutti. Ciò che ci è accaduto è stato grande, tanto che tutti si sono chiesti: ma si può vivere sempre così? E abbiamo visto nei giorni successivi che, con quello sguardo di Risurrezione negli occhi, se uno è leale con un cuore veramente bisognoso, non può che tornare a cercarLo giorno e notte. L’esempio più eclatante di questo è stato un ragazzo che ha visitato la mostra e da quel giorno è stato sempre con noi, venuto anche all’assemblea che abbiamo fatto la scorsa settimana e ci ha scritto questo (è veramente di un’intelligenza incredibile): «Conclusa la Scuola di comunità, oggi avevo il desiderio profondo di poter guardare tutti negli occhi e abbracciarli. Sono rientrato a casa in treno pieno di gioia e volevo capire. Ma è stato qualcosa di talmente grande che la sola cosa che mi è venuta da fare è stato rimanere in silenzio, pieno di uno stupore vivo. Come vorrei che fosse per ogni cosa, per ogni incontro! Ma c’è di più. È stato un silenzio pieno, lo stesso silenzio che ho vissuto di fronte alla Sacra Sindone: quel Volto che avevo guardato e che più mi attirava a Sé, oggi L’ho incontrato di nuovo attraverso di voi. Io ho detto solo di sì. Oggi, mentre parlavate, mi sono commosso. Mi sono chiesto: perché mi sono commosso? E mi sono accorto che ho un cuore desideroso di verità che mi ha reso consapevole di ciò che stava accadendo. Voi raccontavate che Gesù ha usato di chi spiegava la mostra per ricordare che si può vivere così come ha vissuto Giussani. E io mio sono chiesto: chi è Gesù per me? Oggi, così come negli ultimi giorni, siete stati voi, amici veri, che inaspettatamente in modo misterioso mi consentite di ricordami per che cosa sono al mondo e per Chi vale la pena vivere. Oggi avete detto: “Si vive per amore di qualcosa che sta accadendo ora”. E io mi sono chiesto: ma chi sono stato per voi io? Io ho fatto una cosa normale, ho detto di sì, sono venuto a visitare una mostra, ma in questa normalità tu, io e gli altri abbiamo riconosciuto Lui vivo in noi. Io mi sono riscoperto attraverso di voi, e mi viene da dire: è bello vivere così, vivere con la consapevolezza della presenza di Gesù a farci compagnia. Voglio vivere sempre così». Mi ha colpito perché ho visto in lui ciò che tu ci dicevi di Pietro: non basta riconoscere il 5 fatto, ma serve quell’intelligenza positiva tutta pronta ad affermare la realtà e ciò che costituisce la realtà. Si vede che è entrata una presenza nello sguardo per il fatto che uno si trova addosso un desiderio che non aveva prima: il desiderio di poter guardare tutti negli occhi e abbracciarli, non come l’esito di un proprio progetto (ritornare a casa sobbalzando di gioia, in silenzio). E lì, ascoltando quelli che gli presentavano la mostra, ha dovuto riconoscere chi erano loro, cioè la presenza di Gesù, qualcosa che è entrato nella sua carne e ha cominciato a introdurre una novità nel suo limite, nelle circostanze di tutti i giorni. Questa è un’opportunità a portata di mano di chiunque la lasci entrare, qualsiasi siano le circostanze. Anch’io ti racconto degli incontri che abbiamo fatto in università durante la mostra su don Giussani, col cuore pieno di gratitudine. Il primo giorno, mentre montavamo i pannelli, arrivano due ragazzi che solitamente si ritrovano proprio in quel posto per fumare. Sorpresi di averci trovato lì, si avvicinano e iniziano a sbirciare; e noi: «Volete che ve la spieghiamo?». La mostra apre le porte e i primi sono loro due. All’inizio hanno le facce scettiche e ogni tanto scappa loro un sorrisino, ma piano piano le loro facce cambiano e raccontano di sé e delle loro domande. A un certo punto, uno ci guarda e ci dice: «Bellissimo! Non pensavo che fosse così, la gente non sa queste cose, dovete dirlo a tutti!». Poi guarda l’orologio e dice: «Ragazzi, ma è passata un’ora e mezza! Io dovevo andare a un pranzo con dei miei amici, il tempo è volato». Il pomeriggio, mentre ci riposavamo, lo rivedo dietro la siepe, e gli grido: «Cosa ci fai ancora qui?». Risponde che doveva andare a lezione ed era svogliatissimo. Gli dico: «Qual è l’aula dove devi andare?». È un’aula che sta dalla parte opposta dell’ateneo… Mi dice: «Lo so, ma volevo rivedervi. Lasciatemi i vostri numeri, anche se non so se vi chiamerò». Il giorno dopo ritorna e mi dice: «Mai avevo fatto una lezione così bella come quella di ieri». Il pomeriggio abbiamo stampato centocinquanta volantini e abbiamo invitato tutti i ragazzi che c’erano in università. Quando gli amici mi hanno chiesto il perché, ho risposto: «Perché ieri un ragazzo appena conosciuto ci ha detto di invitare tutti». Il terzo giorno è venuto un nostro professore (a nostra insaputa, non è del movimento) che aveva letto la nostra mail di invito. Durante la mostra si è commosso più volte. E senti cosa ci ha scritto il giorno dopo: «La ringrazio di cuore per l’invito, ma soprattutto per l’accoglienza e l’accompagnamento di oggi. Un dono speciale è avere accanto degli studenti come voi, con il sorriso e la dolcezza che portate nel cuore, trasparenti come l’aria e limpidi come l’acqua della sorgente. Questa è l’immagine che, con don Giussani, oggi ho portato a casa alla mia famiglia, alla quale ho narrato di oggi. La vostra testimonianza di fede in prima persona rappresenta uno stimolo ad andare avanti anche nei momenti difficili per tutti noi». Di fronte a questi fatti (e ad altri che adesso non ho tempo per raccontare), mi chiedevo che cosa c’è di diverso rispetto ai discepoli di Emmaus che, dopo essere stati con Lui, tornano a casa e dicono: «Ma non ci batteva forse il cuore mentre stavamo con Lui?». Duemila anni. Cristo è presente oggi e non è roba mia. Io di tutto questo non son capace con le mie mani e con tutta la buona volontà. Poi il giorno dopo vado a messa e c’era il Vangelo in cui Gesù dice a Simone: «Prendi il largo e calate le reti per la pesca» (che per me vuol dire tu e i miei amici che mi dicono: «Vai a fare la mostra. Ti do quest’occasione»). E Simone gli risponde: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso un solo pesce, ma sulla Tua parola getterò le reti». Qui c’è tutta la resistenza che io ho, ma, a un certo punto, uno cede, «e avendolo fatto presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano». Se guardo ai pesci presi davanti alla tentazione di inorgoglirmi per il buon lavoro fatto, abbasso la testa e dico: «Grazie Signore, perché io non ho fatto altro che seguire Te». Sto capendo sempre più che questo Tu con la maiuscola coincide con un volto umano. La realtà, la compagnia del movimento, i miei amici, le proposte che ci vengono fatte sono la carne di Gesù che mi viene a prendere per dirmi: «Amico, vieni qui, rispondiMi qui, ti faccio vedere Io chi sono». Ma la scoperta più grande di tutte per me non sono stati tanto i pesci presi, ma essermi riaccorto che il primo “gamberetto” a essere stato acciuffato misteriosamente e indegnamente sono stato proprio io. Infatti, mentre guardavo come tanti dei ragazzi incontrati cerchino una risposta alla loro vita, le 6 domande che hanno, le resistenze che non riescono a superare, mi è venuto in mente un episodio in cui don Giussani parlando di un uomo che aveva incontrato da poco, commenta: «Se vedo […] in che modo s’affanna, cerca la strada, c’è un rispetto che nasce proprio dalla certezza che si ha; ché uno che è certo se vede uno che è incerto, ne ha pietà senza fondo e dice: “Dio, che cosa ho fatto io per essere diverso da lui?”». Questa novità nel quotidiano delle circostanze banali di tutti i giorni è semplicemente quell’intensità del vivere che ha introdotto nella vita la Risurrezione. Il giudizio che emerge da questi fatti è che Cristo è presente perché introduce questa novità. La questione è se noi, quando non succede, ne abbiamo nostalgia e torniamo a Lui. Non perché vogliamo generarlo noi con il nostro tentativo, ma per lasciare entrare la Sua presenza nel mio io che sta soffocando nelle circostanze. In occasione della presentazione della mostra, in città c’era la possibilità di avere i pannelli qualche giorno prima; allora ho pensato di allestirla nella scuola dove insegno; si tratta di un istituto paritario, medie e liceo, con circa trecentocinquanta alunni. Pensavo di fare visite guidate solo alle mie classi durante le mie ore, anche perché la mostra sarebbe rimasta a scuola solo per due giorni, poi dovevo montarla altrove. Per ragioni logistiche la mostra era allestita nell’atrio dove ci sono le macchinette del caffè e dove i liceali fanno la ricreazione. Le circostanze hanno voluto che presentassi la mostra a una mia classe (una terza media) proprio durante la ricreazione degli alunni del liceo e nel momento dove molti colleghi erano fermi in coda alle macchinette. Ero già pronto a chiedere piuttosto bruscamente silenzio, ma a un certo punto, mentre parlavo, sono arrivato di fronte al pannello «Donna, non piangere!», e ripensando e avendo ben presente quel che prima il don Gius e poi tu ci avete sempre ripetuto, ho detto ai miei alunni: «Ragazzi, immaginatevi questo fatto, questa donna che segue la bara di suo figlio, questa donna disperata che ha perso suo marito e adesso ha perso anche suo figlio. Immaginatevi il dolore, immaginatevi l’angoscia di questa donna. Provate a immaginare queste lacrime che nessun uomo può asciugare. Si avvicina Gesù e le dice: “Donna, non piangere!”