domenica 29 maggio 2011

BREMBATE E AVETRANA PIÙ FORTE DEL MALE "un amore più forte della morte "

Come quei massi che precipitano dalle mon­tagne, il cui fragore riecheggia più volte, e più scuro nella lontananza, così ci sono fatti di cronaca che non si esauriscono nel primo com­piersi, ma ritornano, in echi dolorosi, ben dopo la loro conclusione. Negli stessi giorni si riparla di Avetrana e di Brembate di Sopra, nomi che so­no rimasti nel cuore di tanti: come un peso, co­me una domanda irrisolta. Da Avetrana viene la notizia dell’arresto di Co­sima, moglie di Michele Misseri e madre di Sa­brina; anche lei, secondo gli inquirenti, conni­vente in un terrificante omicidio 'di famiglia'. A Brembate si seppellisce, sei mesi dopo la scomparsa, Yara Gambirasio, che pochi giorni fa avrebbe compiuto quattordici anni. Di nuovo la cronaca accende i riflettori sul destino di due adolescenti, che in storie molto diverse hanno finito con il condividere un atroce destino.
E sono nel frattempo nel mondo successe tan­te cose, anche tragiche e coinvolgenti, come in Giappone, come in Libia, popoli interi: eppure chi, in Italia, ha dimenticato Sarah e Yara? La biondina uscita per andare al mare, la studen­tessa di terza media che tornava a casa dalla pa­­lestra, in una sera come tante. Non possiamo dimenticarci di loro perché, come ha detto ieri il vescovo di Bergamo Francesco Beschi, «Yara non è semplice­mente morta, ma su di lei ab­biamo visto accanirsi il male». Su Yara, tredicenne ignara e inerme, come su Sarah, fiduciosa in ca­sa degli zii che l’avevano vista bambina, si è abbattuto con mi­cidiale pesantezza tutto il male di cui gli uomini sono capaci.
E il precipitare di questa scure su due figlie così simili a quelle che abbiamo noi in casa, acerbe, sor­ridenti, ci ha lasciati atterriti; e in realtà, nemmeno quando a­vessimo i colpevoli con certezza individuati e condannati, quei nomi – Avetrana, Brembate – smetteranno, nel sentirli nomi­nare, di dolere come un nervo scoperto: che cosa è stato laggiù, e perché tanto spaventevole ma­le.
È questa la domanda attonita che viene da due paesi di pro­vincia lontani fra loro, ma tragi­camente accomunati: perché a qualsiasi latitudine possono ac­cadere queste cose. L’eco cupa che rimbalza contemporanea­mente dal Sud alle valli berga­masche è la opaca consistenza del male. In tempi in cui ogni cer­tezza pare essersi annebbiata e tutto – famiglia, amore, lavoro – sembra fluido, o soggettivamen­te declinabile, o precario, la fine di due ragazzine ingannate e uc­cise afferma con la durezza di u­no schiaffo che almeno il male è qualcosa di terribilmente ogget­tivo. Una radice che c’è negli uo­mini, coriacea, tenace, sempre presente nella storia.
Sei mesi dopo, di nuovo muti davanti alle im­magini di bara bianca, in una mattina di sole. Non sapendo che cosa dire ai figli, di fronte a quella che sembra, della morte, una evidente trionfale vittoria. Eppure quella gran folla, an­che di sconosciuti, anche da lontano, perché è venuta? Non, forse, a cercare una speranza che sia più forte della morte? C’è una domanda ta­cita, magari nemmeno cosciente, sospesa sulla folla di Brembate: diteci che, nonostante tutto il male di cui noi uomini siamo capaci, è ragio­nevole sperare. Diteci che c’è un amore più for­te della morte, ad accogliere Yara e gli altri bam­bini come lei, e anche noi, adulti o vecchi; a spin­gerci ancora a vivere, avere figli, lavorare, fidar­ci l’uno dell’altro. È a questa non detta domanda che il parroco di Brembate ha risposto ieri, paragonando il po­vero corpo di Yara gettato in un campo al chic­co di grano che muore, ma per rinascere. Im­magine di una volontà di bene che nonostante tutto risorge, tenace, dentro un’antica fiducia cristiana. Quella stessa della madre di Yara: che, è stato riferito, da quando sua figlia è stata ri­trovata è più serena, perché, dice, sa che ora è nelle mani del Signore. Una madre testimone, in un paese ammutolito, che il male tuttavia non è l’ultima parola; che c’è, davvero, oltre a tutto il nostro male, un amore più forte della morte.
MARINA CORRADI
Il vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi, parlerà sempre a braccio ma senza improvvisare, co­me se avesse ripetuto e pesato le pa­role mille volte: «Ognuno di noi ha un motivo per essere qui – è il suo sa­luto iniziale. – Siamo qui per parte­cipare a un dolore. Siamo qui per pregare. Siamo qui in attesa di una risposta, un segno, un dono: il dono di una speranza che sia più forte del­la morte, del dolore, del peccato. Lui, Cristo, è quel dono, Lui la nostra spe­ranza ».
Tutti corriamo una ten­tazione: «Dobbiamo pensare che bontà, generosità, giustizia e amore siano un errore? Che odio, oscurità, menzogna e violenza siano più for­ti? No. Dobbiamo ripartire: dalla cro­ce di Cristo, dalla croce di Yara, dal­la croce degli innocenti».

venerdì 27 maggio 2011

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 25 maggio 2011

Testo di riferimento: «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova», suppl. a Tracce-Litterae Communionis, n. 5 (2011), Società Coop. Ed. Nuovo Mondo, Milano 2011, pp. 12-26.


