venerdì 30 marzo 2012


Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón
Milano, 28 marzo 2012
Testo di riferimento: All’origine della pretesa cristiana, capitoli III e IV, Rizzoli, Milano 2011, pp.33-56.



• I Wonder
• Il giovane ricco
Gloria
Prima di cominciare ad affrontare quello che ci siamo dati come tema di oggi vorrei dire una parolasul modo di fare la Scuola di comunità, perché il tentativo che stiamo facendo quest’anno è verificare se il lavoro che abbiamo fatto negli ultimi due anni comincia ad affermarsi come metodo.
Se non è così, ritorniamo al punto di partenza e la Scuola di comunità non dà il contributo che, come gesto, deve dare (e lo si vede nella modalità con cui noi la facciamo). Questo evidentemente ha dei rischi: sarebbe più facile venire qui per ascoltare una lezione e andare via tutti, come qualcuno propone, ma questo non produrrebbe quello che cerchiamo di ottenere: che diventi familiare un certo modo di fare la Scuola di comunità. Ma siccome qualcuno ha qualche perplessità
voglio affrontarla. Una persona mi scrive: «Mi sembra che la forma assembleare, dentro una ricchezza di esemplificazioni e di testimonianze, non stia aiutando nel lavoro specifico sul contenuto del testo. In particolare, l’ultima volta dagli interventi mi è sembrato come se il testo, che tu definisci in questo capitolo decisivo, non sia stato oggetto di un lavoro di paragone. Ognuno dice
la sua pur significativa esperienza, ma senza nesso con il contenuto del testo; almeno, io non l’ho colto [ed è importante rendersene conto, perché altrimenti non impariamo]. In fin dei conti è una “scuola”, per cui il primo scopo è il paragone con un maestro e con il contenuto che lui esprime, innanzitutto con il desiderio di capire cosa dice. Io sento necessario, per me e per alcuni amici con cui sono, un momento in cui la Scuola di comunità sia “presentata” e approfondita nel suo
contenuto nella provocazione che rappresenta per la vita». Questa presentazione è già stata fatta il 25 gennaio... Adesso occorre rischiare, anche se i compiti a volte non li facciamo bene. A me non preoccupa questo, perché non veniamo qui per fare bella figura, ma per imparare; se a voi preoccupa, mi dispiace per voi, a me non preoccupa. A me preoccupa che noi impariamo, mi preoccupa innanzitutto per me stesso. Allora l’unica modalità è che ciascuno testimoni il proprio tentativo, perché è così che possiamo aiutarci a vedere se il tentativo che stiamo facendo è adeguato per imparare. Questo è il paragone che qui facciamo, come mi ha scritto un’altra persona dopo l’ultima Scuola di comunità: «Che scossa ieri sera accorgersi di quanto viviamo estraniati da noi stessi, al punto che non ci rendiamo conto che noi – io, non gli altri – viviamo le riduzioni del cristianesimo da cui don Gius ci mette in guardia. Ti confesso che senza di te non avrei capito questo mese di Scuola di comunità [il paragone c’è!], nonostante [questo è il punto] l’abbia letta
tutti i giorni, nonostante abbia partecipato a tutti i nostri incontri possibili. È sotto il tuo sguardo che ritrovo me stessa». È in questo che dobbiamo aiutarci. Mi è caduto tra le mani un testo che mi è stato utile per un paragone. È tratto da Qualcosa che viene prima, dove Giussani descrive ancora una volta che cosa è la Scuola di comunità. «Occorre che chi guida la “Scuola di comunità” comunichi una esperienza nella quale si rinnovi lo stupore iniziale e non invece svolga un ruolo o
un “compito”. Non può essere comunicazione di un’esperienza quella che parte da una coscienza di se stessi come ruolo, che muove da una visione di sé come padronanza e superiorità, con la pretesa di insegnare. Perché chi insegna è soltanto lo Spirito di Dio: è lo Spirito che dà il primo sussulto e che lo rinnova. [Perciò] chi, guidando la “Scuola di comunità”, comunica un’esperienza nella quale riaccade la sorpresa iniziale, svolge questa comunicazione dando ragione delle parole che vengono
usate». È questo che dobbiamo domandare allo Spirito: che ogni volta che andiamo a Scuola di comunità riaccada la sorpresa iniziale senza la quale non si capisce neanche se la “spieghiamo” (a

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causa della riduzione che facciamo della conoscenza come spiegazione e non come avvenimento).Capiamo le cose quando accadono. Perciò è fondamentale aiutarci in questo. Uno mi scrive dicendo (lo leggo perché mi sembra utile per il lavoro comune): «All’ultima Scuola di comunità hai detto che ti aveva colpito il paragrafo iniziale dell’Introduzione del testo. In particolare ti colpiva che don
Giussani dica che “non considerare il cristianesimo in modo comunque riduttivo dipende dalla comprensività e completezza con cui uno percepisce (…) il senso religioso”. Se noi riduciamo il senso religioso cioè la natura del nostro io inevitabilmente riduciamo il cristianesimo». Chi mi scrive dice di non capire il rapporto che c’è tra questo e quello che ha letto nel capitolo di oggi:
«“Un’indagine sul senso religioso non porta a capire se il cristianesimo ci trasmette una notizia vera o falsa. Ho già enunciato questa posizione nel primo volume di questo corso: il metodo è imposto dall’oggetto, non è fissato dal soggetto. Il senso religioso è un fenomeno della persona, perciò abbiamo chiarito come il metodo per affrontarlo (…) sia la riflessione su se stessi. Invece se Cristo
abbia detto o no di essere Dio, e che sia o non sia Dio, e che ci raggiunga ancor oggi, è un problema storico, perciò il metodo deve essere corrispondente, e corrispondente alla gravità del problema”. Io da tutto questo ho capito che se non spalanco il mio cuore, se quindi non faccio un’indagine su me stesso, non posso capire la portata del messaggio cristiano. Però, ciò che dice don Giussani nel
capitolo terzo al paragrafo quattro sembra il contrario, ovvero che bisogna semplicemente stare davanti al fatto storico di Cristo». Sono due cose che occorre capire. Don Giussani dice che il senso religioso è diverso dal cristianesimo, perché il cristianesimo è un fatto storico e quindi non è attraverso una indagine su di me che io capisco se è successo il cristianesimo. Ma, allo stesso tempo, Giussani dice che senza che io sia presente, senza che io sia spalancato totalmente a questo –
il che non vuol dire che io debba fare ulteriori indagini su me stesso, bensì che io abbia consapevolezza di me stesso e di tutto il dramma che sono –, non posso capire, non posso cogliere che il fatto cristiano è accaduto. Capite? I discepoli Lo avevano davanti – abbiamo detto la volta scorsa –, ma preferivano il successo missionario alla Sua persona. Perché? Perché Gesù non era davanti a loro? No, è che per cogliere la diversità che c’era in Gesù occorreva che stessero di fronte a Lui con tutta la consapevolezza di se stessi. Per questo se noi non capiamo queste due cose che
non si tratta di compiere un’indagine su me stesso, da un lato, ma che senza avere consapevolezza di me stesso io non posso cogliere il cristianesimo, dall’altro, perché questo è il nodo dell’impostazione di tutto il libro: una tenera e appassionata coscienza di me –, Cristo sarà per noi un puro nome. Allora la questione è che io sia con tutta la mia umanità spalancata davanti al reale
per poter intercettare con il mio umano se succede qualcosa per cui dico: «Ah! È quello che cercavo». È decisivo capirlo se vogliamo non confondere le due cose. Spero di essermi spiegato. Allora, la domanda che ci eravamo dati è verificare dove noi possiamo intercettare se è successo o non è successo il cristianesimo, perché questa è la questione; adesso non è più un problema di riflessione su di sé, ma è un problema storico: è successo il cristianesimo, o no? Siamo da soli con i nostri tentativi di vivere la vita oppure è successo qualcosa di diverso? In che cosa possiamo riconoscerlo? In che cosa possiamo rintracciare che è successo questo cambiamento di metodo? Adesso non ci interessano tanto le conseguenze, ma il fatto di intercettare che è successo.



Cercando di fare la Scuola di comunità con questa domanda in mente devo dire che per molte settimane il ribaltamento del metodo, il fatto successo nella mia vita, spesso lo andavo a cercare in episodi del passato più o meno recente. E poi è successa una cosa, in realtà molto semplice, che per me è preziosa, perché mi pare che mi consegni tutta l’attualità e tutta la vita che c’è dentro questo “ribaltamento delle frecce”. In un momento di vita tutto sommato sereno in cui, dopo grandi
cambiamenti di lavoro, di vita in generale, mi sembra di aver ritrovato un nuovo equilibrio, domenica trascorro una bellissima giornata primaverile: una biciclettata con la mia famiglia (una delle cose che mi piace di più), e verso sera il Battesimo del figlio di un’amica, con uno stato d’animo di gioia, ma anche – perdonate – un po’ formale. E lì, durante la Messa, incomincio a sentire leggere il vangelo della resurrezione di Lazzaro, e a rivivere tutto quell’appassionato sguardo di Gesù su Lazzaro, Maria, Marta; e poi, durante l’omelia, tu spieghi questo brano
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dicendo: «Il gesto che noi stiamo compiendo è ben più grande persino della resurrezione di Lazzaro, perché Lazzaro ha dovuto poi morire un’altra volta, invece con il Battesimo il bambino è posto in una vita eterna» (una madre sa bene che non potrebbe sopportare una prospettiva diversa da questa di fronte a un figlio). Insomma, una cerimonia in cui si leggevano cose sentite mille volte, eppure hanno provocato in me un turbamento profondissimo, perché è come se, sotto quello
sguardo, rivissuto attraverso le parole del Vangelo e della tua omelia, nonché la presenza di certi volti amici, io avessi riscoperto in realtà che non è del mio “equilibrio” di cui ho bisogno, ma proprio di quello sguardo che mi provoca una nostalgia dolorosissima che sconvolge, che fa perdere il sonno e anche la lucidità sulle cose che hai da fare, ma che ami, che non vorresti barattare con nient’altro al mondo perché capisci che sei fatto per questo. Io non so se è di questo
che parliamo, però a me sembra che nella mia vita il cambiamento di metodo sia questo fatto che riaccade, riaccade veramente, riaccade nelle situazioni in cui non te l’aspetti (non mi aspettavo che domenica finisse così).

Grazie. È di questo che parliamo, perché la prima cosa di cui parliamo non è altro che di una esperienza presente. Prima questione. Uno va in un certo luogo pensando di andare a una cosa formale e si trova davanti qualcosa che lo sconvolge. Semplice. In che cosa si vede? È dall’interno di una cosa così – o di quello che sentiremo adesso, spero, dagli altri – che occorre ripescare tutte le parole che si riferiscono al capovolgimento di metodo di cui parla la Scuola di comunità. Questo è
un’evidenza facile per un bambino, non occorre alcuna particolare intelligenza, perché uno arrivi lì e veda qualcosa che lo sconvolge. Facile! Perfino i bambini possono essere spostati. È così che noi dobbiamo cercare di rintracciare nel reale i fatti che documentano questo capovolgimento.


Mi chiama un amico che mi dice: «Ci sono due miei amici che vorrei farti incontrare insieme al loro papà perché l’azienda di quest’ultimo non va bene, vorrei che tu li aiutassi a trovare lavoro».
E allora mi incontro a un pranzo con i due figli, il papà e il mio amico. E i figli mi iniziano a raccontare la questione del papà, dell’azienda che non va più bene, che la devono chiudere, la vogliono chiudere, la stanno chiudendo. Intanto il papà rimane in silenzio. A un certo punto, il figlio dice: «In questa situazione abbiamo almeno messo al sicuro la casa del papà», e io dico: «Perfetto». A questo punto interviene il papà, un uomo di oltre sessant’anni, e con gli occhi rossi inizia a dire: «Ma come faccio a spedire la lettera ai fornitori?» (è la lettera con cui si propone un concordato, in cui vengono ripatteggiati i debiti). E poi aggiunge: «Io a questi fornitori regalavo il Volantone, li invitavo ai gesti del movimento… E poi con quello che Carrón ci sta dicendo attraverso la Scuola di comunità, con tutto il lavoro che stiamo facendo, è davvero giusto non vendere la casa per ripagare i debiti?». E io lì sono stato spostato, spostato! Sono stato messo di fronte a qual è il bisogno mio, a che cosa desidero, a che cosa c’è in ballo, tant’è che mi sono
rivolto subito verso i figli domandando: «Ma qual è il nostro bisogno? Che il papà non perda la casa o quello di un uomo che si mette davanti al reale?». Mi sono trovato libero, presente a me stesso. È un avvenimento che riprende me, che all’inizio ero d’accordo di non vendere la casa.
Di uno che dice, in questa situazione: «Ma è giusto non vendere la casa?», noi pensiamo che ci sia arrivato con uno sforzo del senso religioso, che sia matto, o che gli sia successo qualcosa di diverso?