. Ma chi può fare una cosa di questo genere? C’è qualcuno in grado di dire una frase così? Chi può farlo?». Ho smesso di parlare e mi sono accorto che il brusio iniziale era sparito. Ho alzato lo sguardo e ho visto che i presenti nell’atrio – non li ho contati, ma erano molti perché c’era tutto il liceo che stava facendo la ricreazione e i miei colleghi che bevevano il caffè – erano in silenzio e guardavano il pannello; non guardavano me, guardavano il pannello, guardavano quella domanda. E sono arrivato alla fine della mostra con soggezione, per un silenzio molto più assordante del brusio iniziale. Dopo qualche ora alcuni ragazzi mi si avvicinano e mi dicono: «Prof, presenta la mostra anche a noi?». Così per due giorni praticamente ho presentato a raffica la mostra. Mi è capitato di farlo persino a un gruppo di miei colleghi, cosa impensata e imprevedibile. Adesso non so cosa accadrà, ma ciò che è accaduto è una risposta per me, è un fatto che ha percosso il mio cuore. Magari qualcuno poteva anche liquidare la faccenda, e probabilmente qualcuno l’ha fatto, come una cosa piccola. Del resto, alcuni avevano detto che gli apostoli erano ubriachi, quindi magari – io non ero ubriaco! –… Ma nulla toglie a quel che è accaduto. Alla fine un ragazzo – e questo mi ha colpito molto – mi si è avvicinato e mi ha detto: «Prof, ma perché nessuno ci dice queste cose?! Perché non ce le ha dette prima?». E io mi sono sentito un po’ piccolo, perché in fondo è un po’ così, soprattutto in questo periodo di esami la mia preoccupazione è quella di preparare i ragazzi, non è proclamare un Uomo che, adesso, nonostante tutto, nonostante tutti i problemi, dice: «Non piangere!». Quel che mi stupisce della semplicità di queste testimonianze è che il primo guadagno è per noi, cioè che l’invito che il Papa ci fa a uscire, a comunicare ciò che ci è capitato, è prima di tutto per noi; perché è diverso che uno veda succedere queste cose nel reale come occasione per sfidare qualsiasi momento piatto, qualsiasi difficoltà. La fede cresce, come ci siamo detti sempre, donandola, condividendola, perché a noi è stata data per condividerla in qualsiasi circostanza, in questo caso la mostra su don Giussani. Perché una volta che i nostri fratelli uomini lo incontrano, ci dicono: «Dovete dirlo a tutti!», «Prof, perché nessuno ci dice queste cose?!». Qual è il nostro contributo? Che cosa stanno aspettando da noi? Che cosa significa essere una presenza? Tutte 7 queste testimonianze ci mostrano veramente qual è l’attesa di tanti che abitano accanto a noi. Per questo, nel tentativo nostro di vivere quel che ci è capitato, di entrare sempre di più in quel che ci è stato donato, si capisce il metodo di Dio, come Dio raggiunge altri e li cambia. Come ci ha detto don Giussani, è solo se cresce costantemente la nostra fede che potrà diventare un bene anche per tutti gli altri. * * * Prima di concludere dico una parola sulla manifestazione del prossimo 20 giugno, di cui si è discusso in questi giorni. La difesa della famiglia è una urgenza fortemente avvertita in tutta la Chiesa: lo ha sottolineato il Papa ancora una volta domenica scorsa, all’Angelus e soprattutto al Convegno della Diocesi di Roma. Lo ha dichiarato il Pontificio Consiglio per la famiglia, oltre che numerosi vescovi, associazioni e movimenti ecclesiali. Anche la Segreteria della Conferenza Episcopale Italiana ha espresso ufficialmente una posizione, ribadendo l’urgenza di unità di tutti i cattolici sul tema della famiglia. Su questo c’è una condivisione totale di tutta la Chiesa. Tuttavia proprio la CEI ha chiarito che nessuno ha il monopolio della modalità con cui intervenire nel dibattito pubblico e politico. Per questo non ha ritenuto di impegnare la Chiesa italiana in un sostegno diretto alla manifestazione. Andare in piazza il 20 giugno è, dunque, solo una delle opzioni, libera e legittima, ma che può essere del tutto discutibile. Questo vuol dire che viene meno la convinzione che la famiglia vada difesa? Io ho nei miei occhi l’esperienza della Spagna, che può valere come un esempio. Noi spagnoli abbiamo fatto molte e molte più numerose manifestazioni per difendere la famiglia (non so se qualche altra nazione ne abbia fatte così tante), portando in piazza milioni di persone. Tutti sappiamo che questo non ha portato al successo che noi desideravamo, anzi, sappiamo come sono finite le cose: una legislazione molto più permissiva nella direzione dei “nuovi diritti”. Che cosa impariamo da questo? Che le manifestazioni in piazza, che sono una modalità legittima in una società democratica come la nostra, lasciano il tempo che trovano. E che è ancora più urgente riconoscere ciò che abbiamo ripetuto citando l’allora cardinale Ratzinger, che ha avuto il coraggio di dire certe cose di cui, secondo me, noi facciamo fatica a renderci conto: che siamo davanti al «crollo di antiche sicurezze», delle evidenze più elementari. Per questo nell’intervento sulle elezioni europee dell’anno scorso ho citato questo passo: «Nell’epoca dell’Illuminismo [...] nella contrapposizione delle confessioni e nella crisi incombente dell’immagine di Dio, si tentò di tenere i valori essenziali della morale [cioè la famiglia, la vita eccetera] fuori dalle contraddizioni e di cercare per loro un’evidenza che li rendesse indipendenti dalle molteplici divisioni e incertezze delle varie filosofie e confessioni. Così si vollero assicurare le basi della convivenza e, più in generale, le basi dell’umanità. A quell’epoca sembrò possibile, in quanto le grandi convinzioni di fondo create dal cristianesimo in gran parte resistevano e sembravano innegabili» (J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto e la crisi delle culture, LEV-Cantagalli, Roma-Siena 2005, p. 61). Qual è stato l’esito di questa “pretesa”? Ratzinger risponde senza mezze parole: «È fallita» (Ibidem, p. 62). Possiamo dispiacerci di questo, ma è un dato. Per questo il primo realismo è constatare che le cose stanno così, e quindi che noi siamo chiamati a vivere queste sfide, come quella giustissima a riguardo della famiglia, in un contesto totalmente nuovo. E questo nuovo contesto è una sfida, prima che per gli altri, per noi: che cosa consente – a noi! – di resistere in un mondo in cui tutto, tutto, dice l’opposto? Come faranno le nostre famiglie a non essere allo sbando, nella loro consistenza, nell’educazione dei figli, nel rapporto tra marito e moglie? Crediamo ancora che il metodo di Dio è in grado di sostenere questo o no? Ora, ciò che abbiamo affidato a un avviso interno inviato alle comunità – che non è un comunicatostampa, un documento o un volantino, come hanno scritto taluni in questi giorni − e che volutamente non abbiamo messo sul sito di CL, era solo per un aiuto a un giudizio. Non è che ci siamo dimenticati di firmarlo – non abbiamo alcun problema a firmarlo, così come non ho alcun problema a parlarvi di queste cose apertamente –, non l’abbiamo voluto firmare di proposito; e ora 8 spiego perché. Le preoccupazioni contenute nell’avviso sono state fatte presenti fin dalla prima riunione del 27 marzo scorso promossa dal Cammino Neocatecumenale, alla quale siamo stati invitati insieme a tutto l’associazionismo cattolico. In quella riunione proprio le manifestazioni spagnole, di cui vi ho detto, erano state portate a esempio di una grande mobilitazione cattolica. In quella occasione e nella successiva riunione, nella quale è stata annunciata come già decisa la data della manifestazione (malgrado nella precedente non si fosse arrivati a un accordo), abbiamo spiegato perché non ritenevamo opportuno, proprio per affermare il valore della famiglia, la modalità proposta di una manifestazione di piazza. Discutendo su quali strumenti fossero più adeguati per affrontare il tema della difesa della famiglia, non si è arrivati a una ipotesi chiara e condivisa. Insieme a noi gran parte dell’associazionismo cattolico italiano (Azione Cattolica, Rinnovamento dello Spirito, Comunità di Sant’Egidio, Focolarini, membri dell’Opus Dei) e il Forum delle Associazioni familiari non hanno ritenuto opportuno aderire. E così quella che era stata pensata come una iniziativa dei cattolici è diventata una manifestazione “aconfessionale”, senza sigle e bandiere, cui hanno aderito il Cammino Neocatecumenale e altre sigle come Alleanza Cattolica, Manif pour Tous, Pro Vita. A questo punto, ci siamo sentiti liberi, e per questo abbiamo ritenuto fuori luogo prendere come movimento una posizione pubblica a riguardo della manifestazione. Ma poiché nelle ultime settimane tanti amici chiedevano un aiuto per un giudizio sull’iniziativa, abbiamo preparato l’avviso. La non-adesione non è stata dettata da tatticismo politico, ma da un criterio di realismo e prudenza, perché la storia recente dimostra che ogni volta che per difendere un valore si punta alla piazza, l’esito non è una possibilità di incidenza positiva, ma un muro; non si arresta né si rallenta un processo, ma lo si accelera. D’altra parte, già nel 2007, in occasione della proposta di una manifestazione dei cattolici contro il disegno di legge sul riconoscimento delle coppie di fatto eterosessuali e omosessuali (i famosi DICO: «Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi»), avevamo espresso giudizi analoghi, convinti che nel clima culturale in cui viviamo è difficile che le contrapposizioni portino a risultati costruttivi e convincenti, perché viviamo in una società in cui l’ideologia prevale sull’esperienza. In questo senso, sottolineavamo che la tendenza all’ideologizzazione si combatte attraverso la testimonianza di un’esperienza in cui si possa constatare che la famiglia è un “di più” di umanità. E questo non significa allora chiudersi nelle sacrestie, perché questo “di più” si dà nella vita! La testimonianza nella vita quotidiana è altrettanto pubblica come la manifestazione di piazza, non è che l’una sia privata e l’altra pubblica. Altrimenti, facilmente ci si disperde e, soprattutto, si tralascia l’aspetto più rilevante, che è quello educativo. Ma nel 2007 la CEI chiese esplicitamente a noi e a tutti gli altri movimenti e associazioni di sostenere la manifestazione; e noi obbedimmo. Ora, evidentemente, il contesto differente ha suggerito ai Vescovi una scelta diversa. E noi continuiamo a seguire. Questo non impedisce che – come