• La guerra

• Non son sincera

Gloria
Comincio leggendo una lettera che mi avete mandato: «Ti scrivo per chiederti un aiuto sulla questione del metodo, punto che per me si è rivelato ancora non chiaro. L’altro giorno, mentre mi esercitavo sul mio strumento – sono musicista –, mi è capitato di fare questa analogia: quando devo affrontare un passaggio virtuosistico molto veloce, difficile da intonare e in cui inciampo, cosa faccio? Mi fermo, lo rallento, lo spezzetto, lo analizzo, metto a fuoco il problema; insomma, lo
affronto con un metodo tecnico ben preciso. E a poco a poco è come se quelle note difficili si illuminassero, arrivando dopo questo percorso a una vera conoscenza di quella musica. E qui mi scatta questa domanda: “Ma io quando mi incastro nei passaggi virtuosistici della vita come mi muovo? Come li affronto? Ho una ipotesi di lavoro così?”. È inutile mentirmi, mi sono sentito spiazzato». Capite qual è il problema? Perché questo anche se dedica tanto tempo alla musica, sarà sempre meno del tempo della vita (la musica è un pezzo della vita). Noi su certe attività abbiamo un metodo tale per cui riusciamo ad affrontarne i passaggi complicati, ma quando questo lo facciamo sulla vita siamo spiazzati, anche se abbiamo avuto molte più occasioni per imparare. Per questo quando Giussani insiste sul metodo non è per una fissazione, ma perché altrimenti, come testimonia
questo amico, non riusciamo a imparare, e dopo tanti tentativi uno è spiazzato. Continua: «Se uno mi chiedesse: “Senti, ma tu come affronteresti questo passaggio musicale difficile?”, io ho un metodo collaudato da indicargli. E per le circostanze della vita? Io leggendo i tuoi interventi, vedendoti all’ultima Scuola di comunità, mi sono detto: raggiungere una certezza così su Cristo deve essere possibile solamente attraverso un metodo scientifico [un metodo, diciamo] come quello
che ho nella musica. Non mi sembra di esagerare se dico che, desiderando un metodo scientifico, io desidero entrare in tutte le circostanze senza ogni volta buttarmi un po’ a caso, confuso, impacciato, con un “vediamo come va!” [questa è di solito la modalità con cui noi affrontiamo le circostanze: vediamo come va, se per caso succede, se per caso capita, perché è come se quanto abbiamo provato (perché sarebbe questa la parola) non ci avesse fatto fare esperienza, infatti non è cresciuto, non è diventato nostro]. E sempre vivo a tentoni, nel buio. Davanti alla morte dolorosa di un ragazzo giovane che stava per diventare padre, cosa si sente dire dalla gente? “Davanti a un fatto così non ci sono parole”, ecco una frase che si dice; ma io vorrei gridare: “Un corno non ci sono parole, Cristo ha vinto anche questo!”, ma non posso dire una cosa così tanto per dire [questo è il
punto: non posso dirlo, vorrei dirlo ma non posso dirlo!]. Ti chiedo una mano perché mi sono accorto che dirmi che il metodo è seguire Giussani e il metodo è l’esperienza, non ha ancora la stessa scientificità che vedo in te e che io, per ora, ho solo con il mio strumento». Amico, io non ho altro da dirti che quello che ti dico, ma la questione è che la “scientificità” si raggiunge soltanto se tu prendi sul serio il metodo e lo verifichi. Non ho niente da aggiungere, non ho alcun libro nascosto, né alcuna istruzione per l’uso diversa; ma siccome tu hai adesso un metodo verificato nell’esperienza, puoi imparare soltanto se lo rischi. Per questo don Giussani ci propone un cammino, non un miracolo: un metodo; e il metodo è l’esperienza. E questa esperienza come si impara? Come si fa a farla? Con un tentativo, cercando di giocare quello che hai capito, e poi, tornando sul testo, cercando di capire che cosa hai imparato. Cioè è un lavoro, è un paragone serrato tra il mio tentativo e quello che dice il testo. La prima volta non capiamo neanche un decimo di quello che dice il testo, perché non si capisce riflettendo astrattamente sul testo, ma si impara rischiando, e poi quando lo rileggi esclami: «Ah, questo mi era sfuggito!», e poi lo rigiochi ancora,
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e poi ritorni «Ah, ancora mi era sfuggito questo!», e vedrai come diventa tuo sempre di più. Agli Esercizi ho citato lo sfogo del don Gius: «Però trent’anni fa, quando incominciavo a dire queste cose, non credevo che dopo trent’anni avrei dovuto ripeterle tante volte per farle capire a quelli che da dieci anni già camminano sulla stessa strada!». Nessuno prende sul serio, “scientificamente” – se volete dirlo così –, quello che dice; e per questo uno nella musica (anche perché lo pagano) è
implacabile, ma nella vita crede di potersi permettere di essere meno preciso… Senza cammino non c’è certezza, perché la verifica è nell’esperienza, è nella vita, non nei nostri pensieri. Senza fare questo cammino ci troviamo come mi scrive uno di voi: «Di fronte alla frase [guardate, frasi elementari!]: “La fede è un’esperienza presente”, rimango troppe volte – ma ho l’impressione che a volte accada anche intorno a me – come un ebete, neanche capendo cosa voglia dire la frase, come
di fronte a dei geroglifici egiziani di cui non si capisce il senso, perché non so cosa voglia dire “fede” (troppe volte confusa o con il sentimentalismo o con il moralismo che arriva a esprimersi in ritualismo o in associazionismo), perché non so cosa voglia dire “esperienza” (troppe volte confusa con emozione o immaginazione). Quando mi chiedi di fare il lavoro di sorprendere in azione i miei fattori costitutivi, mi sento come se mi chiedessi qualcosa al di fuori di me [no, è a portata di mano di te, è facilissimo, ma occorre un lavoro: tutti siamo arrivati a una certezza su nostra madre da piccoli, arrivare alla certezza è raggiungibile da chiunque, da chiunque]. È come se stessi correndo i 100 metri piani e a metà corsa mi chiedessi di fermarmi a guardare i metri percorsi. Uno sforzo immane contro la tendenza di correre: inutile, è una perdita di tempo. Eppure di fronte alle
circostanze di un figlio che nasce, della malattia di un amico, della perdita del lavoro, uno reagisce. Allora capisco che l’unica possibilità di scoprire è fare questo percorso». Ma basterebbe farlo per incominciare a capirlo! Non pensate che lo impariamo con astrazioni, dicendo quello che ci viene in testa! E adesso abbiamo una possibilità stupenda di una verifica, per questo abbiamo parlato delle elezioni come la verifica della fede. Un fatto dove ciascuno ha visto come si è giocato o come non
si è giocato, che cosa ha imparato o che cosa non ha imparato (non riflettendo sulle elezioni o sugli Esercizi come astrazione).