Qualche sera fa ero a cena con un po’ di amici e, a un certo punto, interviene uno di questi figli di cui ha parlato l’intervento precedente e dice: «Mio papà è in difficoltà, allora abbiamo chiesto aiuto a degli amici. Ho fatto tutto il viaggio d’andata pensando a tutti i problemi di mio papà, a come aiutarlo, alla mia agitazione, eccetera. Sono arrivato lì, ho incontrato questi amici, queste
persone, e mai come in quel momento mi sono sentito voluto bene, mi sono sentito abbracciato, tant’è che il viaggio di ritorno l’ho fatto tutto in silenzio e l’unica cosa che dominava nella mia testa era: “Ma questo è stato l’abbraccio di Gesù alla mia vita”. Ecco, io non voglio altro, sono fatto per questo abbraccio». E mi diceva: «Ed era la prima volta in vita mia che dicevo: “Questo è l’abbraccio di Cristo”». Poi ha aggiunto: «Io faccio caritativa da anni, porto il pacco del Banco di
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Solidarietà in una famiglia. Dopo qualche giorno da questo fatto, come sempre, ho portato il pacco a quella famiglia, ma è stata tutta un’altra cosa. Perché mi sono scoperto libero di fronte a quelle persone: e mentre mi scoprivo addosso questa libertà mi sono anche reso conto che io avevo sempre portato il pacco, in fondo in fondo, con una pretesa, come se lo scopo fosse una mia soddisfazione personale. Invece dentro quella libertà io riprendevo coscienza del fatto che io desideravo solo quell’abbraccio, ero fatto per quell’abbraccio. Ma per fare questo, per acquisire questa coscienza di me, io ho dovuto riandare a quell’esperienza fatta alcuni giorni prima».
Un’esperienza presente: nell’incontro con qualcuno succede qualcosa di imprevedibile. E in che cosa posso riconoscere che è successo qualcosa di imprevedibile (cioè che non sia una mia creazione, ma un fatto di fronte alla cui evidenza mi devo arrendere)? Che mi sento libero nel fare anche la caritativa, nell’imparare la gratuità, senza la pretesa di un riscontro. Questo è impossibile
generarlo da noi stessi, non è il prolungamento di un mio tentativo. Il cristianesimo è qualcosa di totalmente diverso: entra qualcosa di nuovo, e basterebbe che noi guardassimo questo per vedere quante volte lo riduciamo al nostro tentativo, senza lasciarci semplicemente spostare da un fatto presente che ci rende liberi.


Qualche settimana fa ho scoperto di essere malato di cancro e mi sono detto: come Giovanni, Andrea e Simone sono stato scelto da Cristo, e in modo decisivo per la seconda volta. Guardando la mia vita, infatti, due sono stati i momenti decisivi per il mio destino, in cui Cristo, attraverso la malattia, venendomi incontro mi si è rivelato. La prima volta che Cristo mi ha chiamato è stato nell’incontro con il movimento in università. A quattordici anni mi ero ammalato di tumore, con
gravi conseguenze fisiche, tant’è che i pochi amici che avevo mi avevano abbandonato. In università sono arrivato accompagnato da un Dio che per me era qualcosa di astratto, ma con dentro un grande desiderio di felicità. Rivoltomi ai “banchetti”allestiti per le matricole, sono stato illuminato dai vostri sguardi che mi hanno accettato per quello che ero; nessuno mi aveva mai guardato in quel modo. Completamente abbagliato e sorpreso, ho cominciato a seguirvi e ho
iniziato il mio cammino nel movimento. La seconda volta, decisiva quanto la prima, è stato l’abbraccio di Cristo di questi giorni. Negli ultimi mesi la mia esistenza si era ridotta a una vita di appartamento sterile e a qualche Scuola di comunità cui partecipavo con poco interesse. Il mio cuore si era assopito, ma mi rendevo conto che aspirava ancora all’infinito e alla verità. E anche qui è intervenuto il Mistero, attraverso la malattia che mi ha risvegliato, facendomi riabbracciare
la presenza viva anche di volti che non sentivo né vedevo da qualche anno. Mi sono detto: Cristo si è commosso e si è mosso per me, mi è venuto incontro. Adesso con il cuore pieno di Cristo, che è qualcosa che mi sta accadendo ora, voglio vivere intensamente il reale: se ce l’ho fatta ad affrontare la malattia a quattordici anni con il sostegno di un Dio che per me era un ente astratto, figuriamoci adesso che posso affidarmi al Mistero rivelato attraverso dei volti!

Grazie!
Grazie a te.

Abbandonato dagli altri, uno sguardo imprevedibile entra nella sua vita attraverso qualcosa di presente. Attenzione, non diamo per scontato questo, perché non si riferisce a una citazione del Vangelo, ma a uno sguardo presente! E ciascuno deve rendersene conto, perché questo è quel che riapre la partita con il cristianesimo, malgrado tutto. Infatti, come posso dare ragione di questo sguardo duemila anni dopo? Perché che uno mi citi un passaggio del Vangelo è comprensibile, ma
che uno si ritrovi addosso lo sguardo di Cristo che lo investe e che lo cambia duemila anni dopo, questa è un’esperienza presente. Se noi non partiamo da qui, non possiamo veramente dire se Cristo è successo o non è successo come un fatto nella storia. Non si tratta di una riflessione sul cristianesimo: il problema del cristianesimo «non è un problema di pareri, di gusti, e (…) di analisi
dell’animo religioso, (…) è un problema storico». La questione è se nel presente accade o no, perché non è un evento soltanto all’inizio (e poi possiamo andare avanti come un meccanismo, con la forza dell’inerzia), altrimenti nessuno si potrebbe dare questo sguardo né potrebbe rigenerarlo. Per questo mi stupisce quando parliamo di questo sguardo senza tenere presente quello che dice don
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Giussani: «Solo il divino può “salvare” l’uomo, cioè le dimensioni vere ed essenziali dell’umana figura». Che noi ci troviamo adesso, duemila anni dopo, con uno sguardo che salva le dimensioni dell’umano, che cosa dice del divino presente? Se noi non cogliamo questo, allora non potremo fare la Scuola di comunità nel modo vero, perché si ridurrà soltanto a riflessioni sul testo, ma non faremo quello che ci propone don Giussani: fare la stessa esperienza degli apostoli. L’esito lo
vedremo alla fine: chi ha fatto commenti sul testo, da una parte, chi ha fatto un percorso dove ha rintracciato dei fatti nel presente (come è successo agli apostoli), dall’altra. L’esito della Scuola di comunità sarà tutto diverso. Con gli stessi ingredienti, come dico sempre, avremo cucinato minestre diverse. E questo si vede nella vita. Per questo focalizzare adesso, in questo momento, dov’è lo
spostamento di metodo è decisivo per cogliere quali sono i connotati che ci consentono di riconoscere quello che rende possibile un avvenimento come il cristianesimo nella storia. Non c’è un metodo per l’inizio del cristianesimo e un altro metodo per il suo sviluppo, ma è lo stesso!
Allora, sì, possiamo compiere in pace lo sviluppo: perché sarà il riaccadere dell’inizio. Ma noi siamo già troppo abituati a sentire parlare dello sguardo come qualcosa di scontato, come fosse qualcosa di ovvio; sentirsi guardati così non è ovvio, è tutto tranne che ovvio!


Per rispondere alla domanda vorrei citare due fatti che mi sono accaduti sul lavoro. Una collega con la quale lavoro ha deciso di chiedere il trasferimento in un altro settore. Quando le ho chiesto perché, mi ha risposto: «Non ti deve interessare. E quando mi incontrerai fuori di qui non salutarmi più e non chiedermi come sto». Il contraccolpo è stato grosso. Io credevo di essere capace nei rapporti a partire dal mio temperamento, e invece ho percepito tutta la mia incapacità e il rifiuto della mia persona. Potevo fare come i miei colleghi, che chiudono la questione, ma a me
questo non bastava. E ho iniziato a chiedermi veramente: ma io dove poggio la mia consistenza? Con questa domanda aperta è successo un altro fatto. Venerdì scorso ho partecipato a un seminario sulla semplificazione amministrativa tenuto da un magistrato. Man mano che lei parlava ero sempre più affascinata dalla sua ragionevolezza, parlava di bene della vita, di affidamento tra pubblica amministrazione e cittadino; inoltre ero affascinata dal modo di porsi rispetto ai
partecipanti. Stava accadendo in me la famosa vibrazione del cuore a cui tu tante volte ci hai richiamato. Così alla fine sono andata a ringraziarla, dicendole che la sua presenza tra i giudici mi confortava e che avevo notato un’apertura di cuore e di mente che era fonte di speranza per me e per i miei figli. È venuta giù dal palchetto dove parlava e mi ha detto: «Mi scusi, mi può ripetere queste parole?», e io ho ripetuto: «Apertura di mente e di cuore». E lei: «Nessuno mi ha detto una
cosa così, e io l’ho tanto desiderata... Mi scusi, ma io la devo abbracciare». Allora le ho chiesto: «Le posso fare una domanda? Ma lei è cristiana?».
«Sì». «Scusi, ma adesso la devo abbracciare io». C’era nella sala ormai svuotata una mia amica, e con il cuore che stava scoppiano inizio a chiamarla urlando perché volevo che venisse a vedere ciò che stava accadendo lì, in quell’incontro
fra me e il magistrato. Con quella domanda aperta ho riconosciuto i tratti fondamentali di Gesù.
Dopo questi fatti stasera sono venuta qui perché non mi bastava scriverti, volevo vederti perché sono commossa e grata per la tua paternità in questo momento così decisivo. L’esperienza della fede, ossia dell’abbraccio amoroso di Gesù, rinnova quella presa di coscienza tenera e appassionata di me stessa che mi fa accorgere del mio vero bisogno. E da quando è iniziato il lavoro della Scuola di comunità in collegamento non hai mai perso occasione per sfidarmi a verificare la convenienza umana della fede. Io ho deciso di accettare la tua sfida. Grazie.
Grazie. «Nessuno mi ha detto una cosa così». È quel che dicevano i discepoli, mai avevano visto una cosa simile. Ma la dice duemila anni dopo! Non dimenticatevi di questo.

Stavo chiacchierando con mia figlia perché c’è una cosa che mi preme tantissimo: di metterla in guardia dal fatto di andare dietro alla moda (per esempio i ragazzi sono presissimi da certi vestiti, e allora tutti dietro senza ragionare). Questa è una cosa che a me urge da morire, allora cercavo di sfidare lei che ha dodici anni dicendo: «Ma a te piace veramente quella roba oppure ti piace solo perché è di “quella” marca? Corrisponde a te o corrisponde a ciò che il mondo ti dice? Perché
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altrimenti arriverai a pensare come pensa il mondo». E lì è accaduta una cosa grandiosa – i ragazzi hanno un rapporto più limpido con la realtà e con il Mistero –, perché lei mi ha detto: «Ma tu non vuoi che ragioni come il mondo perché vuoi che ragioni come te?». È stata geniale.
Non ce la risparmiano!
Esatto. Ed è lì l’avvenimento: che lei ha un cuore irriducibile. Io le ho detto: «No, è aberrante per me che io ti proponga di pensarla come me invece che come il mondo». E lì mi sono accorta del capovolgimento, perché sono stata in silenzio; qualsiasi parola in più io le avessi detto sarebbe stato come invitarla a costruire quel ponte con cui ci illudiamo di giungere al Mistero. E mi sono
accorta del capovolgimento proprio perché per me non è stato l’invitarla a dove vado io, ma a metterci di fronte al gesto puro della libertà che accetta o rifiuta che la Presenza si riveli.
Grazie.