hanno detto anche i Vescovi – chiunque voglia andare, vada. Da dove ripartire in questo contesto? Ci siamo appellati tante volte in questi ultimi tempi ai cristiani perseguitati. Quando crolla tutto, da dove ripartono loro? A che cosa si appellano, se non a quel che abbiamo detto questa sera, alla testimonianza della novità di vita che Cristo risorto ha introdotto nella vita? In una situazione come questa, il metodo non è altro che mostrare un di più di umanità nella testimonianza della vita quotidiana. Ma a noi questo tante volte sembra troppo poco, e per questo ci stupisce il metodo di Dio che quando ha deciso di diventare uomo spogliò Se stesso vivendo come uno dei tanti (nessuno avrebbe fatto così, nessuno di noi avrebbe fatto così!) e scommettendo tutto sull’attrattiva che provocava la Sua persona davanti a tutti. E questo noi lo sappiamo perché don Giussani ci ha comunicato il cristianesimo così. Ciò che mi stupisce è che noi facciamo tanta fatica a capirlo. Resta per noi decisivo il dovere della testimonianza dentro le circostanze quotidiane, anche con gli strumenti della propria professione. Il nostro contributo al dibattito consiste nel comunicare una positività ultima in ogni situazione e rapporto; e questo è un compito che ciascuno può – e dovrebbe − vivere nel dialogo con chiunque. Perché è qui il problema: quando le famiglie vengono meno, quando le persone non sono in grado di stare in piedi davanti alla realtà, c’è qualche cosa che vedono aprire una possibilità per loro? Perché le nazioni erano piene di leggi buone, ma questo non 9 ha fermato la valanga che stiamo vivendo adesso. È parte di questa testimonianza anche la difesa di uno spazio di libertà per ciascuno e per tutti, come abbiamo detto in occasione delle elezioni europee. E come abbiamo scritto dopo i fatti parigini, «spazio di libertà vuol dire spazio per dirsi, ognuno o insieme, davanti a tutti. Ciascuno metta a disposizione di tutti la sua visione e il suo modo di vivere. Questa condivisione ci farà incontrare a partire dall’esperienza reale di ciascuno e non da stereotipi ideologici che rendono impossibile il dialogo» (J. Carrón, «La sfida del vero dialogo dopo gli attentati di Parigi», Corriere della Sera, 13 febbraio 2015, p. 27). Chiediamo la stessa libertà di vivere e di educare che gli altri chiedono per sé. Un amico mi ha scritto comunicandomi una preoccupazione che tanti genitori sentono: «Alla fine rimane di difficile risposta la preoccupazione più grande: come proteggere i miei figli? È indubbia la necessità di testimoniare loro la “vita” e di vigilare su quanto viene proposto a scuola o in altri contesti, ma spesso mi chiedo se è sufficiente. Come padre vorrei sempre proteggerli e isolarli dal male del mondo, con la tentazione di combattere al posto loro. In questo contesto mi sembra, però, che possano essere sopraffatti dalla forza di una ideologia veramente devastante, e a volte mi viene il dubbio se non sia ormai inevitabile contrastare l’invasione. So bene che la storia ci insegna che a contrastare le invasioni barbariche non fu quel che restava dell’esercito romano, ma la “vita” dei monaci; però durante quelle invasioni molti furono i caduti e la mia preoccupazione di padre è che i “caduti” possano essere i miei figli». Per questo mi sembra utile per noi vedere come i nostri amici cristiani perseguitati educano i figli, per affrontare le sfide del vivere. Guardiamo questo video. Proiezione del video dell’intervista a Myriam, profuga irachena a Qaraqoush. - «Durante la nostra visita a questo campo, ci siamo sorpresi di trovare questa ragazzina che ci ha detto che guardava la nostra trasmissione “Laysh Hayak”. Si chiama Myriam. Come stai Myriam?» - «Bene e tu?» - «Molto bene» - «Veramente guardi la nostra trasmissione?» - «Sì» - «Ti piace SAT-7 Kids?» - «Sì» - «Di dove sei? Sei anche tu di Qaraqoush?» - «Sì, sono di Qaraqoush» - «Hai dieci anni, vero?» - «Sì» - «Da quanto tempo sei in questo campo?» - «Da quattro mesi» - «Qual è la cosa che ti manca di più di Qaraqoush che non hai qui?» - «Avevamo una casa dove ci trovavamo a giocare e qui non c’è, ma grazie a Dio, Dio si preoccupa per noi» - «Cosa intendi con “Dio si preoccupa per noi?”» - «Che Dio ci ama e non ha permesso che l’ISIS ci uccidesse» - «Tu sai quanto Dio ti ama, vero?» - «Sì, Dio ci ama tutti, non solo me, Dio ama tutti» - «Credi che Dio ami anche coloro che ti hanno fatto del male o no?» - «Lui li ama, ma non ama Satana» - «Cosa senti nei confronti di quelli che ti hanno obbligato a lasciare la tua casa, e ti hanno causato disagi?» - «Non voglio far loro niente, chiedo solo a Dio di perdonarli» - «E anche tu puoi perdonarli?» - «Sì» - «Ma è molto difficile perdonare chi ti ha fatto soffrire, Myriam, o è facile?» 10 - «Io non voglio ucciderli. Perché ucciderli? Sono solo triste che ci hanno cacciato dalle nostre case, perché lo hanno fatto?» - «Ti piaceva la tua scuola a Qaraqoush, vero?» - «Sì, ero la prima della classe» - «Avevi anche degli amici a scuola?» - «Sì» - «Sono qui con te o non c’è nessuno?» - «Ci sono, ma non so dove sono» - «Magari qualcuno di loro sta guardando SAT-7 Kids in televisione adesso. Cosa vorresti dire loro?» - «Avevo un’amica prima di venire qui. Si chiama Sandra, stavamo insieme tutto il giorno, tutto il giorno a scuola stavamo insieme anche se non abitavamo vicine, ci volevamo bene. Se una faceva un torto all’altra, ci perdonavamo. A volte giocando ci facevamo del male, ma sempre ci perdonavamo. Ci volevamo bene, adesso mi piacerebbe solo rivederla» - «Non sai dov’è adesso, vero?» - «No, non so dov’è» - «Se Sandra ci sta guardando, sono sicuro che penserà a te e sono sicuro che ti vuole bene, Myriam» - «Mi vuole molto bene e io voglio molto bene a lei. E spero di rivederla un giorno» - «Certamente mi piacerebbe essere con te il giorno che la incontrerai» - «Spero» - «Cosa speri?» - «Spero di tornare a casa e che anche lei torni a casa così ci possiamo rivedere» - «Spero che tornerai in una casa ancora più bella della tua prima casa» - «Se Dio vuole. Non quello che vogliamo noi, ma quello che vuole Dio, perché Lui sa» - «Non sei triste qualche volta? Non ti sembra, per esempio, che Gesù ti abbia dimenticato?» - «No, certe volte piango perché abbiamo lasciato la nostra casa e Qaraqoush, ma non sono arrabbiata con Dio perché abbiamo lasciato Qaraqoush. Lo ringrazio perché Lui si occupa di noi. Anche se qui stiamo soffrendo, Lui ci dà quello di cui abbiamo bisogno» - «Tu mi hai insegnato molte cose, sì» - «Grazie, anche tu mi hai insegnato molte cose» - «Cosa ti ho insegnato?» - «Mi hai insegnato… No, non insegnato, voglio dire che hai condiviso quello che sento io. Tu hai condiviso con me… in un certo modo volevo che le persone sapessero come mi sento, come si sentono i bambini qui» - «Sai che Gesù non ti abbandona mai?» - «Lui non mi dimentica mai. Se ci credi davvero, Lui non ti abbandona mai» - «Ti ricordi qualche canzone che ti piace cantare quando sei da sola? Per parlare a Gesù? O non te ne ricordi?» - «So delle canzoni» - «Mi canteresti, canteresti per noi, la tua canzone preferita? Anche una canzone corta che puoi cantarci, che ne dici?» - «Ce n’è una: “Che gioia il giorno in cui ho creduto in Cristo. La mia gioia era completa all’alba e la mia voce cantava di gratitudine il mio amore per il mio glorioso Salvatore. Crescerà di giorno in giorno. Una nuova vita, un giorno felice quando mi riunirò con il mio Amato. Per amore, è venuto, oh che meraviglioso amore! Mi ha fatto giustizia in nome di un’alleanza santa. Il mio amore per il mio glorioso Salvatore crescerà di giorno in giorno. Una nuova vita, un giorno felice, quando mi riunirò con il mio Amato”». Tante volte noi siamo preoccupati o spaventati per i figli, per il contesto in cui vivono, per la violenza ideologica veramente imponente che li assale. Ma qui c’è di più, come avete visto: 11 Myriam, dieci anni, vive in un contesto dove la violenza – ideologica e fisica − ha strappato via tutto. Ma tutto il male del mondo non riesce a bloccare un ragazzina come lei. Per questo rappresenta una bella sfida educativa per noi: possiamo tirare grandi figli che, in questo contesto, possano vivere davanti alle sfide che dovranno affrontare? Di che cosa hanno bisogno per vivere come Myriam? Che testimonianza offrono i cristiani perseguitati a noi cristiani occidentali? Di che cosa abbiamo bisogno per tirare su dei figli capaci di vivere come lei? Questa è una grande sfida. Questa è la grande sfida educativa; qualunque sia la possibilità che abbiamo di bloccare altro, la radice ultima della sfida è questa: se la fede, qualsiasi sia il contesto in cui ci troviamo a viverla, è in grado di resistere. Per questo, come abbiamo detto agli Esercizi, «è nel mistero della Risurrezione il culmine e il colmo dell’intensità della nostra autocoscienza cristiana». Noi abbiamo bisogno che questo diventi sempre di più carne della nostra carne per poterlo comunicare ai nostri giovani. Il lavoro di Scuola di comunità continua fino a fine giugno sull’Introduzione degli Esercizi della Fraternità compreso l’inizio dell’assemblea, perché la prima domanda e risposta si riferiscono proprio all’introduzione. Insieme agli Esercizi riprendiamo anche il primo capitolo della seconda parte del testo della Scuola di comunità, Perché la Chiesa, da pagina 81 a pagina 89. Nei mesi da luglio a settembre riprenderemo la lezione degli Esercizi del sabato mattina insieme alle domande e risposte dell’assemblea relative a questa lezione, da pagina 91 a pagina 100 e 104- 105. In questa lezione, come sappiamo, affrontiamo il tema di una difficoltà di intelligenza causata da una situazione non evoluta del senso religioso che abbiamo definito, con un’espressione di Benedetto XVI, uno «strano oscuramento del pensiero» (Benedetto