martedì 27 dicembre 2011

Giancarlo Cesana: Sappiamo da che parte stare | Tempi

L’esecutivo d’emergenza non sospende la democrazia. Il problema se mai è che «ciò che ora è proclamato indilazionabile, non era ritenuto fondamentale prima». E per non essere inghiottiti dal potere «bisogna saper vedere queste differenze». l'intervista a Giancarlo Cesana, apparsa sul numero 51/2011 Tempi.
Messa di fatto in mora dal “governo tecnico”. Squassata dalla retorica dell’anticasta. Svillaneggiata dall’ultimo stagista che passa in redazione. Oggi alla politica conviene volare bassa e stare guardinga. E attrezzarsi sperando nei corsi e ricorsi storici. Intanto, stelle s’acquattano dietro i convegni cattolici che puntano su Roma. E stelline si affacciano nelle agorà del “nuovo parlarsi” all’insegna del «mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?». Insomma, è un fiorire di “radici cristiane” e “valori non negoziabili”. Piatto ricco. Ma non per Giancarlo Cesana. Ciellino doc, professore di Igiene generale e applicata all’Università degli studi di Milano Bicocca e presidente della Fondazione Policlinico-Mangiagalli di Milano.

Professore, come giudica l’esultanza per il “ritorno dei cattolici in politica”?

I cattolici sono in politica da tempo, non più uniti purtroppo e pertanto poco incidenti, meglio, “incidono” per quello su cui incidono tutti. Per esempio, nell’attuale parlamento e anche nel governo ci sono molti cattolici. Fa tuttavia fatica ad emergere una proposta originale, non reattiva, di politica e società. Questa carenza purtroppo non è sostituibile dalla semplice volontà entrista. Credo debba essere ritrovato il significato personale e pubblico della fede e il coraggio dell’unità. Lo so che a molti l’unità dei cattolici in politica suona come una forzatura o addirittura come un indigeribile reliquato del passato. Ma, secondo me, sbagliano. Come dice san Paolo: «Sia dunque che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio» (1 Cor 10,31). Mi pare uno scopo abbastanza unificante, soprattutto quando si tratta di decidere su questioni fondamentali che riguardano i destini del proprio popolo. Non è detto che l’unità sia un partito, né che sia in funzione di esso, ma di una ipotesi di società sì, a cominciare dai cosiddetti “valori non negoziabili” fino alle loro conseguenze che sono molto di più che dei no all’aborto e simili. Sono immagini positive di esistenza, educazione, economia e legge. Queste vanno difese e incrementate. Bisogna però conoscerle e riconoscerle come il patrimonio comune della nostra storia. La strada è lunga e negli ultimi anni si è camminato all’indietro.

Il Papa davanti al Bundestag ha detto: «La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle “risorse” di Dio, che trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto». Quali sono queste finestre da aprire?

Ne dico tre, in ordine, per così dire, logico. La prima è sulla realtà che, per quanto enigmatica e dolorosa, è positiva perché c’è e ci corrisponde nel senso che senza di essa non possiamo vivere (ci vuole l’aria, la luce, il cibo… la bellezza). La seconda è sul mistero, di cui la realtà è segno. La ragione positivista che rifiuta l’anima, o la libertà, solo perché squartando i cadaveri non le ha mai trovate, è superficiale. Ci son più cose in cielo e in terra che nella nostra fantasia, diceva Shakespeare. La terza finestra è su Cristo che, come dice Giussani, “pretende” di essere il volto del mistero, che ha vinto la morte e, con la Chiesa, continua misteriosamente la sua presenza tra noi. Cristo conferma che la domanda di eternità e felicità non è follia, che le contraddizioni si possono affrontare, che si può sperare. È il Natale e la nostra storia, senz’altro la mia, in cui molte altre finestre si sono aperte di conseguenza.