Una cosa che mi ha proprio sorpreso nell’ultimo periodo è che dentro l’esperienza c’è già tutto. Dire questa cosa mi commuove perché pensavo di saperla, l’ho sentita dire tante volte dal Gius, e nella mia esperienza io stessa l’ho detto tante volte. Ma è come se si fosse riaperto il percorso di conoscenza di questo.
Il che vuol dire che non c’era tutto nell’esperienza.
Non c’era. Un fatto mi ha aiutato a capire questa cosa che per me è sorprendente, perché si capisce che a un certo punto tu riparti, ricominci a vivere. Insegno religione alle elementari, adesso siamo in periodo di Pasqua e ho chiesto ai miei alunni di quinta: «A Pasqua cosa succede?». «Che Gesù risorge». «E cosa vuol dire?». Quest’anno la loro risposta mi ha disarmato, nel senso che mi hanno
guardato e mi hanno detto: «Vuol dire che c’è, ma non si vede». E ho pensato: caspita, ma come è possibile che invece io questa cosa la veda oggi, nel presente? Così mi sono messa dentro un lavoro insieme a loro, perché se io non avessi avuto quelle facce lì davanti a me, se non avessi sentito le tue parole, se non vedessi e non avessi visto tutto quello che ho visto in questi ultimi due anni, io non avrei potuto riprendere con loro questa cosa. Di cosa mi sono accorta? Che la mia
ragione era diventata fragile, attaccata alla forma, per cui io continuavo a ripetere: «Sì, Gesù è risorto». Perfetto, ma non aveva incidenza sul reale. Cosa mi sono ritrovata a dire oggi? Perché, quindi, vedo che quello che ci diciamo semplifica la mia vita, che la rende più lieta e più vera?
Perché possiedo la mia esperienza, la mia esperienza come cammino di conoscenza. Per cui i bambini alla fine parlavano dei tratti inconfondibili di Gesù, oggi, nel presente. Questa cosa mi ha fatto dire: se non ci fosse quello che c’è, se Lui non ci fosse, se non fosse presente ora, non si capirebbe quel che dice il Volantone. Nel 1988 mi aveva talmente colpito che l’avevo attaccato alla parete, ma mi ero come fermata alla frase: «Quello che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso», non avevo continuato: «Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui». Oggi, se dovessi dire che cos’è , direi tutto ciò che da Lui viene la Sua presenza presente, questa storia che c’è ora. Vedo che questo cambia completamente tutto.
Grazie.

Una cosa breve, ma che mi capita mille volte in un giorno. Di fronte alla realtà parto sempre da un’analisi, l’analisi di chi mi sta davanti che magari mi parla di un problema oppure della situazione di un problema da risolvere nella realtà oppure, più spesso ancora, su di me da un’analisi per risolvere, per migliorare, per cambiare, per non ricadere. E giro sempre lì, a volte trovo la soluzione, come tutti. La cosa che mi colpisce è che basta una Scuola di comunità qui,
basta a volte anche riprendere il libro di Scuola di comunità, e improvvisamente tutta l’analisi è come se si sciogliesse. È macroscopico, per esempio, agli Esercizi della Fraternità: la risposta a tutti i problemi che io ho è molto più pertinente di tutta la mia analisi, anche se non si parla direttamente di quei problemi, e allora tutto si sblocca improvvisamente (cosa che io non riuscirei mai a raggiungere con tutte le mie analisi).
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Quando rileggeremo il testo con in mente quel che abbiamo ascoltato stasera saremo facilitati a riconoscere tutti i segni che don Giussani ci indica. Per aiutare faccio l’elenco, perché ciascuno possa fare il paragone. Primo tratto: non una riflessione come nel senso religioso, ma un’esperienza presente in cui uno si imbatte (abbiamo sentito stasera uno che si imbatte in un uomo che è disponibile a vendere la casa per ripagare i debiti, un altro si imbatte nel presente in uno sguardo diverso che attendeva da sempre, un altro ancora si imbatte in un gesto dove la vita viene recuperata). Secondo tratto: un’evidenza facile, perfino per i bambini. Terzo tratto (quello che diceva l’ultimo intervento): non l’esito di un’analisi, ma un riconoscimento, perché tutto il tentativo analitico non ci dà neanche un istante di quel riconoscimento. Quarto tratto: dunque è un amore, e
uno si lega, come i discepoli si incollavano a Lui. Quinto tratto: ne nasce un’obbedienza non in senso moralistico, bensì un’obbedienza libera per non perderLo (i discepoli, per il fatto che erano colpiti, non obbedivano come la massa ai loro capi, erano liberi); si vede che è successo qualcosa perché tu devi prendere posizione. Ma mi domando: quanti di noi, lavorando su queste pagine, sono
stati costretti a dover decidere davanti a qualcosa che era accaduto? Dice il testo: «Certi richiami (…) per la loro radicalità (…) non possono essere eliminati, censurati. [Tanto è vero che] l’uomo è costretto a dire sì, oppure no». Lo abbiamo sentito prima, nel canto sul giovane ricco: non occorre dire “sì”, può essere anche un “no”, ma una risposta sei costretto a darla. Devi, mentre tante volte
passiamo settimane senza decidere davanti a qualcosa. Perché dobbiamo? Perché siamo costretti? Perché – lo dice don Giussani in diversi modi – è una Presenza assolutamente irriducibile quella con cui ci scontriamo, non è fagocitabile, non la possiamo assimilare come se fosse cibo, no! Per questo tante volte sperimentiamo questa resistenza o un disagio davanti a questa Presenza, e ci
scandalizziamo di questo. Io invece mi esalto, perché dico: è il segno che stiamo davanti a qualcosa di irriducibile. Di quanto tempo abbiamo bisogno per arrenderci all’evidenza non è una questione fondamentale, il problema è che siamo davanti a qualcosa di irriducibile, perché questa è la nostra salvezza. Paradossalmente questa è la nostra salvezza, perché il giorno che lo potessimo far diventare nostro saremmo da soli con la nostra impotenza, da soli come cani con il nostro niente.
Che ci troviamo davanti a qualcosa di irriducibile – irriducibile come il Volantone di Pasqua – è la possibilità per noi. Perché qual è la questione? Che un fatto ha la sua inevitabilità, dice Giussani. Sembra niente, ma Gesù è diventato carne come un fatto irriducibile, come una presenza. Per questo non c’è volta che il don Gius non parli dell’Incarnazione, di Dio fatto uomo nato da una donna, qualcosa di irriducibile a un pensiero, a un gusto, a un’immagine, a un sentimento. Questa è la
nostra speranza, la nostra unica possibilità. E davanti a questo uno può resistere o può accettare; ma si rende conto che se la gioca tutta: senza riconoscere quello sguardo che mi rende me stesso, io dovrei rinunciare a essere me stesso, ne sarei impedito. Ma allora chiediamoci: quante volte ho sentito in questo mese l’urgenza, dentro di me, di decidere su tutto il mio essere umano, su tutta la
mia umanità, su tutta la possibilità del mio compimento? Per questo don Giussani ci dice che si può essere convinti di vivere da cristiani senza che il problema sia stato veramente risolto per la propria persona, perché lo possiamo rimandare, lo possiamo eludere in tanti modi, lo sappiamo benissimo, noi siamo maestri nell’arte di questo (abbiamo una grande capacità immaginativa), anche facendo cose pur giuste, opere o altro, ma eludendo la vera questione. Il Volantone di Pasqua – per questo
l’abbiamo scelto – è una sfida totale: è l’invito a stare davanti a qualcosa di irriducibile. Quello che celebriamo nella Pasqua è proprio questa irriducibilità: vediamo tutta la resistenza degli uomini e nostra che porta Cristo alla morte. Ma Lui rimane inesorabilmente, presente perché è irriducibile anche ai nostri tentativi, e questa è la nostra speranza. Per questo chiediamo di poter stare davanti a questa irriducibilità presente senza la quale non c’è speranza.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 23 maggio alle ore 21,30. Riprenderemo insieme la prima parte degli Esercizi della Fraternità.
Durante la Settimana Santa la Chiesa ci propone dei gesti proprio per mettere davanti ai nostri occhi quello che dicevamo adesso. La Scuola di comunità di quest’anno è un aiuto particolarmente a
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immedesimarci con più consapevolezza personale con quello che Gesù ha vissuto in questi giorni: tutta la nostra resistenza, tutto il nostro rifiuto, tutto il rifiuto del mondo. Ma neanche questo lo ha potuto far fuori, non siamo riusciti a farlo fuori perché è risorto e continua ad aprire la partita con ciascuno di noi attraverso la modalità con cui Lui ci raggiunge. È per questa gratitudine che noi
vogliamo celebrare con tutto noi stessi questa festa, per ringraziare Cristo della Sua fedeltà e per domandarGli di farla finita con la nostra testardaggine.
Il numero di aprile di Tracce avrà come Pagina Uno la sintesi dell’Assemblea responsabili che si è tenuta a Pacengo di Lazise all’inizio di questo mese. Vi invito a leggerla e riprenderla, perché è un giudizio sul momento storico che stiamo vivendo.
Il Libro del mese per aprile è: Attila. La tempesta dall’Oriente, di Louis De Wohl.
Di questo romanzo vi segnalo in particolare il dialogo dell’imperatore Valentiniano con papa Leone – nell’imminenza dell’arrivo di Attila a Roma –, che evidenzia la coscienza che il Papa aveva della natura e del compito della Chiesa, di questa presenza assolutamente irriducibile a nessun potere.
Vi ricordo che gli Esercizi della Fraternità inizieranno con la cena alle ore 19,00 per poter cominciare in salone alle ore 21,00.

Veni Sancte Spiritus

Buona Pasqua a tutti!

sabato 24 marzo 2012

L’incontro come Grazia


Che cosa è l’uomo mortale, perché Tu ti ricordi di lui, il figlio di Adamo, perché Tu te ne prenda cura?» (Sal 8, 5).
«Mosè disse a Dio: Ma chi sono io?» (Es 3, 11).
«E io dissi: Ah, Signore Jahvè, vedi non sono neppure capace di parlare; io non sono che un ragazzo!» (Ger 1, 6).
«Signore..., io non sono degno che tu entri in casa mia...» (Lc 7, 6).
È la coscienza della gratuità assoluta degli interventi di Dio nella storia ch’è il valore più puro e obiettivo della vita cristiana. Perché non esiste verità più grande e dolce ed esaltante: gli incontri, che Egli ha creati per far parte del Suo regno gli uomini – noi! – sono dono altamente puro, che la nostra natura non avrebbe neanche potuto immaginare, prevedere: dono puro al di sopra di ogni capacità della nostra vita, «Grazia».
Gesù Cristo nel suo Corpo Mistico riassume tutto questo regno della «Grazia», della soprannaturale bontà della potenza di Dio. Come fu Grazia per gli ebrei di duemila anni fa l’esistenza fra loro di Gesù di Nazareth e l’incontrarLo per la strada, è la stessa Grazia per gli uomini di oggi l’esistenza della Chiesa nel mondo e l’incontrarLa nella loro società.

E non solo il fatto dell’incontro, ma anche la capacità di intenderne il richiamo è dono di Grazia:
«... Tu sei beato, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’han rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli» (Mt 16,17).
«... In quel tempo disse Gesù: “Io ti rendo lode o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così ti è piaciuto. Ogni cosa mi è stata data dal Padre mio, e nessuno conosce perfettamente il Figlio tranne il Padre; e nessuno conosce perfettamente il Padre tranne il Figlio e colui al quale il Figlio avrà voluto rivelarlo...”» (Mt 11, 25-27). «... Egli rispose loro: Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli: a essi invece non è dato...» (Mt 13, 11).

E la stessa capacità di verificare questo richiamo, di riconoscere il valore è dono di Grazia. «... E io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga in eterno con voi, lo Spirito cioè di verità, che il mondo non può ricevere, perché non lo vede né lo conosce; ma voi lo conoscerete, perché dimorerà in voi e sarà in voi...» (Gv 14, 16-17).
«... Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà in mio nome, Egli vi insegnerà ogni cosa e vi suggerirà tutto ciò che io vi ho detto...» (Gv 14, 26).
«... Io ho manifestato il Tuo nome agli uomini che mi hai dato nel mondo; erano tuoi e Tu me li hai dati ed essi hanno conservata la Tua parola. Ora riconoscono che tutto quanto Tu mi hai dato viene da Te...» (Gv 17, 6-7).
«... Lo Spirito stesso attesta allo spirito nostro che siamo figli di Dio» (Rm 8, 16).