XVI, Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald, LEV, Città del Vaticano 2010, p. 47); per cui, come vediamo, non riconosciamo già più neanche le cose più elementari del vivere. Allora la domanda su cui vi invito a lavorare è: che cosa ci aiuta a uscire da questo strano oscuramento? Dove ti sei sorpreso a uscire da questo oscuramento e che cosa ti ha reso possibile riconoscere la realtà, l’evidenza elementare delle cose? Perché questo documenta che la Risurrezione è veramente un fatto che invade la vita e che ci consente di guardare tutto, così come la Chiesa guarda tutto la notte di Pasqua. Questo è il giudizio. La Risurrezione è un giudizio, perché? Perché nessuno si potrebbe sognare di guardare tutto − dalla domanda sul perché vale la pena essere nato alla colpa, al male, alla difficoltà − senza la risurrezione di Cristo. Abbiamo davanti questi mesi per aiutarci a capire veramente il contesto in cui siamo chiamati a vivere la fede. Intervista su Repubblica. In merito all’intervista che ho rilasciato al giornale la Repubblica sulle inchieste di Roma, siccome noi non disponiamo di grandi strumenti di comunicazione, sui quali invece siamo continuamente tirati in ballo a sproposito, chiedo a ciascuno di voi di impegnarsi veramente nel far conoscere il più possibile il contenuto dell’intervista agli amici e conoscenti nei luoghi in cui vivete. Vacanze estive. Le vacanze comunitarie avranno come tema: «Quando abbiamo sorpreso e riconosciuto nella nostra esperienza una presenza nello sguardo?». Non facciamo riflessioni astratte su che cosa è la presenza, ma verifichiamo quando l’abbiamo riconosciuto, quando ci siamo resi conto che soltanto quella presenza nello sguardo ci consente di guardare tutto in un modo nuovo, il rapporto tra me e me, tra me e mia moglie, tra me e le cose e le persone. Durante l’estate e le vacanze suggeriamo di proporre pubblicamente nei luoghi di villeggiatura la mostra su don Giussani Dalla mia vita alla vostra e il video di don Giussani Il pensiero, i discorsi, la fede. Proponiamo inoltre di fare un dialogo insieme sul testo del Bardy (La conversione al cristianesimo nei primi secoli), per una verifica di cosa la lettura di questo testo ha provocato e che giudizio e domande ne sono nate; è un’occasione per riproporlo e per condividere gli uni gli altri quello che ciascuno ha potuto guadagnare da questo testo. L’abbiamo proposto proprio perché siamo chiamati a vivere la fede in un contesto simile a quello che descrive il Bardy nei primi secoli. 12 Ricordiamo l’importanza della partecipazione al Meeting di Rimini (20-26 agosto 2015), andando tutti almeno un giorno. Libri per l’estate. Un’attrattiva che muove. La proposta inesauribile della vita di don Giussani, a cura di A. Savorana, con la raccolta di presentazioni del libro della vita di don Giussani. Tutta la gloria nel profondo. Il mondo, la carne e padre Smith, di Bruce Marshall. Vive come l’erba… Storie di donne nel totalitarismo, di Bonaguro, Dell’Asta e Parravicini. La mia porta è sempre aperta. Una conversazione con Antonio Spadaro, intervista di A. Spadaro a papa Francesco. È stato realizzato, In cammino, il dvd dell’Udienza del 7 marzo 2015 con papa Francesco. Lo proponiamo come occasione per prendere ancora più consapevolezza dell’incontro fatto e di quanto ci ha proposto. La Giornata d’inizio anno si terrà sabato 26 settembre 2015 a Milano e in collegamento in molte città della Lombardia e dell’Italia. Veni Sancte Spiritus Buona estate a tutti!
I migranti, risorsa da premiare
Si parla molto di migranti in questi mesi, dalle cronache che ne raccontano il flusso continuo verso l’Italia e l’Europa, alle riflessioni sul fenomeno in atto, che spaziano dai rozzi pregiudizi di alcuni, pronti a considerare reato ogni arrivo di clandestino, al ventaglio di proposte per l’accoglienza e l’integrazione a medio e lungo termine, talvolta purtroppo solo teoriche, fino alla rincorsa a soluzioni tampone, che spesso restano le uniche a tempo indeterminato. Diventa perciò importante riflettere sulle dinamiche che il processo migratorio implica, da quella della provenienza dei migranti, e dunque delle cause che spingono intere masse umane ad abbandonare la propria terra, i propri affetti e le proprie per quanto povere certezze per andare verso un futuro in buona parte ignoto, a quella della destinazione, che aiuti a capire quali sono le mete perseguite da chi accetta il rischio dell’immigrazione clandestina, a quella delle possibilità d’inserimento e d’integrazione effettiva nei luoghi di arrivo.
I migranti verso l’Italia provengono oggi per la quasi totalità dall’Africa e dal Medio Oriente. Le ragioni che motivano la decisione - tutt’altro che facile - di emigrare, da una parte sono legate ai processi di disgregazione di ampi gruppi sociali e di interi Stati, come nel caso della Somalia, dell’Iraq, della Libia e dello Yemen, dall’altra sono spesso dovute a situazioni di guerra, ispirata a motivazioni etniche e religiose, o a crisi economiche pesanti e durature, come ad esempio in Nigeria, nel Mali, in Eritrea ed in Etiopia. La gravità dei fattori che entrano in gioco nello spingere uomini e donne di ogni età a rischiare tutto, pur di fuggire da simili contesti, rende difficile applicare in concreto la distinzione cui spesso si ricorre fra “rifugiato” e migrante “per ragioni economiche”. Appellarsi a questa differenza come a un criterio decisivo in ordine alle possibili espulsioni e ai rimpatri, rischia di esporre chi dovrà decidere a gravi ingiustizie e a discriminazioni insostenibili dal punto di vista morale. Un intervento preventivo nei Paesi di provenienza appare certamente più corretto, anche se per essere onesto ed efficace implicherebbe componenti politiche ed economiche di vasta portata e dai costi certamente elevati. Soprattutto, di una simile azione, che valica confini e responsabilità nazionali, dovrebbero farsi carico entità sovranazionali, quali le Nazioni Unite e la stessa Europa, la cui divisione e latitanza in materia appare sempre più grave.
Circa poi la destinazione reale dei flussi migratori non è difficile riconoscere che per tantissimi essa non è il Paese di prima accoglienza: molti dei migranti, in particolare quelli provenienti dal Medio Oriente, hanno parenti già inseriti in diverse società del Nord Europa o dell’America, tanto del Nord, quanto del Sud. È verosimile, dunque, che essi guardino all’Italia soltanto come a un Paese di transito, senza intenzione di stabilirvisi. La dimostrazione pratica di quest’asserto sta nel fatto che tanti di quelli che arrivano più o meno fortunosamente nel nostro Paese rifiutano di adempiere atti burocratici che li legherebbero allo Stato coinvolto nella prima accoglienza. Anche qui c’è nella legislazione europea un insieme di carenze che andrebbero colmate e di disposizioni che andrebbero modificate. L’impressione che l’Europa unita sta dando al mondo è quella di una sconcertante (e per vari aspetti perfino vergognosa) disunità, per cui ciascuno dei Paesi membro appare più preoccupato di “difendersi” dai migranti che di affrontare il fenomeno migrazioni in maniera organica e capace di tutelare e promuovere la dignità delle persone in gioco.
C’è, infine, da considerare l’effettiva possibilità di accoglienza e d’integrazione degli immigrati: una semplice considerazione economica, fatta anche da numerosi imprenditori, è che senza l’apporto del lavoro che gli immigrati svolgono, non una singola azienda, ma l’azienda Italia nel suo insieme avrebbe conosciuto enormi difficoltà e rischierebbe autentici crolli di produttività. Per dirla in altre parole, l’immigrato non è un peso o un pericolo, come viene definito da alcune delle più rozze fra le voci che gridano sulla scena politica, è spesso al contrario un’autentica risorsa, che andrebbe accolta con rispetto per la dignità delle persone e valorizzata per le capacità di contribuire alla crescita di tutti. La cecità di fronte al fenomeno migratorio tocca a volte vertici che, se non fossero drammatici, rasenterebbero il ridicolo: per limitarsi a un solo esempio, che è di estrema gravità, si potrebbe citare il caso del rifiuto della registrazione della dichiarazione di nascita in Italia dei figli di migranti privi di permesso di soggiorno! Su questo fatto c’è stato a lungo un assordante silenzio (con poche eccezioni, come ad esempio la raccomandazione proposta nel congresso del 2014 dalla Società Italiana di Medicina delle Migrazioni). Eppure, da diversi anni, nei rapporti firmati anche dalla Caritas Nazionale, il gruppo Convention on the Rights of the Child (CRC) segnala questo problema e ne raccomanda una soluzione a livello istituzionale. È vero che al presente la registrazione della dichiarazione di nascita è possibile a norma di una circolare del Ministero dell’Interno (n. 19 del 7 Agosto 2009), di cui lo stesso gruppo a favore dei diritti dei bambini segnala però l’inadeguata diffusione. In Parlamento esistono proposte di legge che, se approvate, potrebbero risolvere la questione e che, però, pur affidate alle commissioni competenti, non vengono messe a calendario. Si può tollerare che l’esistenza giuridica di nuovi nati sia affidata a una circolare che, così come è stata emessa, potrebbe venir cancellata senza neppur informarne il Parlamento e che, comunque, crea dubbi negli uffici anagrafe? La domanda di chi si batte per una soluzione piena e dignitosa del problema diventa: perché impedire per legge a due genitori (o almeno a chi di loro riconosca quel bambino) di dire “questo è mio figlio”, che ha diritti uguali a ogni altro nato in questo Paese che si dice democratico? Anche su punti come questo la sfida delle migrazioni ci interpella tutti sulla pienezza e autenticità del nostro essere e volerci umani e sulle esigenze morali che nessuna coscienza retta dovrebbe ignorare.