Piero Ostellino nell’intervista pubblicata tre settimane fa su Tempi, dice che dobbiamo uscire dal Novecento, cioè da un tipo di mentalità diffuso in Italia, secondo cui “tutto è dovuto”. Ce la possiamo fare? Ma secondo quale nuovo ideale?

Ce la possiamo fare senz’altro, ma non sarà facile perché i sacrifici – non tutto è dovuto e, anzi, spesso bisogna dare – in genere non piacciono. Per farli bisogna essere molto liberi o costretti, che è, purtroppo, la condizione più frequente. Per fare sacrifici non costretti bisogna avere chiaro lo scopo, cioè che valgano la pena. Un sacrificio, infatti, non è innanzitutto una rinuncia, ma amore alla verità più che a se stessi, in quanto dipendenti dalla verità. Perché la libertà cresca è necessaria l’educazione, che come diceva lo Jungmann è “introduzione alla realtà totale”. Quando si dice che c’è un’emergenza educativa si afferma implicitamente che c’è un alterato rapporto con la realtà, una incapacità di apprezzare la verità delle cose. Appunto, spetta all’educatore soprattutto di spalancare le finestre; e all’educando, giovane o adulto che sia – bisogna imparare anche da grandi –, di decidere di guardare fuori e respirare a pieni polmoni. Le finestre mostrano gli ideali, cioè non le idee astratte, ma le immagini che più compiutamente realizzano i desideri. Come è stato sottolineato in un recente documento di Comunione e Liberazione sulla crisi, di ideali ce ne sono, non solo perseguibili, ma perseguiti.


Da ex leader del Movimento popolare e da cattolico che non nasconde le sue simpatie, come vede l’ondata senza fine dell’antipolitica? Non è paradossale che i grandi sponsor mediatici di questa moda che sembra stare “dalla parte della gente” siano ora i primi promotori di un governo passato al cento per cento “sopra la testa della gente”?

Di cose che passano sopra la testa della gente ce ne sono molte e molto più gravi di questo governo. Quanto al fatto che questo governo costituisca una interruzione del ciclo democratico, non riesco a essere d’accordo, perché è stato votato dal Parlamento, cioè dai rappresentanti del popolo, cui spetta anche di ratificarne le leggi. Certamente questo governo è l’esito delle incapacità precedenti sia della maggioranza che dell’opposizione. Bisogna però saper vedere le differenze, perché il futuro non diventi la notte in cui tutte le vacche sono nere. Mentre Berlusconi e il Pdl erano d’accordo e, dicono, in gran parte abbiano “preparato” i provvedimenti “salva-Italia” di Monti, la Lega lo era un po’ di meno – vedi le pensioni – e i partiti di opposizione non lo erano per niente – erano contro tutto. Il problema è che quello che è proclamato indilazionabile adesso, non era ritenuto fondamentale prima, dalla opposizione politica e “culturale” al governo di prima, divenuta sostenitrice del governo di adesso. Siccome dicono tutti che la criticità presente si estenderà negli anni a venire, limitarsi a incrociare le dita è demenziale. È necessario che, pur con i dubbi morali sulle persone, sui fatti si sappia da che parte stare. Vivere sopra le parti è un’illusione, che lascia schierati secondo l’opinione corrente, che crede di essere indipendente solo perché fa parte della maggioranza indisturbata, perché connivente con chi comanda.

Lucio Magri: una morte onorevole o una morte scandalosa?

De mortuis nihil nisi bonum, è la proverbiale frase latina che ricorda che chi è morto non si può difendere e, quindi, non si può che dirne bene. Ho letto che c’era di mezzo la depressione. Non sono scandalizzato, però non sono d’accordo, se non con Magri, con gli amici che aspettavano insieme la notizia della fine. Non posso però impedire loro di vivere così, senza reale speranza nella vita. Ma allora perché coltivare un ideale rivoluzionario o comunque di cambiamento? Qui, però, più che sentenziare bisogna parlare, confrontarsi, per quello che serve.

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