E la capacità di aderire e di realizzare la proposta cristiana è dono di Grazia: «... Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto Egli lo recide e ogni tralcio che porta frutto lo rimonda, perché ne produca anche più. Voi siete già mondati dalla parola che vi ho annunziata. Restate in me e io resterò in voi. Come il tralcio non può portare frutto da sé medesimo, se non rimane nella vite, così neppure voi se non rimanete in me. Io sono la vite, e voi i tralci. Colui che rimane in me e io in lui porta abbondanti frutti, perché, senza di me, non potete far nulla» (Gv 15, 1-5).
«... Così parlò Gesù. Poi elevati gli occhi al cielo disse: “Padre, l’ora è venuta: glorifica il Tuo figliolo affinché il Tuo figliolo glorifichi Te; come Tu gli hai dato ogni potere sopra ogni carne, affinché dia la vita eterna a tutti coloro che Tu gli hai dato. E la vita eterna è questa, che conoscano Te solo vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo”» (Gv 17, 1-3).
«... Io ho fatto loro conoscere il Tuo nome e lo farò conoscere affinché l’amore con cui mi hai amato sia in essi e io in loro» (Gv 17, 26).
Perché la mente e il cuore dell’uomo non sono mai adeguati ai passi che Dio fa verso di lui: la stessa soprannaturale bontà che fa assumere al mistero di Dio «forma di servo e figura d’uomo» (san Paolo) in Cristo e nella Chiesa, proporziona anche lo spirito e la sensibilità dell’uomo a queste meraviglie, altrimenti esse rimarrebbero come luce per un cieco o parole per un sordo, come per i nostri orecchi gli ultrasuoni, che sono come il silenzio.
Anche l’incontro, dunque, con quel brano di Chiesa che è la comunità cristiana dell’ambiente in cui ci si trova è «Grazia», è un dono della potenza di Dio. E occorre la Grazia anche per intendere il richiamo di coloro che ne fanno parte e di chi guida, e per impegnarsi a verificare questo loro richiamo e per aderire ed essere fedeli alla loro proposta.A questo punto possiamo capire quale sia l’espressione di una vera disponibilità e impegno di fronte al richiamo cristiano: è l’atteggiamento di domanda, di preghiera. La norma dell’incontro cristiano rende immediatamente consapevole l’uomo sincero della sproporzione fra le sue forze e i termini stessi della proposta, consapevole della eccezionalità del problema posto da un simile messaggio. Il senso della propria originale dipendenza, che è l’aspetto più elementare della religiosità naturale, dispone perciò l’animo semplice a riconoscere che tutta l’iniziativa può essere del mistero di Dio, e l’atteggiamento ultimo da assumere è quello umile di chi chiede di vedere, di capire, e di aderire. È talmente fondamentale questo atteggiamento di preghiera che esso è proprio tanto ai credenti che a chi ancora non crede, tanto a Pietro che esclama: «Credo, Signore, ma aumenta la mia fede», quanto all’Innominato che grida: «Dio, se ci sei, rivelati a me».Una disponibilità e un impegno col fatto cristiano che non si traducano in domanda, in «preghiera», non sono sufficientemente veri perché non badano con intelligente lealtà a ciò che significa la proposta che si è chiamati a verificare: «Viene l’ora che chiunque vi uccide crederà di rendere culto a Dio. E faranno questo perché non hanno conosciuto né il Padre né me» (Gv 16, 2-3).

Questo della domanda e della preghiera è il punto in cui la coscienza dell’uomo inizia la sua partecipazione al mistero di Colui che lo crea. E il nostro spirito sente quindi le vertigini di questo Mistero che tutto, assolutamente tutto fa, quando riflette che anche questa iniziale attività di domanda e di preghiera è resa possibile solo da un dono del Creatore: «Nessuno può dire: Signore Gesù, se non nello Spirito Santo» (1Cor 12, 3). «Lo Spirito Santo sostiene la nostra debolezza perché noi non sappiamo né cosa si ha da chiedere nella preghiera, né come convenga chiederlo; ma lo Spirito in persona intercede per noi con gemiti inesprimibili» (Rm 8, 26).
La liturgia della Chiesa ci educa a guardare questa iniziativa ineffabilmente profonda di Dio su di noi quando ci fa dire: «I nostri voti, Signore, che tu prevenendoci ci ispiri, degnati poi di accompagnarli con il tuo aiuto».


Anche l’incontro e l’impegno con la più umile comunità cristiana d’ambiente, fatta da solita gente, non si liberano da una impurità che altera giudizi e rapporti, se non sono accolti in quella disponibilità umile e attiva – vigile – del cuore, che è genuino, anche se embrionale, vago e confuso, impeto di preghiera.

Un brano di don Luigi Giussani tratto da Appunti di metodo cristiano, libro edito a Milano da Gioventù studentesca nel settembre 1964, con il nihil obstat di monsignor Carlo Figini e l’imprimatur della Curia ambrosiana, e dedicato a Paolo VI con queste parole: «Al Papa dell’Ecclesiam Suam come espressione del meditato e fedele tentativo dei suoi studenti di Milano»

mercoledì 21 marzo 2012

Fine o inizio?

Il quarto e ultimo gesto di catechesi con l’arcivescovo Angelo Scola, in preparazione della Pasqua. «Cristo è padrone di ogni dolore». Cosa vuol dire questo per noi? «Che in ogni relazione il sacrificio non annulla il possesso, lo potenzia»

Nelle ultime tre stazioni della Via Crucis, Gesù muore in croce, è deposto e messo nel sepolcro. Sembra la fine di tutto, ma è davvero così? «Immedesimiamoci con il quadro che abbiamo davanti, la Crocefissione di Mosè Bianchi. Cosa vediamo?», domanda l’arcivescovo Angelo Scola nell’ultimo incontro dell’Itinerario di Quaresima. «Un corpo teso nell’ultimo spasimo della morte, le braccia aperte nel gesto d’implorazione, il volto non reclinato, ma proteso verso il Padre. Questo è l’abbandono estremo di sé». Poi lo sguardo si sposta sulla figura di Maria Maddalena che sta ai piedi della croce: «Il corpo chiuso in se stesso, le mani sugli occhi per non vedere lo strazio dell’Amato: è un abbandono che diventa estrema desolazione. In lei c’è tutta la tragedia della fine. In Gesù tutta la speranza certa dell’inizio». Continua Scola: «Abbiamo seguito la Croce fino a qui, come Maria Maddalena, con il cuore piegato dal dolore per i nostri peccati. Ora decidiamo di seguirLo con la massima consapevolezza, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Cristo, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo».

«Gesù disse: È compiuto! E chinato il capo, consegnò lo spirito», dice il Vangelo di Giovanni. Gesù muore in croce. Rebora descrive così quel momento: Immobile è tutto, un istante che è eterno. Solo si muove l’inesausto amor del Signore. «Dopo duemila anni, questo amore raggiunge noi qui, oggi, e tutti gli uomini», sottolinea Scola: «Il Figlio è trafitto dall’orrore di queste tenebre. Patisce la nostra intima lontananza da Dio. A Lui questa lontananza non era affatto famigliare (come invece spesso è per noi), era quanto di più estraneo potesse capitargli. Solo il Figlio fattosi uomo sa cosa possa significare perdere un padre. Si porta il lutto fin nell’intimo del suo cuore. Ma l’amore di Dio è così ricco che può assumere anche questa forma di oscurità, e assumerla per amore del nostro oscuro mondo». Giovanni parla della morte di Cristo come di una consegna: «Consegnò lo spirito». È il dono supremo. «Amici, contemplando il Crocefisso», commenta Scola, «impariamo il significato del sacrificio, parola che noi vorremmo evitare sempre. Eppure non è una condanna, ma diventa la condizione dell’amore vero che libera l’altro, non che lo lega. Solo passando dal cuore di Cristo trafitto noi possiamo conoscere il Suo amore. Questo inesausto amore potrebbe cambiare il nostro sguardo sui nostri affetti feriti, sui nostri cari ammalati, soprattutto su quelli che si trovano in stato terminale».

Il silenzio del Sabato Santo è il momento di «massima distanza». Gesù viene deposto dalla croce. Rilke commentando il mistero di questo istante dice che Gesù è «padrone dei dolori». «È proprio così», commenta Scola: «A Lui appartiene ogni sofferenza e dolore degli uomini, perché li ha acquistati con il prezzo della sua vita». Il silenzio del sepolcro dice «l’universale solidarietà del Crocefisso: non c’è spazio né tempo che non siano attraversati e redenti dal Signore. Non c’è persona che rimanga esclusa. Di più. In Lui l’uomo è posto nella condizione di capire che la gratuità è la legge di ogni rapporto. Perché è la gratuità che rende stabile ogni rapporto». E continua: «Cosa vuol dire questo per noi? Che in tutte le relazioni, da quelle più intime e costitutive – tra lo sposo e la sposa, tra genitori e figli -, a quelle tra amici, compagni di lavoro, fino a quelle domandate dalla ricerca del bene comune e dell’edificazione della civiltà della verità e dell’amore, il sacrificio non annulla il possesso che l’amore genera. Anzi è la condizione che lo potenzia. L’amore è dono di sé e non può esistere se vogliamo sottrarci alla croce».

Gesù viene deposto nel sepolcro. Giovani spiega che «presero il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi». Nel versetto precedente aveva parlato di una gran quantità «di mirra e aloe». Benedetto XVI, nel secondo volume di Gesù di Nazaret, scrive che la sepoltura di Gesù è regale: «Il genere della Sua sepoltura lo manifesta come re. Nei momenti in cui tutto sembra finito, emerge in modo misterioso la Sua gloria». «Chi non riconosce la grandezza del Crocefisso?», domanda Scola: «Ciò che fa problema è riconoscere Cristo risorto qui e ora. Eppure è solo la Sua dolce presenza, vivente in mezzo a noi, che ci ha convocato qui a pregare insieme. Lui ci ha rassicurati: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”». Continua: «Gesù, che ogni giorno e in tutti i luoghi si offre a noi nell’Eucarestia, modella le nostre esistenze secondo la “forma” della Sua esistenza: una vira grata, donata, salvata per salvare». Sine dominico non possumus: lo dissero i martiri di Abitene di fronte al divieto di Diocleziano a celebrare la Messa. «Possiamo ripeterlo anche noi con sempre maggior consapevolezza. Riprendiamo, in questo tempo santo che ci separa dalla Pasqua, la bella tradizione di partecipare alla Santa Messa quotidiana. L’Eucarestia è il gesto di preghiera per eccellenza, scuola di preghiera e di vita, paradigma dell’esistenza cristiana. È germoglio di Resurrezione».

Infine, l’Arcivescovo propone un nuovo appuntamento: martedì 27 marzo, risponderà (via tv, radio e web) a tutte le domande che i fedeli hanno inviato, sul percorso fatto insieme in questi quattro gesti lungo la Via della Croce. Il dialogo sarà trasmesso alle 21 da Telenova, Radio Marconi e www.chiesadimilano.it.
Il cammino non finisce, come ricordato ieri l'Arcivescovo nella preghiera conclusiva: «Concedici, o Signore, di conoscerTi, come i discepoli di Emmaus, risorto e vivo, gustando la Tua compagnia e annunciandola instancabilmente, con l’entusiasmo e l’audacia dei primi, a tutti i nostri fratelli uomini».

di Francesca Mortaro - www.tracce.it

sabato 17 marzo 2012

«Nel sacrificio, tutto diventa vero»

15/03/2012 - Il terzo incontro della catechesi dell’Arcivescovo di Milano, Angelo Scola, in preparazione alla Pasqua. La meditazione continua sulla Via del Calvario, fino alla crocefissione. «L'ultima parola sulla vita dell'uomo non è più la morte»

«Stasera vogliamo percorrere la strada in cui Lui ci amò fino alla fine. Vogliamo prostrarci ai Suoi piedi, come la Maddalena nel dipinto di Hayez». Così l’arcivescovo Angelo Scola apre il terzo appuntamento dell’itinerario di Quaresima nel Duomo di Milano: «La morte di Gesù vince la nostra comune morte. Stiamo ai piedi della Croce come quella donna e chiediamo a Lui di compiere l’esperienza vera dell’amore nel rapporto con Dio, con il prossimo e con noi stessi». La meditazione si concentra su Gesù che incontra le donne di Gerusalemme, cade la terza volta, è spogliato delle vesti e viene inchiodato alla croce. I testi di Mario Luzi, Olivier Clément, Georges Bernanos e Thomas Stearns Eliot, aiutano «il nostro cammino a farsi preghiera».