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Fonte: Il Sole 24 Ore, domenica 28 giugno 2015,
Carolina muore a nove anni dopo una lunga agonia. E la vita è bella ?
Domenica 31 maggio, festa della Santissima Trinità, il Signore mi ha messo duramente alla prova. Carolina, dopo una lunga agonia, è morta a nove anni. La mamma l’aveva abbandonata con il papà appena nata e nella vita ha vissuto solamente dolore. Vederla nel letto, piena di sonde, mi suscitava una grande tenerezza: «Signore, perché lei e non me?».
Un’ora dopo la morte il suo letto era già occupato da un altro bambino ammalato di leucemia e di Aids, una malattia trasmessa dal papà che insieme ad alcuni pervertiti avevano abusato di lui sessualmente.
Al termine della giornata, prima di coricarmi, leggo uno scritto che dice: la vita è bella. Provo rabbia: come si può dire che la vita è bella quando hai ancora negli occhi la morte, la sofferenza? La vita è dura, terribilmente dura, per questo quasi nessuno va a trovare i malati terminali.
Anche Violeta Parra che, in un momento di euforia cantava «grazie alla vita che mi ha dato tanto», alla fine si è trovata a cantare «cuore maledetto perché palpiti, cuore maledetto perché vibri?», e rendendosi conto che la vita non è la risposta si è suicidata.
Mio fratello ha perso le sue figlie: una di 28 anni, morta di tumore, e l’altra, di 26, in un incidente stradale. Sono morte nello stesso anno: una in agosto e l’altra alla vigilia di Natale. Sono passati dieci anni e la vita continua insopportabile, piena di un dolore senza risposta. In nessuno dei due funerali mi è stata data la possibilità di presiedere la Messa. La mia sola presenza scatenava nei genitori la rabbia con Dio che aveva tolto loro le uniche due figlie. E la vita è bella?
Se la vita fosse bella in sé, sarebbe difficile spiegare il numero di disperati che riempie il mondo. Dopo il peccato originale la vita ha perso la sua bellezza: per questo il Verbo si è fatto Carne, e soltanto da quel momento, in cui la Madonna ha detto sì, la realtà è tornata a fiorire riempiendosi di positività. Il bello è incontrare Cristo: solo di conseguenza possiamo affermare che anche la vita è bella. La stessa malattia, se non fosse sostenuta da Cristo, sarebbe una tragedia, per questo non mi sorprende che esista una corrente di pensiero che sostiene l’eutanasia. La vita non trova una ragione in sé: viceversa, non capiremmo i martiri.
Spesso incontro persone fisicamente distrutte, ma appassionate alla vita, e all’origine di questa posizione c’è sempre una grande relazione personale con Cristo. Don José è da due anni nel letto, immobile, cieco e con le gambe piene di piaghe. A chi gli chiede come sta, risponde «molto bene». Come “molto bene”? Il suo corpo sembra un pezzo di marmo ma José ripete: «Io sto molto bene. Qui non mi manca nulla: ho da mangiare, ho molti amici, ma la cosa più importante è che ho Gesù e, grazie all’incontro con Lui, la mia vita è diventata bella». E a chi insiste chiedendogli se sarebbe felice di essere curato da Gesù, risponde: «Certamente, ma a condizione di non tornare alla mia vita disordinata di prima».
È solo l’incontro con Cristo che permette a Don José di affermare che la vita è bella. Anche io, verificando l’avanzamento della mia malattia, seguo offrendo tutto a Gesù e, in questa offerta, scopro che è bello vivere.
Cristo non può aspettare
In questi ultimi mesi ho un nuovo paziente al giorno. Non fa in tempo a liberarsi un letto che suona il mio telefono: è un missionario polacco, chiede «per piacere ha un letto libero per una ragazza di 17 anni, con un cancro al cervello? I medici la definiscono terminale, perché non c’è nulla da fare, e l’hanno dimessa dall’ospedale senza nemmeno verificare se ha una capanna dove vivere». Grazie al Signore, di solito c’è sempre un missionario che si occupa dei poveri e che quando c’è necessità si mette in contatto con noi.
In questi ultimi mesi ho un nuovo paziente al giorno. Non fa in tempo a liberarsi un letto che suona il mio telefono: è un missionario polacco, chiede «per piacere ha un letto libero per una ragazza di 17 anni, con un cancro al cervello? I medici la definiscono terminale, perché non c’è nulla da fare, e l’hanno dimessa dall’ospedale senza nemmeno verificare se ha una capanna dove vivere». Grazie al Signore, di solito c’è sempre un missionario che si occupa dei poveri e che quando c’è necessità si mette in contatto con noi.
Da dove arriva questa rapidità nell’abbracciare le persone che soffrono? San Paolo affermava: «Caritas Christi urget nos!» (l’amore di Cristo ci sprona). È bello vedere tutti i giorni che questa gente umile finisce sempre nelle nostre braccia, non importa l’ora. Cristo non può aspettare.
Spesso mi chiedo perché non seguiamo la testimonianza del Santo Padre, la sua passione per Cristo e per i poveri. Un giornalista del Vaticano raccontò un fatto: alcuni giovani drogati, non avendo un posto dove dormire, si avvicinarono ad una chiesa cattolica per ripararsi ma furono cacciati. Conobbero poi dei marocchini che li accolsero nella loro casa e nel tempo questi giovani si aggregarono all’Isis.
paldo.trento@gmail.com
Il mendicante, la sofferenza e la ricerca dell’infinito.
«Il dolore accresce la percezione dell’insufficienza dei godimenti temporanei. Spinge a desiderare qualcosa che oltrepassi l’abituale, a cogliere fino in fondo ciò che viviamo»
«Noi non viviamo, ma speriamo di vivere, e quando le alte maree della disperazione ci lambiscono, o ci sommergono, quando la nostalgia, e ancora di più il rimpianto, ci tolgono il futuro, come salvare qualche goccia, qualche scintilla di speranza che ci consenta di vivere nonostante tutto: sia pure nell’angoscia, e nell’incertezza, nella inquietudine del cuore, e nella nostalgia di un passato che non c’è più? Come conciliare il tempo della nostalgia, e del rimpianto, ancorato al passato, con il tempo della speranza, rivolto al futuro, all’avvenire, e come sfuggire al fascino stregato del suicidio?». Un libro che pone domande del genere è, come si diceva una volta, roba da far tremare le vene ai polsi. Ma Il tempo e la vita, ultima fatica saggistica di Eugenio Borgna, è anche un meditato percorso che mostra la possibilità di una risposta luminosa. Dopo 53 anni trascorsi a farsi carico del dolore dell’anima di innumerevoli schiere di pazienti, lo psichiatra piemontese ha sviluppato una sensibilità per i significati esistenziali della sofferenza psichica che ne fa un impareggiabile interlocutore per quanti desiderano andare alle radici del disagio contemporaneo. Tutti i suoi libri sono frecce che indicano le strade per la salvezza, giammai istruzioni di pronto soccorso psicologico.
Il libro parla molto del dolore, soprattutto quello dell’anima. Si cita Simone Weil: «Il dolore ci inchioda al tempo. Ma l’accettazione del dolore ci trasporta al termine del tempo, nell’eternità». Oggi viviamo in un’epoca che non accetta il dolore: quando non riesce a eliminarlo coi farmaci, elimina il malato suggerendogli l’eutanasia. Lei pensa che oggi sia possibile dire persuasivamente alle persone che anche una vita segnata dal dolore è degna di essere vissuta?
Sì. Le esperienze che ho fatto coi malati, e che hanno segnato la mia vita, mi hanno permesso di cogliere il dolore nelle sue radici di senso. Soprattutto le esperienze che ho potuto fare nei lunghi anni che ho vissuto in manicomio accanto alle persone più deboli e più fragili, incrinate dalla sofferenza, mi hanno dimostrato che laddove c’è un’esperienza del dolore, cresce immediatamente la percezione dell’insufficienza
dei godimenti esterni, effimeri, temporanei, e cresce il desiderio di qualcosa che
oltrepassi il contingente, l’abituale e ci porti verso l’infinito, alla ricerca di Dio.
In quell’esperienza parole apparentemente astratte come “significato del dolore”, “accoglienza del dolore”, “conoscenza attraverso il dolore”, sono diventate realtà. Sono realtà oggi calpestate e combattute dalla società che si riconosce negli idoli della comunicazione televisiva e digitale, ma sta di fatto che la realizzazione più profonda di una vita che non sia chiusa dentro ai muri dell’egoità, per non dire dell’egoismo, si può ottenere soltanto se partiamo dalla coscienza che noi siamo anche ciò che diamo agli altri, che realizziamo fino in fondo le nostre aspirazioni solo quando siamo in relazione con gli altri. La mancanza che cogliamo in noi non può essere colmata se non in un amore che ci porti a trascendere i confini del nostro io e alla ricerca della voce di Dio, l’unica àncora possibile a cui legare la nostra vita.
Nel libro lei scrive che la malattia psichica è «un cammino di inaudita sofferenza umana» che ha bisogno di «parole e gesti che siano capaci di lenire almeno per un attimo la solitudine e la disperazione dell’anima». Quanto di quello che noi diciamo e facciamo arriva al malato psichico? C’è una regola generale che dica cosa dobbiamo evitare? E che cosa riceveremo noi, nel nostro relazionarci a questi sofferenti?
Schopenhauer ha scritto che ogni dialogo umano è sigillato dal mistero: c’è un livello di comunicazione che non è razionalmente scandagliabile, che è puramente intuitivo. Quando un malato mi si avvicina, sono còlto da insicurezza e ansia, perché non ci sono regole fisse che permettano di sapere quali sono le parole e i gesti giusti, che non gli procureranno sofferenza inutile. Il malato psichico è estremamente sensibile, coglie ogni sfumatura, ogni gesto o parola superficiali lo feriscono. L’unica regola per non compromettere tutto sin dall’inizio è quella di saper guardare dentro agli occhi e ai gesti fisici di una persona. Anche la diagnosi comincia osservando i gesti e la postura della persona. Se i nostri saranno occhi bagnati di lacrime, occhi che ci permettono di immedesimarci nella vita interiore del malato, nel suo dolore, di vedere l’anima ferita in fondo ai suoi occhi, allora riusciremo a essere di aiuto. E poi l’accoglienza, la disponibilità a mettere fra parentesi il tempo dell’orologio per dedicarci veramente al malato. Queste cose sono alla portata di chiunque abbia a che fare con persone in condizioni di disagio psichico, non solo degli psichiatri. Ho conosciuto delle infermiere così intuitive ed emotivamente mature da saper realizzare nel rapporto coi malati le parole del comandamento: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Troppo spesso la psichiatria tradizionale non tiene conto della vita intima dei pazienti, si limita ai comportamenti esteriori. Le cure farmacologiche sono indispensabili, ma sono strumenti che vanno inseriti nel contesto del rapporto personale col malato.
Schopenhauer ha scritto che ogni dialogo umano è sigillato dal mistero: c’è un livello di comunicazione che non è razionalmente scandagliabile, che è puramente intuitivo. Quando un malato mi si avvicina, sono còlto da insicurezza e ansia, perché non ci sono regole fisse che permettano di sapere quali sono le parole e i gesti giusti, che non gli procureranno sofferenza inutile. Il malato psichico è estremamente sensibile, coglie ogni sfumatura, ogni gesto o parola superficiali lo feriscono. L’unica regola per non compromettere tutto sin dall’inizio è quella di saper guardare dentro agli occhi e ai gesti fisici di una persona. Anche la diagnosi comincia osservando i gesti e la postura della persona. Se i nostri saranno occhi bagnati di lacrime, occhi che ci permettono di immedesimarci nella vita interiore del malato, nel suo dolore, di vedere l’anima ferita in fondo ai suoi occhi, allora riusciremo a essere di aiuto. E poi l’accoglienza, la disponibilità a mettere fra parentesi il tempo dell’orologio per dedicarci veramente al malato. Queste cose sono alla portata di chiunque abbia a che fare con persone in condizioni di disagio psichico, non solo degli psichiatri. Ho conosciuto delle infermiere così intuitive ed emotivamente mature da saper realizzare nel rapporto coi malati le parole del comandamento: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Troppo spesso la psichiatria tradizionale non tiene conto della vita intima dei pazienti, si limita ai comportamenti esteriori. Le cure farmacologiche sono indispensabili, ma sono strumenti che vanno inseriti nel contesto del rapporto personale col malato.
Lei scrive che le psicopatologie ci rivelano qualcosa di fondamentale circa la nostra umanità. Che cosa? Vorremmo anche sapere se oggi il disagio psichico e le malattie mentali sono in aumento o stazionarie.
Dobbiamo distinguere le depressioni dalle schizofrenie: queste sono le due grandi categorie cliniche. La schizofrenia ha un’incidenza dell’1 per cento in qualunque contesto socio-culturale, cioè in Europa come in Africa. Le depressioni colpiscono dal 20 al 25 per cento della popolazione. Una percentuale enorme, ma dentro alla quale le forme gravi che richiedono trattamenti farmacologici intensi sono poche; la maggior parte di esse ha bisogno più che altro di colloquio e psicoterapia. Le depressioni gravi non sono superiori al 2 per cento della popolazione, ma quelle non psicotiche, le forme di tristezza al confine fra la normalità e la sofferenza psichica, raggiungono il 20-25. Una persona su quattro nel corso della vita vive episodi depressivi, che tendono a risolversi. Quando io cado in una condizione depressiva, l’impulso a guardare dentro di me cresce vertiginosamente. Quando la tristezza scende dentro di noi, percepiamo distintamente la differenza fra le cose essenziali e quelle inessenziali, mentre la quotidianità le confonde. La depressione ci spinge a cogliere fino in fondo quello che viviamo, e allora aumenta anche la nostra capacità di conoscere gli altri. L’essere dominati dalla follia implica che da una parte cresce l’impulso a guardare dentro di noi e a prendere coscienza di ciò che siamo, dall’altra cresce la sensibilità a distinguere nelle parole che ascoltiamo e nei gesti altrui l’autenticità o la mancanza di sincerità.
Dobbiamo distinguere le depressioni dalle schizofrenie: queste sono le due grandi categorie cliniche. La schizofrenia ha un’incidenza dell’1 per cento in qualunque contesto socio-culturale, cioè in Europa come in Africa. Le depressioni colpiscono dal 20 al 25 per cento della popolazione. Una percentuale enorme, ma dentro alla quale le forme gravi che richiedono trattamenti farmacologici intensi sono poche; la maggior parte di esse ha bisogno più che altro di colloquio e psicoterapia. Le depressioni gravi non sono superiori al 2 per cento della popolazione, ma quelle non psicotiche, le forme di tristezza al confine fra la normalità e la sofferenza psichica, raggiungono il 20-25. Una persona su quattro nel corso della vita vive episodi depressivi, che tendono a risolversi. Quando io cado in una condizione depressiva, l’impulso a guardare dentro di me cresce vertiginosamente. Quando la tristezza scende dentro di noi, percepiamo distintamente la differenza fra le cose essenziali e quelle inessenziali, mentre la quotidianità le confonde. La depressione ci spinge a cogliere fino in fondo quello che viviamo, e allora aumenta anche la nostra capacità di conoscere gli altri. L’essere dominati dalla follia implica che da una parte cresce l’impulso a guardare dentro di noi e a prendere coscienza di ciò che siamo, dall’altra cresce la sensibilità a distinguere nelle parole che ascoltiamo e nei gesti altrui l’autenticità o la mancanza di sincerità.
Il disagio psichico ha componenti ereditarie, ma non solo. Quali sono le componenti patogene più importanti legate al contesto sociale?
Nelle forme estreme di sofferenza psichica intervengono sempre elementi biologici, psicologici e sociali. Gli elementi biologici, se sono predominanti, scatenano fenomeni psicotici fra i 14 e i 30 anni. Gli aspetti psicologici e sociali possono arginare le componenti biologiche oppure scompensarle. Contesti familiari, vita scolastica, mondo della comunicazione, creano ansia, angoscia e competizione, cioè elementi che in personalità fragili come quelle degli adolescenti hanno un’enorme importanza patogena. Se nelle famiglie si parlasse di più, se le tivù stessero spente, se la violenza non dominasse i media, avremmo meno fattori patogeni. Anche a scuola non si consacra tempo all’ascolto dell’insicurezza psicologica e della timidezza degli studenti, ci si concentra solo sui risultati; non si coglie la richiesta di aiuto che c’è dietro un cattivo rendimento scolastico. Gli insegnanti tengono conto delle componenti intellettive, ma non di quelle emozionali, che spesso sono determinanti nell’andamento scolastico di uno studente.
Nelle forme estreme di sofferenza psichica intervengono sempre elementi biologici, psicologici e sociali. Gli elementi biologici, se sono predominanti, scatenano fenomeni psicotici fra i 14 e i 30 anni. Gli aspetti psicologici e sociali possono arginare le componenti biologiche oppure scompensarle. Contesti familiari, vita scolastica, mondo della comunicazione, creano ansia, angoscia e competizione, cioè elementi che in personalità fragili come quelle degli adolescenti hanno un’enorme importanza patogena. Se nelle famiglie si parlasse di più, se le tivù stessero spente, se la violenza non dominasse i media, avremmo meno fattori patogeni. Anche a scuola non si consacra tempo all’ascolto dell’insicurezza psicologica e della timidezza degli studenti, ci si concentra solo sui risultati; non si coglie la richiesta di aiuto che c’è dietro un cattivo rendimento scolastico. Gli insegnanti tengono conto delle componenti intellettive, ma non di quelle emozionali, che spesso sono determinanti nell’andamento scolastico di uno studente.
Lei distingue il rimpianto dalla nostalgia, e scrive che non si può vivere senza nostalgia. «Nel rimpianto si rimpiange qualcosa che non c’è più, e quello che si rimpiange si cerca disperatamente di cancellarlo dalla memoria, mentre quello di cui si ha nostalgia continua a vivere nella memoria, e a dare un senso alla vita». Ma questo trasformare il passato in un eterno presente, che è ciò che fa la nostalgia, non è fonte di una tristezza senza fine che impedisce di vivere?