Gesù incontra, sulla Via del Calvario, le donne di Gerusalemme che si battevano il petto. «Ma voltandosi verso di loro disse: "Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli"», spiega Scola, «il testo biblico potrebbe riferirsi ad un’usanza propria delle donne aristocratiche di Gerusalemme, di preparare bevande calmanti e di porgerle ai condannati, in un gesto di materna compassione». Ma Gesù le richiama. «Lui, stremato lungo la Via Dolorosa, ha la forza per correggere il loro pianto, e anche il nostro, che è fatto di distrazione. Apre alla compassione e supera la parte sentimentale e istintiva». E continua: «Non possiamo volgere lo sguardo a Gesù senza la coscienza di essere peccatori. Troppo spesso le nostre giornate sono segnate dalla distrazione, dalla dimenticanza, il nostro cuore così è arido e imperturbabile. Signore, donaci le lacrime che sciolgono la colpa e il pianto che merita il perdono. Insegnaci a chiamare per nome il nostro peccato». Come avranno reagito le donne al richiamo di Gesù? Eliot traduce il loro sgomento: «Dio ha sempre lasciato una speranza, uno scopo. Ma, adesso, siamo macchiate da un terrore nuovo. Ora ci ha abbandonato». «Anche Lui sulla Croce ha gridato queste parole. Ma ha accettato di sperimentare il dolore della separazione con il Padre amato», commenta l’Arcivescovo, «si è abbassato volontariamente a fare, in nostro favore, l’esperienza del dolore e della sofferenza più radicale: la perdita dell’Amore». Scola invita a compiere, in questo «benedetto» tempo di Quaresima, un piccolo atto di pietà: «Prendiamo fisicamente in mano il crocefisso. Il Suo sguardo ci muoverà a riconoscere il nostro peccato».

Cade per la terza volta. «Si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca. Il suo silenzio è insolito. "Fu eliminato dalla terra dei viventi", dice Isaia. È la solitudine più radicale, il Crocefisso è il più emarginato degli uomini». La terza caduta, per il peso che aveva sulle spalle, dice di quanto sia grave la Sua solitudine: «L’uomo abbandonato a se stesso non può che rimanere schiacciato dal peso del male. Ma Gesù accetta di essere schiacciato. Mentre noi ci ribelliamo, Lui è paziente». Aggiunge Scola: «Così fanno anche i martiri. Ricordiamo il martirio dei nostri fratelli cristiani perseguitati, in troppe parti del mondo, per la verità e per la giustizia. Noi ci scandalizziamo di fronte alla "strana necessità del sacrificio".
Eppure è nel sacrificio che tutto diventa vero». Il Vangelo di Giovani racconta che «quando ebbero crocefisso Gesù, presero le sue vesti, e la tunica». Il Signore viene spogliato. «La Sua nudità», commenta Scola, «ci riporta alla nudità del primo Adamo. Ma c’è una radicale differenza. Non siamo più di fronte ad all’innocenza originaria dove il corpo risplendeva in tutta la sua natura relazionale, come segno di comunione con Dio e con l’altro. L’uomo era nudo perché nulla nascondeva la sua verità, il rapporto con il Creatore. Ora, invece, dopo la rottura della relazione costitutiva con Dio, la nudità, ferita mortalmente da quella perdita, soffre e si vergogna». L’uomo oggi sembra accettare e nascondere questa vergogna, ma le «posture originarie dell’io», non si strappano via. Nel Giorno del Giudizio «saremo nudi davanti a Dio», sottolinea Scola, «l’umiliazione del Crocefisso testimonia che senza la verità legittimata dall’amore, alla lunga, non viene rispettata la dignità di ogni uomo e di ogni donna. In tempi come i nostri è grande la tentazione di dire "addio alla verità" per accomodarsi in una sorta di "rassegnazione gaia"». Poi un invito, soprattutto per i fedeli laici, ad edificare, anche in questa società così plurale, la civiltà della verità e dell’amore.

«Poi lo crocefissero». Gli evangelisti lo descrivono con termini sobri, senza quella «spettacolarizzazione del dolore, purtroppo così abituale per la comunicazione massmediatica di oggi». Non servono tante parole. Il corpo del Signore si lascia morire sulla Croce: «Fa esplodere la consapevolezza del male mortale», spiega l’Arcivescovo, «oggi non si sente più questa consapevolezza. Una delle censure più pesanti della mentalità dominante è quella che riguarda il riconoscimento del proprio peccato. Tutt’al più, quando il disagio diventa incontenibile, se ne tollera un travestimento. Chi ha coscienza del proprio peccato, invece, prova dolore davanti all’amore del Crocefisso e da Lui mendica la liberazione dal male». Bernanos descrive la sofferenza dell’Innocente: «La Terra e l’Inferno non hanno potuto andare più in là di quella birbanteria». Nella morte di Cristo è vinta la nostra comune morte.
«L’ultima parola sulla vita dell’uomo allora non è più la morte», conclude Scola, «ma la gloria del Crocefisso risorto».
di Francesca Mortaro

Per dirgli «caro»



Chi ci legge da un po’, lo sa. All’accostarsi della Pasqua - come del Natale -, la copertina di Tracce è dedicata a quello che Comunione e Liberazione chiama «il Volantone». Immagine e frasi che il movimento diffonde ovunque, per dire a chiunque in maniera sintetica e potente che cosa ci sta a cuore in questa circostanza storica, che significato hanno per noi e per la proposta che portiamo al mondo i momenti più forti dell’anno. Accade dal 1982, trent’anni esatti. E ogni anno c’è un’attesa profonda, acuta, di conoscere volti e parole destinate a farci compagnia nei prossimi giorni, nella quotidianità del lavoro, nei rapporti con i colleghi, tra le pareti di casa.
Bene: quest’anno, la sorpresa è doppia. Perché la frase del manifesto che avete visto in copertina è già uscita, esattamente nel 1988. E ha segnato a tal punto la nostra storia che don Giussani la volle nel “Volantone permanente” di Cl, quello che esprime in qualche modo la natura stessa del movimento. L’avete già letta, quindi. E quell’espressione, «ciò che abbiamo di più caro», è così incisiva ed efficace da essere stata usata, anche di recente, in alcuni passaggi cruciali della nostra vita: incontri, lezioni, documenti. Perché, allora, riproporla adesso?

Togliamo di mezzo un equivoco possibile: non si tratta di una ricorrenza. Certo, sono trent’anni dal riconoscimento pontificio della Fraternità di Cl. Ed è un momento storico, perché a sette anni dalla morte - come potrete leggere - ha preso il via la causa di beatificazione e canonizzazione di don Giussani. Ma non si tratta di rievocare né celebrare nulla. Il punto è che quel Volantone descrive l’oggi. Esprime l’urgenza di oggi.
È adesso che è urgente. Oggi che crisi e difficoltà mostrano ancora di più come sia arduo e arido vivere da uomini «dopo Gesù, senza Gesù», come scriveva Péguy. Oggi che Benedetto XVI ha proclamato un «anno della fede» per richiamare il suo popolo a non partire dalle conseguenze etiche, sociali, civili dando per scontata l’origine della fede stessa: Cristo. Oggi che la proposta educativa del movimento - quella Scuola di comunità che sta riprendendo in mano All’origine della pretesa cristiana, il testo in cui don Giussani va al cuore dell’avvenimento di Cristo - sta rimettendo tutti, noi e i nostri fratelli uomini, davanti alla drammatica domanda di Dostoevskij che campeggiava sulla copertina dell’ultimo Tracce: un uomo di oggi «può credere proprio» alla divinità di Gesù Cristo?
La nostra vita dipende da quella risposta (come si vede benissimo nell’intervista a Sandro Lombardi, uno dei maggiori attori italiani). Risposta non teorica, ma drammatica. Perché a sfidarci non è una formula astratta, un discorso ripetuto, ma un fatto. Qualcosa che la Pasqua rimette davanti a tutti: la Sua Resurrezione. Ovvero, la Sua Presenza qui e ora.

Se riproponiamo il “Volantone permanente” è perché è Cristo a permanere, «centro del cosmo e della storia», come diceva il beato Giovanni Paolo II. Con la Resurrezione ha conquistato la storia una volta per tutte. L’ha già fatta Sua, per sempre. Ha già cambiato i connotati di tempo e spazio. Eppure, proprio per l’affezione che ha per noi, per la tenerezza che ha per ogni istante di ogni giornata di ognuno di noi, ci sfida ora. Permette alla nostra libertà di poterLo riconoscere ora, in ogni istante di ogni giornata.
Permane, per sempre. E insieme accade, ora. Perché diventi nostro. Perché possiamo dirgli «caro».

sabato 10 marzo 2012

ALL'ORIGINE DELLA PRETESA CRISTIANA/ Fare il ritratto a Dio




02/03/2012 - Occorreva che Dio si facesse carne perché imparassimo a credere alle cose della carne. Si è fatto uomo perché imparassimo a credere nell'uomo. Lo scrittore Alessandro D'Avenia si confronta con il percorso della Scuola di comunità


In una classe elementare c'è una bambina di sei anni che non presta mai attenzione, tranne che quando si disegna. Quando viene il momento di disegnare la bimba è capace di acciambellarsi sul foglio lasciando tutto il resto del mondo fuori. La maestra le chiede cosa stia disegnando e la bambina senza guardarla, ma continuando a disegnare le risponde: «Sto disegnando un ritratto di Dio». La maestra, stupita commenta: «Ma nessuno sa a cosa somigli Dio». La bambina risponde: «Lo saprà fra un minuto».

Questa storia mi sembra rappresenti magnificamente l'introduzione al percorso sul senso religioso. Questa bambina cerca Dio e lo fa attraverso il suo talento: il disegno. Il resto non le interessa. E lei sa che può riuscire a ritrarre Dio, a dispetto della diffidenza della maestra. Il senso religioso di quella bambina è vivo e autentico. Lei crede, perché crede nel disegnare e nel disegnare pone le domande ultime di ogni cuore umano.

«Se vi ho parlato delle cose terrene e non credete, come crederete se vi parlerò delle cose celesti?» (Gv 3.12). Non c'è frase del vangelo che forse io ami di più di questa. Non c'è frase del vangelo che spieghi meglio di ogni altra cosa sia il senso religioso. Come dice la stessa parola si tratta di un vero e proprio senso, come i cinque sensi, ma con il pregio di riunificare in uno spazio unico: sensi, cuore, mente. Gesù si lamenta con i suoi interlocutori della loro incapacità di credere alle cose della terra, prima ancora di quelle del cielo, e della impossibilità di spiegare quelle del cielo senza aver prima creduto a quelle della terra. Come si può far crescere la vita dello spirito se prima non si abbraccia con fede assoluta la terra? In fondo Cristo stesso è questa risposta. Si fa carne perché impariamo a credere alla carne. Si fa uomo perché impariamo a credere nell'uomo.

Spesso i miei alunni si stupiscono quando parlo della fede in termini di conoscenza di un amico, di un amore profondo per una persona. Se non si ha “il senso” della relazione con Dio la fede è ridotta a morale, condotta, prassi. In fondo è impossibile credere perché non si vede, non si tocca, non si annusa Dio. Hanno ragione. Ma il loro punto di vista è ristretto. Non hanno ancora scoperto che per credere in Dio bisogna prima credere alle cose della terra. Se non credi nei tuoi talenti, nella tua capacità di ragionare, di amare, se non ti appassioni a qualcuno e a qualcosa, come puoi mai accedere alle domande ultime che poi aprono la strada alla vita dello spirito.

Spesso viviamo la fede come una serie di pratiche che ci consentono di essere buoni. Invece la vita dello spirito è molto più reale della rivista che avete in mano. È la presenza della vita della Trinità in noi e di noi dentro quella vita. Senza questa realtà non avreste in mano quella rivista, perché non ci sareste. Tutto questo è così vero e radicale che non lo vediamo. Come l'aria che respiriamo: diamo per scontato che ci sia, ma senza non potremmo vivere. È proprio quando le cose diventano ovvie che abbiamo smesso di porci domande su di esse.

La vita dello spirito ha le sue leggi come quella del corpo. Ha bisogno di essere nutrita e accudita. Ma questo per noi fatti di corpo, di un corpo spiritualizzato, o di uno spirito nella carne, è possibile solo attraverso il corpo e la carne. Per questo abbiamo bisogno di credere alle cose della terra, perché sono l'unica via di accesso al senso religioso.

“Senso” in italiano vuol dire non solo “apparato sensoriale”, ma anche “direzione” e “significato”. Chi non crede nelle cose della terra, non arriverà mai a cogliere il significato delle cose della terra, né tanto meno a cogliere la direzione da dare ad esse e alla propria vita immersa in esse.

«Voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita in senso non ce l'ha». Così cantava Vasco qualche anno fa. Trovare il senso alla vita è usare i sensi per credere alla vita, solo così le cose della vita, il suo essere così attaccata a me da darla per scontata, si aprirà al significato che essa ha e mi catapulterà nella domanda di ogni pastore errante su questa terra: ed io che sono? Solo i sensi aperti al dialogo con la Luna, il suo credere alla Luna e ai suoi movimenti regolari, lo costringono alla domanda sul senso delle cose. Ecco che il senso religioso, una specie di orecchio, naso, occhio, pelle, lingua interiori coglieranno la risposta di una creazione che è dono, di una carne che è tempio della Trinità, la risposta capace di dare una direzione, un senso, a quella vita.