Ogni esperienza emozionale complica la vita. Se io vivo senza pensare al mio passato, alle delusioni e ai fallimenti che ho avuto, vivo nel presente senza complicazioni. Ma Agostino ci dice che noi realizziamo una vita dotata di pieno senso soltanto se presente, passato e futuro sono presenti in noi. Se le cose che abbiamo vissuto nel passato e che vorremmo cancellare non rimangono invece con alcune loro tracce anche nel cuore delle esperienze che facciamo oggi, non solo tali esperienze non hanno la pienezza del tempo interiore di cui Agostino parlava, ma senza la nostalgia, cioè senza un presente animato dal passato, noi non siamo nemmeno in grado di vivere il futuro nella sua promessa di pienezza e di grazia. Tant’è vero che Gabriel Marcel ha scritto che la speranza è memoria del futuro. Nella misura in cui noi non perdiamo il significato umano e psicologico, positivo o negativo che sia, delle cose che abbiamo vissuto, noi riusciamo a proiettare nel futuro le nostre aspirazioni più profonde. Le speranze che ci si aprono davanti sono infiltrate dalle esperienze del passato che continuano a vivere in noi. Rimpianti e nostalgie sono sentieri aperti, anche se dolorosi, che rendono il presente più completo e intenso e che ci consentono di avere orizzonti di futuro più ampi e più creativi.
Ogni esperienza emozionale complica la vita. Se io vivo senza pensare al mio passato, alle delusioni e ai fallimenti che ho avuto, vivo nel presente senza complicazioni. Ma Agostino ci dice che noi realizziamo una vita dotata di pieno senso soltanto se presente, passato e futuro sono presenti in noi. Se le cose che abbiamo vissuto nel passato e che vorremmo cancellare non rimangono invece con alcune loro tracce anche nel cuore delle esperienze che facciamo oggi, non solo tali esperienze non hanno la pienezza del tempo interiore di cui Agostino parlava, ma senza la nostalgia, cioè senza un presente animato dal passato, noi non siamo nemmeno in grado di vivere il futuro nella sua promessa di pienezza e di grazia. Tant’è vero che Gabriel Marcel ha scritto che la speranza è memoria del futuro. Nella misura in cui noi non perdiamo il significato umano e psicologico, positivo o negativo che sia, delle cose che abbiamo vissuto, noi riusciamo a proiettare nel futuro le nostre aspirazioni più profonde. Le speranze che ci si aprono davanti sono infiltrate dalle esperienze del passato che continuano a vivere in noi. Rimpianti e nostalgie sono sentieri aperti, anche se dolorosi, che rendono il presente più completo e intenso e che ci consentono di avere orizzonti di futuro più ampi e più creativi.
Il passato è affollato di rimpianti e sensi di colpa, il futuro è segnato dall’angoscia della morte, in un mondo dove la fede nell’aldilà è sempre più incerta. Come si esce da questa impasse?
Vede, speranza e angoscia hanno una cosa in comune: entrambe sono rivolte al futuro. Ma mentre la speranza ci apre i cieli della bellezza e delle grazia, l’angoscia è percezione e paura della morte che in ogni momento potrebbe colpirci. Quanta più speranza abbiamo in un infinito che trascenda la mortalità della vita, tanto meno l’ansia della morte ci accompagnerà. La società di oggi non dà importanza né alle speranze – che sono anche esperienze di sacrificio, ascolto, generosità – né al presagio della morte, cancellata dagli idoli del successo e dell’eterna giovinezza. La categoria del futuro è quella che oggi dal punto di vista esistenziale e psicologico viene più cancellata. C’è bisogno di cristiani, intesi come portatori di una forma di vita che raccoglie non solo coloro che credono in una trascendenza che oltrepassa la morte, ma anche tutti coloro che vivono l’orizzonte dei valori cristiani: credere nella speranza, nella solidarietà umana, nell’amore per il prossimo in cui si realizzano i valori che danno senso alla vita. Se nella vita abbiamo fatto l’esperienza della sofferenza, non solo cresciamo in conoscenza e maturazione psicologica, ma anche in accoglienza, in ricerca di quello che ci unisce al di là delle fedi.
Vede, speranza e angoscia hanno una cosa in comune: entrambe sono rivolte al futuro. Ma mentre la speranza ci apre i cieli della bellezza e delle grazia, l’angoscia è percezione e paura della morte che in ogni momento potrebbe colpirci. Quanta più speranza abbiamo in un infinito che trascenda la mortalità della vita, tanto meno l’ansia della morte ci accompagnerà. La società di oggi non dà importanza né alle speranze – che sono anche esperienze di sacrificio, ascolto, generosità – né al presagio della morte, cancellata dagli idoli del successo e dell’eterna giovinezza. La categoria del futuro è quella che oggi dal punto di vista esistenziale e psicologico viene più cancellata. C’è bisogno di cristiani, intesi come portatori di una forma di vita che raccoglie non solo coloro che credono in una trascendenza che oltrepassa la morte, ma anche tutti coloro che vivono l’orizzonte dei valori cristiani: credere nella speranza, nella solidarietà umana, nell’amore per il prossimo in cui si realizzano i valori che danno senso alla vita. Se nella vita abbiamo fatto l’esperienza della sofferenza, non solo cresciamo in conoscenza e maturazione psicologica, ma anche in accoglienza, in ricerca di quello che ci unisce al di là delle fedi.
Lei cita Simone Weil che dice: «Il tempo è l’attesa di Dio che mendica il nostro amore. Dio attende come un mendicante». Lei crede questo?
Sì, io credo che il destino – nel senso di scelta accompagnata dalla Grazia – che ci porta a vivere il messaggio del Vangelo nella sua intensa e stupefacente dimensione interpersonale ci mette in dialogo continuo con un Tu che è il Tu di Dio. Ci fa sentire mendicanti che attendono un gesto da parte sua, ma ci porta anche a pensare a Dio come un mendicante che attende che noi ci trasformiamo, che abbandoniamo le ancore che ci fissano alle nostro istanze individuali. Leggo molto i mistici e appena posso vado all’isola di san Giulio sul lago d’Orta, presso un monastero benedettino. Lì la mia speranza e la mia fede sono rinnovate come quelle di un mendicante che attende parole e gesti che aprano il cuore a quelle speranze che a volte si fanno deboli. Ma, come scrive san Paolo, «quando sono debole è allora che sono forte per Cristo».
Sì, io credo che il destino – nel senso di scelta accompagnata dalla Grazia – che ci porta a vivere il messaggio del Vangelo nella sua intensa e stupefacente dimensione interpersonale ci mette in dialogo continuo con un Tu che è il Tu di Dio. Ci fa sentire mendicanti che attendono un gesto da parte sua, ma ci porta anche a pensare a Dio come un mendicante che attende che noi ci trasformiamo, che abbandoniamo le ancore che ci fissano alle nostro istanze individuali. Leggo molto i mistici e appena posso vado all’isola di san Giulio sul lago d’Orta, presso un monastero benedettino. Lì la mia speranza e la mia fede sono rinnovate come quelle di un mendicante che attende parole e gesti che aprano il cuore a quelle speranze che a volte si fanno deboli. Ma, come scrive san Paolo, «quando sono debole è allora che sono forte per Cristo».
Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola
venerdì 12 giugno 2015
Il documento di CL in merito alla manifestazione del 20 giugno 2015 a Roma
«Dio ha affidato la terra all’alleanza dell’uomo e della donna: il suo fallimento inaridisce il mondo degli affetti e oscura il cielo della speranza. I segnali sono già preoccupanti, e li vediamo. (…) Da qui viene la grande responsabilità della Chiesa, di tutti i credenti, e anzitutto delle famiglie credenti, per riscoprire la bellezza del disegno creatore che inscrive l’immagine di Dio anche nell’alleanza tra l’uomo e la donna. La terra si riempie di armonia e di fiducia quando l’alleanza tra uomo e donna è vissuta nel bene. E se l’uomo e la donna la cercano insieme tra loro e con Dio, senza dubbio la trovano. Gesù ci incoraggia esplicitamente alla testimonianza di questa bellezza che è l’immagine di Dio» (Papa Francesco, Udienza generale, 15 aprile 2015).
«Gli enormi e rapidi cambiamenti culturali richiedono che prestiamo una costante attenzione per cercare di esprimere le verità di sempre in un linguaggio che consenta di riconoscere la sua permanente novità» (Evangelii Gaudium). Nel contesto attuale, infatti, i valori nati dal cristianesimo non sono più evidenti, tanto che la mentalità comune ne prescinde, ne inventa ogni giorno di nuovi e a questi si adattano sempre più velocemente anche le leggi dello Stato.
CL è nata per la passione all’educazione delle persone, perché possano trovare nell’esperienza di fede il luogo adeguato per riconquistare le evidenze perdute, sul valore della vita, sulla bellezza del matrimonio tra uomo e donna, sulla dignità umana dal suo concepimento alla sua fine naturale. Questo significa porre le basi per riscoprire il significato di tutti questi valori dall’interno della propria esperienza e così poterli difendere con la testimonianza della propria vita. Questo non vuol dire che il cristiano non abbia il dovere di opporsi alla deriva antropologica attuale. Occorre però chiedersi quale sia la modalità più adeguata, realistica ed efficace per farlo. Fin dall’epoca dei referendum su divorzio e aborto la storia ha mostrato a tutti che andare in piazza non produce alcun effetto positivo e non arresta certi processi. Anzi. Le leggi su divorzio e aborto non sono state la causa del venir meno di una certa mentalità nata in ambito cristiano, ma l’esito dello sfaldarsi di essa. Già nel 1978, don Giussani diceva: «In una società come questa, non possiamo rivoluzionare niente con parole, associazioni, o istituzioni, ma solo con la vita, perché la vita è un grande fatto contro cui le derive ideologiche non riusciranno a vincere mai».
Da questo punto di vista, non crediamo che in questo momento storico siano le manifestazioni di piazza a cambiare la concezione dell’uomo implicita nei nuovi diritti. Come ha dichiarato recentemente il Segretario CEI monsignor Nunzio Galantino, «il problema è la ricerca della verità su ciò che riguarda l’uomo. Un cristiano che si mette “contro” qualcuno o qualcosa già sbaglia il passo. A me piacerebbe un tavolo sul quale poniamo le nostre ragioni. Non si tratta di fare a chi grida di più, i “pasdaran” delle due parti si escludono da sé. Ci vuole un confronto tra gente che vuole bene a tutti» (Corriere della Sera, 25 maggio 2015).