La vita ha senso proprio perché non glielo diamo noi, ma perché emerge da sé stessa, dal dna che la Trinità ha impresso nelle cose. Ogni cosa, ogni persona dice: io sono dono per te. Ogni cosa ogni persona dice: io voglio essere amata. Ma riusciremo a non sospettare delle cose, delle persone, della realtà, di noi stessi? Riusciremo a credere nelle cose della terra? Solo questa fede a tutti accessibile ci porterà a credere nelle cose del cielo.

Per questo Giussani può dire nell'introduzione del volume secondo del PerCorso: «Tutti gli impeti con cui l'uomo è spinto dalla sua natura, tutti i passi del moto umano – moto cosciente e libero –, tutti questi passi, cui lo slancio originale induce l'uomo, sono determinati, resi possibili e realizzati in forza di quell'impulso globale e totalizzante che è il senso religioso...» e la vita umana «risulta perciò progetto sviluppato da quell'impeto globale, del senso religioso».

Noi siamo chiamati alle domande ultime come quella bambina e troveremo risposta attraverso il nostro disegnare, attraverso quello che siamo e amiamo. Attraverso le cose della terra crederemo e faremo il ritratto a Dio. E scopriremo che era un autoritratto.

mercoledì 7 marzo 2012

«Prende su di sé tutti i nostri "no"»


08/03/2012 - Martedì 6 marzo, il secondo incontro della catechesi dell’Arcivescovo Angelo Scola in preparazione alla Pasqua. Al centro della meditazione i personaggi che Gesù ha incontrato sulla Via della Croce: la Vergine Maria, il Cireneo e la Veronica

«Penso al peso che portano le persone sofferenti, i carcerati, chi vive per strada. Ma penso anche a noi, ad ognuno di noi qui, quando siamo di fronte alle prove che appesantiscono le nostre giornate: non siamo mai soli. Gesù è con ciascuno e con tutti». L’Arcivescovo di Milano Angelo Scola comincia così la sua omelia nel secondo incontro dell’Itinerario di Quaresima. Al centro della meditazione gli incontri che Gesù ha fatto sulla via della Croce. Il quadro di Gaetano Previati, Via Crucis - Gesù incontra la madre, aiuta a immedesimarsi con quell’uomo che «liberamente si lascia imporre la Croce sulle spalle caricandosi così del nostro dolore fino a morirne. Prende su di sé tuto il male dell’uomo, tutto il suo “no”. Tutti i nostri “no” che sono “no” alla totalità».

Nella quarta stazione della Via Dolorosa, Gesù incontra Maria. «O croce che farai? El figlio mio torrai. E che ne apponerai che non ha en sé peccato?», Jacopone da Todi nei suoi versi mette sulle labbra di Maria un dialogo, o meglio un «monologo straziato», con la croce. Le parole del Caligaverunt di De Victoria scoprono tutto il dramma: «I miei occhi sono annebbiati dalle mie lacrime: considerate, popoli tutti, se c’è un dolore uguale al mio». «Nel quadro di Previati, la madre precede la piccola compagnia che segue il Figlio: fino al momento estremo della croce. Maria precede anche noi, stasera, ci conduce al Signore», spiega Scola. «Lei è veramente madre di Gesù e nostra. Fa ciò che dovrebbe fare ogni madre: condurre il figlio al padre, all’Altro. C’è bisogno della famiglia perché diventiamo uomini compiuti». Per questo Scola invita tutti a rivolgersi ogni sera alla Madre Santa per affidarLe «la nostra persona e la nostra vocazione», recitando una preghiera, «magari in ginocchio».

Il Cireneo è stato l’unico uomo che ha potuto aiutare Gesù nella sua sofferenza. «A lui solo è stato concesso di collaborare con l’opera di salvezza. E non importa se il suo gesto è del tutto casuale». Era un uomo che rientrava dal lavoro, stanco e desideroso di tornare a casa in fretta, ma che cedette ad una «misteriosa costrizione. Proprio come noi che siamo qui stasera e che abbiamo ceduto alla stessa misteriosa costrizione». Cosa insegna l’episodio del Cireneo? «Ci dice che dalla compassione nasce la solidarietà», sottolinea l’Arcivescovo: «Lo vediamo bene negli aspetti decisivi della nostra vita quotidiana: gli affetti, il lavoro, il riposo. La compassione rappresenta un fattore di coesione sociale, può essere principio di società giusta e umana. Ci spinge fino a farci carico del male e del dolore di coloro che non riescono a portarlo sulle proprie spalle». Il Cireneo stana anche «il tarlo che talvolta rode la nostra fede: è impossibile che uno solo sia il Salvatore di tutti». Come ci raccontano le parole di Peguy lette in cattedrale: «Felice colui che lo vide nel tempo, e che pure non lo vide che una volta». Così commenta Scola: «È la potenza universale della grazia di un incontro che dà alla vita un nuovo orizzonte e la conversione decisiva. Si apre lo spazio della felicità».

Gesù incontra Veronica. «Lei seppe riconoscerlo anche sotto la maschera ripugnante della sofferenza, senza apparenza né bellezza, senza splendore per poterci piacere», commenta Scola. «La bellezza è in questo volto sfigurato che ci dice la disponibilità di Dio a dare la Sua vita per noi. Il sacrificio oggettivo non annulla il desiderio di felicità che abita nel nostro cuore. Anzi lo compie». La Veronica si è inginocchiata, ha soccorso Gesù. «Come lei migliaia di cristiani si spendono personalmente in opere di carità in tutto il mondo. Decidiamo anche noi, in questo tempo di Quaresima, di donare un po’ del nostro tempo libero ai malati e ai soli».

Settima stazione: Gesù cade la seconda volta. «Viene soggiogato dal Maligno, insultato e maltrattato», spiega Scola. «Per liberarci si carica di tutti i nostri peccati. Non dei peccati in generale, del mio e del tuo, quelli precisi, che sappiamo, perché non esiste un noi generico, come non esiste un tu generico». L’uomo cosa fa di fronte al suo peccato? «Noi tendenzialmente lo rimuoviamo, scarichiamo, lo gettiamo su altro e su altri». Si cerca un capro espiatorio come con lo tsunami, i terremoti, la tragedia del Concordia, anche davanti al male morale. «Questa è una de-responsabilizzazione contraria alla verità dell’umano. Invece i nostri atti ci seguono. Senza espiazione l’io non trova pace. Il perdono di Dio esige da parte nostra il riconoscimento delle nostre colpe e la disponibilità ad espiarle». Poi l’Arcivescovo ricorda le tre parole chiave della Quaresima - preghiera, carità e digiuno - da seguire nel cammino che conduce alla Pasqua. Alla fine, l’invito a pregare «chiedendo la grazia del dolore dei nostri peccati», che non è un semplice senso di colpa, «ma un giudizio della ragione contrita e commossa».

sabato 3 marzo 2012

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón 29/02/2012


Testo di riferimento: All’origine della pretesa cristiana, capitoli I e II, Rizzoli, Milano 2011, pp. 3-31.

• Non son sincera
• Romaria
Gloria

Colpisce che dalla prima riga dell’Introduzione don Giussani abbia una preoccupazione decisiva che noi – se vogliamo seguirlo e capirlo – non possiamo saltare. Per questo ritengo questo paragrafetto iniziale decisivo: non possiamo renderci conto pienamente di cosa voglia dire Gesù Cristo se ciascuno di noi non ha questa presa di coscienza tenera e appassionata di sé. Allora, in che
cosa ci ha aiutato questa insistenza di don Giussani nel lavoro che abbiamo fatto su questi due capitoli che pongono a tema quello che sono io?


Andando avanti nel tempo, mi invade un po’ la preoccupazione che io possa cambiare, che io possa diventare grande, e che il tempo che passa non mi faccia tornare indietro, cioè che sia utile alla mia vita. Insomma: un livello di performance sempre maggiore. E mi ha colpito – per me è stato un regalo, una grazia – quello che hai detto il 25 gennaio: «Ciascuno di noi è stato afferrato da Cristo. Quanto più uno è stato afferrato, tanto più è proteso nella corsa per afferrarLo ancora. [È
qui che mi colpisce:] Ciò che si persegue non è più in ultima istanza nemmeno il cambiamento, cioè una nostra misura del centuplo, ma la Sua presenza, il rapporto con Lui, come accade in ogni rapporto amoroso pienamente umano: niente soddisfa se non la presenza della persona amata.
Questo pone nel mondo una figura d’uomo irriducibile, che non si accontenta di alcun obiettivo “intermedio”». Mi ha regalato una pace di fondo, perché io sono quest’uomo, e desidero essere irriducibile e continuare a essere innamorato in questo modo, perché mi sembra che oggettivamente io non posso fare a meno di Gesù.

Tante volte dietro le parole che usiamo c’è già la questione di fondo: noi riduciamo, senza neanche renderci conto – come diceva lui all’inizio –, la natura del cristianesimo a un certo tipo di cambiamento, a una performance. Perché succede questo? Questa è la questione più decisiva che noi dobbiamo affrontare, perché tutti del cristianesimo sappiamo tante cose, ma la maggioranza delle volte in cui ne parliamo lo riduciamo; lo riduciamo a etica, a un’immagine di cambiamento, a
dottrina, a qualcosa di già saputo, lo riduciamo a una performance (dover essere secondo un certo modello), a un sentimento o a un successo nel senso di riuscita. Per questo mi colpisce che don Giussani dica subito dopo, nella Introduzione: «Non considerare il cristianesimo in modo comunque riduttivo [questa è la questione!] dipende dalla comprensività e completezza con cui uno percepisce
[…] il senso religioso». Se noi riduciamo il senso religioso, cioè la natura del nostro io,inevitabilmente riduciamo il cristianesimo. Faccio un esempio che abbiamo usato altre volte: è evidente che capitava lo stesso anche ai discepoli, anche loro desideravano un cambiamento, anche loro desideravano la riuscita, e quando l’hanno ottenuta erano tutti gasati e pensavano: «Vedi? Il cristianesimo è questo». Come Gesù corregge i discepoli? Da dove nasce lo spostamento? Nasce dallo sguardo che Gesù ha su di loro, lo sguardo che coglie, senza ridurlo, il loro senso religioso, il
dramma del loro io: «Guardate, amici, che se voi vi rallegrate di questo, questo non vi servirà per alzarvi domani mattina». Attenzione: non è che i discepoli non L’avessero davanti, non è un problema soltanto di averLo davanti, ce L’avevano davanti, carnalmente – e noi tante volte ci lamentiamo di non averLo! –, presente, ma questo non bastava per cogliere la diversità, per cogliere la vera natura di Lui. Tanto è vero che loro sono più contenti di quella riuscita che di averLo davanti, e Gesù deve spostarli, deve introdurli al loro mistero, deve renderli consapevoli, deve
introdurli a quella coscienza tenera e appassionata di loro stessi, senza la quale non potranno capire

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che la vera gioia, che la vera risposta è nel rapporto con Lui, nel loro essere stati scelti. Vedete quanto vale l’obiezione che spesso facciamo di non esser “fortunati” come i discepoli? Non è questa la questione, perché loro hanno tutto quello che noi ci lamentiamo di non avere, eppure non basta per cogliere automaticamente chi è Cristo, e perciò per trovare il fondamento alla vera gioia che è il rapporto con Lui. Mancava loro questa coscienza di sé, che Gesù coglie in loro, quello sguardo con cui Gesù li guarda. Attenzione: non è che Gesù “crea” quello che sono loro, no, Gesù semplicemente non accetta di ridurli a quello a cui loro si riducono da se stessi, cioè li guarda secondo la loro verità. Se questo non diventa esperienza in noi – dice Giussani –, inevitabilmente ridurremo il cristianesimo; possiamo parlare del cristianesimo come avvenimento, possiamo parlare di tutto usando tutte le sacrosante parole, ma appena apriamo bocca tutto è ridotto. Perché non basta dire le parole per cambiare la concezione di sé, occorre un’esperienza, uno sguardo su di sé che è decisivo. E per questo sono fondamentali questi primi due capitoli. Mi domando: chi di noi, nel lavoro fatto in queste settimane, ha letto qualcosa che lo ha spostato nel modo di concepire se stesso? Perché questa è la Scuola di comunità. Chi, di tutti quanti siamo qui, può raccontarci
qualcosa in cui ha visto, ha toccato con mano una percezione di sé diversa? Altrimenti ridurremo Cristo.


A proposito di spostamento io volevo raccontarti come un fatto successo fra ieri e oggi è la verificadi questo. Fin dal 25 gennaio, ma anche proprio lavorando su questi capitoli, continuava a lavorarmi dentro tantissimo quello che tu dicevi, cioè che la verifica del passaggio dal senso religioso alla fede è un io umano diverso che si pone nel reale. Una carissima amica mi aveva fatto notare tutta una serie di particolari di me, di come stavo lavorando e di come mi stavo approcciando alla realtà, che mi facevano perfettamente capire che io invece avevo un modo
assolutamente analitico di lavorare, esattamente come tutti, quindi con contributo al mondo pari a zero. E questa è la prima verifica. Succede un fatto. Faccio la cardiologa, ho iniziato da poco a lavorare e, vuoi l’inesperienza vuoi la paura di sbagliare vuoi tante cose, comincio la guardia, e ricevo una chiamata per una consulenza a una donna di cui peraltro mi aveva già parlato un mio collega. Secondo me non era una richiesta da fare, non c’era bisogno di chiamarmi; questa donna
era stata già valutata dal centro di riferimento il giorno prima, quindi cosa potevo aggiungere io? Già durante la chiamata non le ho mandate a dire alla collega che mi aveva coinvolto. E con questa posizione assolutamente ridotta e preconfezionata, come se la realtà fosse il luogo della paura, sono andata su. Faccio la mia consulenza, chiudo la cartella e me ne vado a casa. Ma a me non tornavano i conti, non mi tornavano proprio! Avevo un vuoto dentro, clamoroso. Tu continui a
dire: «La verifica è un io diverso»; io invece mi ritrovavo ad aver lavorato come tutti: ridotta io, ridotto tutto il mio desiderio di costruire sul lavoro, ridotto il rapporto con quella paziente (infatti l’ho anche guardata poco). Non mi tornavano i conti.
E perché non ti tornavano i conti? Perché non avevi fatto la performance?
No, clinicamente io non avevo dubbi, ma non era la verità di me che mi dicevi tu, non era la verità di quella realtà. E mi colpiva perché dentro quella realtà io mi stavo rendendo conto che invece io sono stata guardata diversamente, e quelle parole che continuavano a rimbombarmi nella testa mi ridicevano la strada. Per cui oggi prendo e ritorno in quel reparto, ritrovo la persona con cui ho
parlato al telefono e le dico: «Io innanzitutto mi voglio scusare per come mi sono approcciata ieri».E da lì è partita una discussione interessantissima, mi si è aperto un mondo, al punto che alla fine le ho detto: «Senta, io non sono tornata qui per un dubbio clinico, ma proprio per me, per questo dubbio di verità». Alla fine riprendo la cartella e vado a riparlarne con il consulente di quel reparto, che ci capisce più di me; ritirando fuori tutto il caso mi ha fatto anche notare dei particolari clinici che non avevo approfondito. Per cui ritorno per la terza volta in quel reparto – l’orgoglio è un mio tratto inconfondibile, non sarei mai tornata indietro per un’idea o per un pensiero –, ricerco quella collega e le dico: «Mi scusi, ieri l’ho quasi insultata e oggi sono qui…».
Alla fine mi ha detto: «Ma no, si impara, è dinamica la cosa. Grazie di esser tornata». E io ho pensato: con questo approccio diverso, che mi ha permesso di avere un visione completa sulla
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realtà, addirittura Cristo mi insegna a lavorare! Io con la mia analisi non ero riuscita a venirne fuori, era un rapporto ridottissimo che svuotava me. Oggi, quando sono tornata a casa, mi son detta: questa è un’altra vita, è un’altra possibilità. Io questa cosa l’ho verificata, non me la tolgo più.

Grazie. La vita può essere un’altra cosa!

Racconto quello che vedo che mi sposta realmente nella vita, ma poi vorrei porre una domanda. Ciò che realmente mi permette di stare di fronte a tutto me stesso, a tutta la domanda che sono, alla realtà, è un rapporto che abbraccia tutta la mia vita, un rapporto molto concreto con certe persone che mi mostrano che posso stare di fronte alle mie domande, posso non aver paura di quello che vivo. La domanda che mi rimane, e che ho visto anche molto emergere fra di noi, è come questo atteggiamento possa rimanere, perché anche quando io sono in rapporto con queste persone, poi, è
come se mi bloccassi, come se dicessi: bene, adesso sono a posto, ho trovato la risposta. Non capisco allora cosa vuol dire quando si continua a dire che la risposta aumenta la domanda. In che senso il rapporto con Cristo continua a spalancare la mia umanità, continua a far mantenere aperta la domanda? Perché mi succede questo: nelle cose “normali” è chiara come dinamica (l’esempio che fai sempre dell’innamoramento è chiarissimo perché di fronte alla persona amata io non spero che venga meno la domanda né che venga meno la risposta), ma di fronte alle domande ultime è come se mi concepissi sempre in maniera diversa.

Qual è la diversità?
Ti trovi ancora incastrato. Come è possibile? Io ho incontrato la risposta, come è possibile che invece ancora emerga questa esigenza? Io ho incontrato quello che risponde, quello che rende pieno il rapporto, come è possibile che invece mi trovi ancora così bisognoso? Quando mi succede che non soffoco? Quando sono di fronte a qualcuno che rispalanca tutto il mio io. Però poi è come se subito lo riducessi, pensando: bene, allora sono a posto.

E allora? Così come tu capisci che cosa succede nella dinamica dell’innamoramento, tu devi guardare che cosa succede quando riconosci Cristo presente, se questa stessa dinamica si riproduce lì. Altrimenti noi incominciamo a immaginare. La dinamica non è diversa, semplicemente è cento volte tanto, perché quanto più è eccezionale una presenza che ti trascina… Immagina davanti alla eccezionalità di Gesù come si scatenava la domanda: ma chi è costui? E questo nel tempo veniva meno oppure quanto più vedevano le cose che faceva tanto più lo stupore cresceva? Mi spiego? Ma questo possiamo comprenderlo non come spiegazione (che tu già sai, tra l’altro), ma soltanto come sorpresa davanti a quel che accade. Tu puoi capirlo non facendo girare la testa, ma guardando che cosa succede quando ti succede, e potrai trovare risposta. Perché vedrai che la dinamica, allora, non sarà diversa, come vediamo nei discepoli. Ma tu lo devi documentare nella tua esperienza stessa, nella carne della tua esperienza.

La cosa impressionante è che il fatto è accaduto ora, per quel che mi riguarda, perché mi ero fatta una scaletta e me l’hai ribaltata positivamente, nel senso che mi sono proprio ritrovata con quello che dicevi degli apostoli e del percorso che hanno fatto, che non è diverso dal nostro, perché il Padre eterno mi ha spostato due volte, per benino, rimettendomi davanti alla domanda che facevi tu: dov’è la vera soddisfazione? Un anno fa, più o meno, ho trovato un lavoro che mi corrispondeva tantissimo, soddisfaceva proprio quel pezzettino che secondo me mancava per la mia
riuscita, la famosa riuscita.

Questa è già la prima questione: noi scambiamo costantemente “corrispondenza” con “riuscita”, e questo dice già la riduzione che noi facciamo dell’io.

È vero, anche perché, in fondo, era come una domanda sulle mie capacità: ce la faccio, non ce la faccio. Allora: esperienza bellissima, devo dire straordinaria, non posso dire diversamente, facciamo anche un bellissimo evento, va benissimo; però, a un certo punto, nel massimo della soddisfazione c’è stata una frazione di secondo in cui ho detto: è tutto qui? E lì, nel massimo della soddisfazione – dovevo proprio attraversarla tutta – ho detto: eh, no, a me quello che interessa è il
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rapporto con Gesù. Mi veniva in mente la frase: «Sei Tu che mi manchi in tutto ciò che mi piace», perché, in fondo in fondo, io questa frase la capivo intellettualmente, ma non ero arrivata fino ad attraversarla tutta nell’esperienza. Questo fino a metà novembre. Primi di dicembre: rivoluzione copernicana, le risorse vengono improvvisamente a mancare, per fartela breve si stoppa tutta la faccenda – rimane il rapporto, il che è ancora più doloroso perché comunque si era creato, si è
creato, c’è ancora, un rapporto di grande amicizia – e di punto in bianco mi mandano a casa. E lì c’è stato il secondo spostamento, perché dentro una fatica economica pazzesca (devo dire che non c’è mai stata una fatica così) mi sono detta: è cambiata la forma, ma non è cambiata la domanda, Lui mi sta richiedendo dov’è la mia consistenza. Venerdì vado a rincontrare quella persona, non so se riprenderemo, ma quello che non mi porta più via nessuno è stata questa esperienza.

Ma tu da questo cosa hai imparato? Spiegami bene in che cosa tu hai percepito quello a cui noi cerchiamo di rispondere: che cosa è Cristo. Perché tante volte non soltanto sbagliamo a identificare due cose che sono diverse – riuscita e corrispondenza –, ma anche scambiando Cristo con qualsiasi immaginazione ci viene. E questo alla fine dove ci porta? Che noi di Cristo non abbiamo colto che cosa è.

Però davvero se manca quell’umano, quella percezione di sé così chiara, che poi è quello che vince…

È per questo che mi interessa; non mi interessa che noi non sbagliamo, perché se attraverso uno sbaglio tu hai imparato questo, è la cosa migliore che ti è capitata nella vita! Altrimenti noi perché dobbiamo seguire Cristo, qual è l’interesse che ha Cristo per noi, qual è la differenza tra Cristo e qualsiasi altra cosa?

Proprio per la verità di me, per la consistenza di me.


Esatto. Ma io posso capire la diversità di Cristo, perciò cogliere che cosa è Cristo, rendermi conto pienamente di che cosa voglia dire Gesù Cristo, dice Giussani, soltanto se non riduco l’io, se non riduco il mio io. Per questo guardate cosa dice appena dopo il brano che vi ho letto prima: «Se, perciò, il mio scopo è quello di situare l’emergenza del cristianesimo, è utile recuperare alcuni
aspetti decisivi del senso religioso». Non riprende, adesso, il senso religioso come un ornamento, ma proprio per lo scopo di capire che cos’è il cristianesimo, perché – dice – senza di questo noi non lo capiamo, noi lo riduciamo. Questo «coincide con la dimensione razionale, [con tutta l’esigenza della ragione] con la ragione nel suo aspetto ultimo e profondo, [coincide con quell’]impulso globale e totalizzante che è il senso religioso, [coincide] con l’urgenza di un raggiungimento totale e
di una esauriente completezza». Se noi non abbiamo la lealtà, questo sguardo pieno di tenerezza verso noi stessi, riduciamo il cristianesimo. Scusate, queste cose se le sta inventando Giussani oppure sta descrivendo che cosa è ciascuno di noi? Se questa è la descrizione della stoffa di cui siamo fatti, questo ciascuno deve cercare di sorprenderlo nelle viscere del proprio io, «nascosto […] dentro ogni dinamismo, dentro ogni movimento della vita umana, la quale risulta perciò progetto
sviluppato da quell’impeto globale [che chiamiamo] senso religioso». Guardate che tutto quello che sta dicendo don Giussani è così decisivo che il cristianesimo nel tempo moderno si è ridotto proprio perché la prima cosa che si è ridotta è stato l’io! Ecco perché Giussani qui sta dicendo una cosa decisiva per noi, perché senza questo inevitabilmente riduciamo il cristianesimo, anche se usiamo tutte le parole cristiane. Per questo vi prego di non saltare questi passaggi, di non voltare pagina e dire: «Io questo lo so già, del senso religioso mi sono occupato l’anno scorso»; non lo sappiamo, non lo sappiamo! Anzi, è la cosa che meno sappiamo, oso dire, perché lo si vede da come parliamo delle cose. Infatti, che cosa dovrebbe essere sempre più presente, consapevole, familiare? Il senso del mistero che siamo noi. Ma questo, lo vediamo tante volte, è l’ultimo pensiero che abbiamo, e per questo ci arrabbiamo con noi stessi, ci arrabbiamo con il reale, cerchiamo cose che, una volta
trovate, comunque non servono. Don Giussani dice: «Questa imperitura situazione di sproporzione e di inarrivabilità [il fatto che io non riesco ad arrivare] facilita l’insorgere nella coscienza dell’idea di mistero». Senza che questo cresca costantemente nella nostra autocoscienza di uomini, inevitabilmente noi ci rapportiamo all’avvenimento cristiano riduttivamente, e lo scambiamo con
qualsiasi altra cosa (come ai discepoli è capitato di scambiarlo con qualsiasi altra cosa). Perché?