In questo senso, condividiamo la valutazione del Forum delle associazioni familiari, che non aderisce alla manifestazione del 20 giugno: «Come Forum sosteniamo e attuiamo una modalità di intervento diversa, orientata al dialogo, al rapporto diretto con interlocutori della politica e della cultura sensibili». E questo è un impegno che richiede equilibrio e pazienza, tanto si è certi delle buone ragioni che si portano nel dibattito pubblico.
Al momento la Chiesa italiana non ha dato alcuna indicazione univoca sulla partecipazione a un’iniziativa organizzata di fatto da varie sigle e personalità cattoliche, ma formalmente presentata come aconfessionale e promossa da liberi cittadini. «È chiaro che di fronte alla difesa della famiglia naturale (…) la modalità concreta può essere espressa legittimamente in forme diverse. (…) C’è stato anche chi, assolutamente senza negare ogni forma di impegno a favore della famiglia, ha ritenuto, per questo momento storico, sia più ragionevole e più urgente l’apertura di un processo che (…) veda tutti impegnati a fronteggiare la cultura individualista che è alla base di leggi e proposte estemporanee che tendono a mettere all’angolo la famiglia costituzionale e a privilegiare i diritti dei singoli sul bene comune. Ora, questo processo, non meno impegnativo, anzi più esigente di altri, richiede comunque un sentire e un impegno comune che non è solo frutto di paure, ma si costruisce invece sul dialogo» (Nunzio Galantino, Intervista a Radio Vaticana, 10 giugno 2015).
Per tutte queste ragioni il movimento in quanto tale ha deciso di non aderire all’iniziativa del 20 giugno, che – al di là delle buone intenzioni di tanti che vi parteciperanno − non sembra adeguata a favorire il necessario clima di incontro e di dialogo con chi la pensa diversamente.
Questo lascia evidentemente libero di partecipare chiunque lo ritenga opportuno, con l’invito a verificare fino in fondo, nell’esperienza, le ragioni ultime della sua adesione.
12/06/2015
giovedì 11 giugno 2015
Carrón: «Un'enorme delusione ma CL è agli antipodi» da LA REPUBBLICA di Paolo Rodari
- Don Julián Carrón.
I fatti di Roma, le indagini e il presunto coinvolgimento di aderenti al movimento. In un'intervista al quotidiano diretto da Ezio Mauro, parla il Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione
Roma. «La delusione è cocente. L’ideale del movimento di Comunione e Liberazione è agli antipodi della corruzione che sta emergendo nell’inchiesta su Mafia Capitale. E vedere che fra gli indagati ci sono persone del movimento è per tutti noi motivo di profondo dispiacere».
Tre anni dopo la lettera a Repubblica in cui espresse un «dolore indicibile» per ciò che «abbiamo fatto della grazia che abbiamo ricevuto» (allora alcuni esponenti politici della Regione Lombardia legati a CL erano accusati di malaffare), don Julián Carrón, presidente della Fraternità di CL, sente il dovere di intervenire ancora: nell’inchiesta, infatti, a finire nelle intercettazioni è la cooperativa La Cascina, di cui alcuni esponenti fanno parte del movimento.
Don Carrón, la storia si ripete?
Lasciamo che la magistratura faccia il suo corso. Gli accertamenti giudiziari verificheranno la fondatezza o meno delle accuse, ma già solo la possibilità che un’opera di carità e accoglienza a persone tanto disperate possa essere sporcata da attività di corruzione e speculazione personale rappresenta una deriva inaccettabile e un vulnus alla sostanza stessa della carità e dell’amore cristiano. Papa Francesco nei suoi interventi sulla corruzione richiama a “non riporre la nostra speranza nei soldi, nel potere”.
L’indagine ipotizza tangenti pagate dal gruppo La Cascina per l’aggiudicazione dei servizi al centro di accoglienza profughi Cara di Mineo.
Qualora venissero accertati, i fatti sono di una gravità inaudita, da condannare senza riserve, chiunque li abbia commessi, non solo per la pervasività e le dimensioni della corruzione e di abuso di denaro pubblico che sembrano emergere dall’indagine, ma soprattutto perché le persone coinvolte avrebbero approfittato dei più deboli.
Vien da chiedersi a cosa educhi CL.
Il movimento educa a una concezione di carità che è esattamente agli antipodi rispetto ai comportamenti riferiti dalle cronache in questi giorni. CL propone a chiunque, ragazzi, studenti e adulti, gesti di carità proprio per educare le persone a dedicare gratuitamente del tempo per sostenere più deboli, poveri, anziani, malati, studenti in difficoltà, handicappati, immigrati... Forse proprio per questo eventuali errori di appartenenti a CL assumono un clamore maggiore perché contrastano con la proposta del movimento e dunque suscitano un senso di delusione in tanti che ci conoscono.
Ma perché secondo lei il nome di CL emerge talvolta dove alberga il malaffare?
Siamo peccatori come tutti, ma sono certo che nessuno che si sia formato nel movimento e che appartenga a CL potrebbe anche solo lontanamente immaginare che sfruttare a proprio vantaggio la carità sia un comportamento giustificabile. Noi vogliamo educare adulti alla loro responsabilità per il bene di tutti. Ma in questo non c’è niente di meccanico, perché tutta la nostra proposta è offerta alla libertà della persona, che può accettarla e seguirla o rifiutarla e seguire i propri progetti e interessi.
Sta dicendo che un conto è l’appartenenza al movimento, un altro è l’attività personale?
La responsabilità di un’opera è di chi la fa. CL non entra nella modalità con cui un suo aderente decide di fare qualcosa nella società, così come non entra nella gestione di un’opera, che è in tutto responsabilità di chi la fa. Devo però constatare che spesso qualunque cosa faccia un aderente a CL, questa è sempre attribuita direttamente al movimento. CL mantiene sempre una irrevocabile distanza critica, oltre che dalla politica, anche dalle opere fatte da suoi aderenti.
Come, allora, da un’appartenenza vissuta come tensione ideale si può arrivare a certe degenerazioni?
È una domanda che mi sono fatto spesso. A volte è per un crollo della tensione ideale; altre volte, nel tentativo di rispondere al bisogno così sterminato che vediamo intorno a noi, si arriva a pensare che una intenzione buona possa giustificare tutto.
Ma allora che cosa rende possibile non soccombere alla tentazione della corruzione?
Tutti sappiamo che non basta il nostro sforzo. L’unica possibilità è avere un tesoro più grande che soddisfi di più delle briciole del potere. È solo una sovrabbondanza sperimentata e vissuta che consentirà questa vittoria.
Don Carrón, la storia si ripete?
Lasciamo che la magistratura faccia il suo corso. Gli accertamenti giudiziari verificheranno la fondatezza o meno delle accuse, ma già solo la possibilità che un’opera di carità e accoglienza a persone tanto disperate possa essere sporcata da attività di corruzione e speculazione personale rappresenta una deriva inaccettabile e un vulnus alla sostanza stessa della carità e dell’amore cristiano. Papa Francesco nei suoi interventi sulla corruzione richiama a “non riporre la nostra speranza nei soldi, nel potere”.
L’indagine ipotizza tangenti pagate dal gruppo La Cascina per l’aggiudicazione dei servizi al centro di accoglienza profughi Cara di Mineo.
Qualora venissero accertati, i fatti sono di una gravità inaudita, da condannare senza riserve, chiunque li abbia commessi, non solo per la pervasività e le dimensioni della corruzione e di abuso di denaro pubblico che sembrano emergere dall’indagine, ma soprattutto perché le persone coinvolte avrebbero approfittato dei più deboli.
Vien da chiedersi a cosa educhi CL.
Il movimento educa a una concezione di carità che è esattamente agli antipodi rispetto ai comportamenti riferiti dalle cronache in questi giorni. CL propone a chiunque, ragazzi, studenti e adulti, gesti di carità proprio per educare le persone a dedicare gratuitamente del tempo per sostenere più deboli, poveri, anziani, malati, studenti in difficoltà, handicappati, immigrati... Forse proprio per questo eventuali errori di appartenenti a CL assumono un clamore maggiore perché contrastano con la proposta del movimento e dunque suscitano un senso di delusione in tanti che ci conoscono.
Ma perché secondo lei il nome di CL emerge talvolta dove alberga il malaffare?
Siamo peccatori come tutti, ma sono certo che nessuno che si sia formato nel movimento e che appartenga a CL potrebbe anche solo lontanamente immaginare che sfruttare a proprio vantaggio la carità sia un comportamento giustificabile. Noi vogliamo educare adulti alla loro responsabilità per il bene di tutti. Ma in questo non c’è niente di meccanico, perché tutta la nostra proposta è offerta alla libertà della persona, che può accettarla e seguirla o rifiutarla e seguire i propri progetti e interessi.
Sta dicendo che un conto è l’appartenenza al movimento, un altro è l’attività personale?
La responsabilità di un’opera è di chi la fa. CL non entra nella modalità con cui un suo aderente decide di fare qualcosa nella società, così come non entra nella gestione di un’opera, che è in tutto responsabilità di chi la fa. Devo però constatare che spesso qualunque cosa faccia un aderente a CL, questa è sempre attribuita direttamente al movimento. CL mantiene sempre una irrevocabile distanza critica, oltre che dalla politica, anche dalle opere fatte da suoi aderenti.
Come, allora, da un’appartenenza vissuta come tensione ideale si può arrivare a certe degenerazioni?
È una domanda che mi sono fatto spesso. A volte è per un crollo della tensione ideale; altre volte, nel tentativo di rispondere al bisogno così sterminato che vediamo intorno a noi, si arriva a pensare che una intenzione buona possa giustificare tutto.
Ma allora che cosa rende possibile non soccombere alla tentazione della corruzione?
Tutti sappiamo che non basta il nostro sforzo. L’unica possibilità è avere un tesoro più grande che soddisfi di più delle briciole del potere. È solo una sovrabbondanza sperimentata e vissuta che consentirà questa vittoria.
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