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Perché in fondo noi non ci siamo resi conto pienamente di che cosa voglia dire Gesù Cristo. Ma questo non è un problema di performance, non è un problema legato all’essere più bravi o al fare meno sbagli; è il problema di percepire correttamente la realtà, di cogliere in un modo veramente e pienamente cosciente che cosa voglia dire Cristo. Se noi saltiamo questo pensando che è già chiaro, noi leggeremo il resto del libro e lo continueremo a ridurre con la conseguenza inevitabile che ci perdiamo il meglio. Perché lo garantisco: ci perdiamo il meglio! Soltanto quando prendiamo consapevolezza di noi stessi, allora ci rendiamo conto di che grazia rappresenta Gesù Cristo.

A pagina 11 della presentazione citi don Giussani: «Il cristianesimo avviene in comunione, ma si gioca tutto nella libertà della persona». Ti chiedo un approfondimento in termini di metodo proprio rispetto a questa cosa. In relazione alla compagnia, infatti, tu dici dopo: «Il nostro sostegno non può avere altra logica […] che quella della testimonianza. […] Alla pretesa cristiana posso
rispondere solo io davanti al Signore». Nel recente passato mi è stato dato di vivere alcune circostanze in determinati ambiti legati al movimento, che si sono rivelati essere una grande occasione di verifica della mia fede. In questi contesti sono stata costretta a paragonare l’esperienza in atto di rigenerazione, direi quasi rivoluzione, del mio io, anche grazie soprattutto al lavoro che ci stai facendo fare, con un certo tipo di atteggiamento che oserei definire di rinuncia al
proprio cuore e, quindi, di rinuncia a Cristo. Queste esperienze hanno acuito in me l’inquietudine, anzi, in un certo senso me l’hanno fatta riscoprire come una risorsa – io sono molto affezionata a san Paolo quando dice: «La realtà invece è Cristo, tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, e morire è un guadagno»–, però ho sempre percepito la realtà come qualcosa fuori di me. Questa esperienza è come se mi avesse dato una grande occasione di scoprire come Cristo mi sorprende
attraverso la mia inquietudine e come la mia inquietudine è una risorsa, che è un po’ quello che dicevi prima tu, anche perché è stato uno strumento per non rimanere incastrata in certe dinamiche. Quindi queste esperienze hanno acuito in me l’inquietudine, costringendomi a una rinnovata mendicanza che mi fa riconoscere di più come compagni di cammino – questo è un passaggio – i pubblicani di evangelica memoria. Lo cito come atteggiamento, perché recentemente ho sentito a Messa questo passo del Vangelo, e mi sembrava proprio che mi corrispondesse. «Il pubblicano invece fermatosi a distanza non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato a differenza dell’altro [che era il fariseo] perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato». Dentro questa dinamica che sto descrivendo mi ha colpito tantissimo – leggo un pezzettino – l’omelia del Santo Padre nella solennità dell’Epifania del Signore: «Il cuore inquieto […] è il cuore che, in fin dei conti, non si accontenta di niente che sia meno di Dio e,
proprio così, diventa un cuore che ama. Il nostro cuore è inquieto verso Dio e rimane tale, anche se oggi, con “narcotici” molto efficaci, si cerca di liberare l’uomo da questa inquietudine». Torno al discorso iniziale; ebbene, nell’esperienza a cui faccio riferimento ho visto come la compagnia a volte rischia, invece di essere un luogo di testimonianza viva, di ridursi a uno dei tanti “narcotici”
di cui parla il Papa. Si tratta di uno stravolgimento del metodo che invece di favorire una piena consapevolezza di sé e del proprio essere fatti per il Mistero, per l’infinito – «di che mancanza è questa mancanza?» –, tende piuttosto ad appiattire il desiderio e la domanda, e a favorire il famoso atteggiamento del tapis-roulant. Di contro, la fedeltà a quella che Newman chiama “coscienza” e
che don Giussani definisce “cuore”, meglio ancora, e Benedetto XVI “cuore inquieto”, viene interpretata come individualismo o autonomia o, peggio ancora, come mancanza di tensione all’obbedienza. Quindi è come se in certi contesti – questa è la percezione che ho avuto io – l’io non dovesse esistere più. Allora la domanda è: come se ne viene fuori? Anche perché a volte (non voglio fare di tutta l’erba un fascio) mi sembra quasi che una persona debba scegliere tra la compagnia e il proprio cuore.

Questa è un’alternativa che non si pone. Ma questo a cui tu ci richiami è fondamentale, perché ciascuno – altrimenti occorrerebbe cancellare il Vangelo! – è chiamato per nome: Giovanni, Maria,Zaccheo, Matteo... Ciascuno è chiamato per nome, ciascuno è chiamato a rispondere in prima
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persona, perciò non c’è, come dicevamo in un certo momento, niente di più personale che questa risposta. Può essere che a volte noi possiamo ridurre il nostro modo di stare insieme, ma questo non sarà mai la compagnia totale del movimento; possiamo ridurre alcune modalità di vivere la compagnia, ma non la compagnia di per sé, perché la compagnia, fin tanto che il Signore ci dà la grazia di viverla secondo il carisma che ci è stato dato, sarà sempre un aiuto per vivere la realtà. Poi,
in certi modi, possiamo usarla – per dirla con il Papa – come un “narcotico”. Mi spiego: per quello che ci è capitato, tendenzialmente facciamo un’esperienza del vivere migliore di quasi tutti gli uomini che conosciamo, ma questo può essere, come per i discepoli, qualcosa che, invece di creare una tensione sempre più intensa, ci fa accontentare sempre di più; invece di introdurre una tensione introduce una calma che appiattisce. Voglio essere chiaro: questo non sarà mai la compagnia
cristiana, bensì una deformazione sempre in agguato della compagnia cristiana. Per questo non possiamo soccombere a questa alternativa compagnia-io, perché il cammino lo facciamo insieme; anche soltanto leggendo don Giussani troviamo tutto quello di cui abbiamo bisogno per sentire questa tensione, un richiamo al vero dentro la nostra compagnia (anche se tutti noi fossimo ridotti).
Ma basta soltanto un istante, per come stiamo insieme o per quello che ci diciamo quando stiamo insieme, per rimettere in moto tutta la tensione nel nostro io. E quando qualcuno nei nostri ambienti vuole ridurre questa dinamica occorre sfidarlo, perché senza un luogo come la Chiesa, un luogo come il movimento dove costantemente siamo ridestati, noi soccomberemmo all’appiattimento totale. Per questo la compagnia è decisiva per l’io, ma la compagnia è fatta di “ii” vivi, e questo è quello a cui dobbiamo tendere e che dobbiamo domandare. Perché è così che diventiamo veramente
compagni: quando ci testimoniamo a vicenda che cosa è vivere. Tutto quanto abbiamo affrontato questa sera è fondamentale testimoniarcelo a vicenda nel modo con cui noi stiamo nel reale e viviamo nel reale. Per questo voglio rilanciare di nuovo questa sfida a ciascuno di noi. Questi capitoli sono decisivi perché senza averli presenti, noi, inevitabilmente, ridurremo Cristo, non potremo veramente renderci conto pienamente di che cosa voglia dire Gesù Cristo. Uno mi scrive che questo può succedere soltanto con Cristo presente; e questo è vero, perché lo stiamo vivendo
già dall’interno della fede. Tuttavia dire “Cristo presente” non può essere un alibi, perché anche dall’interno della fede questo sguardo, questa coscienza attenta, tenera e appassionata di me stesso è qualcosa a cui devo educarmi costantemente. Infatti, quando l’anno scorso abbiamo ripetuto tante
volte che Cristo è venuto a educarci al senso religioso intendevamo proprio dire che è venuto a educarci a questa percezione dell’io. Per questo crescere nella percezione del Mistero è decisivo per poter cogliere chi è realmente Gesù Cristo.
Per la prossima volta leggeremo i capitoli terzo e quarto di All’origine della pretesa cristiana. Mi interessa sottolineare due cose per questo lavoro. Una è che in questo capitolo emerge la domanda di Dostoevskij: «Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni, può credere, credere proprio, alla divinità del Figlio di Dio, Gesù Cristo?». È questa domanda che deve continuare a essere presente lavorando su questi capitoli: che cosa può rendere ragionevole rispondere a questa domanda. E di questo un passaggio decisivo è quello che leggeremo nel terzo capitolo sul capovolgimento di
metodo. Perciò vi lancio questa domanda: in che cosa sorprendo il capovolgimento di metodo nella mia vita? Se sono ancora sul senso religioso o sono già sulla fede, in che cosa lo sorprendo? Perché questo primo paragrafo così decisivo tutti lo possiamo ripetere, ma tante volte nella pratica della vita noi, pur usando le parole cristiane, stiamo ancora utilizzando il metodo del senso religioso. In che cosa scopro che è successo in me il capovolgimento di metodo nell’esperienza, in modo tale che questo non resti ridotto soltanto a una spiegazione intellettuale non sapendo di che cosa stiamo parlando nell’esperienza stessa? Perché se questo non si capisce, vuol dire che sarà difficile – meglio: impossibile – rendersi veramente conto di che cosa vuol dire Gesù Cristo, anche se pensiamo di saperlo perché usiamo certe parole cristiane. Per questo vi do questo suggerimento di metodo per aiutarci nel lavoro.
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La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 28 marzo alle ore 21,30.
Riprenderemo i capitoli terzo e quarto di All’origine della pretesa cristiana.
A proposito della Scuola di comunità, vi invito a leggere sul nuovo sito di CL (nella sezione appositamente dedicata alla Scuola di comunità) la sintesi di alcuni incontri di responsabili con don Giussani, in cui descrive che cosa è la Scuola di comunità e ne spiega il metodo; è un aiuto ad averlo più consapevolmente presente.
È in uscita il Volantone di Pasqua.
In un momento storico in cui il Papa ha indetto l’Anno della fede e in cui stiamo facendo la Scuola di comunità con a tema la fede in Cristo, come ci ha detto don Giussani, con gli occhi degli apostoli, per percorrere la strada che hanno fatto loro – dall’impatto con la sua umanità alla domanda sulla sua divinità –, riproporre il testo del Volantone permanente del movimento (uscito nel 1988),
accompagnato dall’immagine di Cristo del Masaccio – che esprime l’attrattiva, la potenza della Sua divinità ora –, ci sembra per noi e per tutti il giudizio più consono alla situazione attuale in cui stiamo vivendo.
Usiamolo perciò nei nostri ambienti. È un’occasione per dire a tutti questo giudizio sulla storia nostra e di tutti. Lo leggo per farlo presente a tutti: «L’imperatore si rivolse ai cristiani dicendo: “Strani uomini… ditemi voi stessi, o cristiani, abbandonati dalla maggioranza dei vostri fratelli e capi: che cosa avete di più caro nel cristianesimo?”. Allora si alzò in piedi lo starets Giovanni e rispose con dolcezza: “Grande sovrano! Quello che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo
stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della Divinità». Mi sembra che, da quanto abbiamo visto questa sera, cominciamo a capire che non è ovvio che cosa abbiamo di più caro. Tante volte ci sorprendiamo a scoprire che quello che abbiamo di più caro non è proprio Cristo stesso, ma altre cose che sono conseguenze, non la Sua presenza, non la Sua persona. Il Volantone quindi, è un giudizio, un richiamo, per una memoria di che cosa è il cristianesimo. Avendolo davanti per tutto l’anno ci auguriamo, come avevamo detto alla presentazione della Scuola di comunità, che cresca
sempre di più il desiderio di Cristo, ma questo è legato a quello che dicevamo oggi: potremo non desiderare altro che questo, se capiamo di che cosa abbiamo bisogno; se invece il bisogno si riduce, potremo farne a meno e accontentarci di qualcosa di meno di Lui.
Il Libro del mese per marzo è Il Maestro e Margherita di Bulgakov.
Abbiamo proposto questo romanzo perché, in rapporto alla Scuola di comunità che stiamo facendo,può offrire una riflessione sull’importanza della storicità di Cristo che è riscontrabile attraverso i fatti e le loro conseguenze.
Sul numero di febbraio della rivista e sul sito di Tracce potete trovare una presentazione e un articolo che possono essere di aiuto alla lettura e al significato delle invenzioni fantastiche del romanzo stesso.
Veni Sancte Spiritus