Agli Esercizi della Fraternità sono rimasta molto colpita da come tu li hai iniziati, perché è come se non avessi mai percepito come questa volta che il contraccolpo di Cristo risorto è il destarsi dell’io, ed è il destarsi dell’io come mistero. A me questo ha fatto molta impressione, perché non avevo mai messo in relazione queste due cose, che mi accorgo che Cristo è risorto perché mi sento rivivere. Io per accorgermi di Cristo risorto ho bisogno della realtà e per muovermi ho bisogno di
occasioni come la campagna elettorale. Non ci si muove più per una ragione interna alla politica; mi sono accorta che per muovermi ho bisogno di dire a me, prima che all’altro, la mia esperienza intera. Da questo punto di vista, a me fa colpo che gli Esercizi della Fraternità non sono – come a volte ho sentito dire – un contenuto intimistico, ma un giudizio storico, il più pertinente a questo momento storico perché solo un “io” mosso in questo momento si muove, se no c’è un immobilismo
che ha come anticamera una reattività contro uno! Ho fatto tanti incontri in giro per l’Italia in occasione delle elezioni, e l’episodio che mi ha fatto più impressione è stato l’incontro con la capolista di un partito importante in una grossa città in cui c’erano le elezioni. Lei è rimasta così colpita da quello che noi dicevamo all’incontro che ci ha chiesto di poter venire a cena con noi. E appena ci siamo seduti a cena lei mi ha guardato e mi ha detto: «Ma tu, perché sei cristiana? Come hai incontrato Cristo?». Io le ho raccontato come era avvenuto per me l’incontro con Cristo; e sono rimasta di sasso perché lei mi ha detto: «Ora capisco, perché io mi sono mossa e mi muovo: perché ho un desiderio che mi si chiarisce solo toccando la realtà come al buio, perché io mi muovo al buio e mi aspetto dalle cose che capitano di capire qualcosa su di me. Adesso capisco che cosa mi manca: non mi manca Dio, mi manca una autorità. Mi manca un padre, perché tu vivi lo
stesso dramma che vivo io, ma tu lo vivi non al buio, ma con una chiarezza, mentre io lo vivo al buio».
O la chiarezza del figlio o il buio dell’orfano.
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Voglio intervenire sulle elezioni prima di tutto dicendo un fatto: nel fine settimana a Milano è esploso un vulcano che è il movimento, perché è cambiata fisicamente la vita della città, perché dietro al Clu si è mosso tutto il movimento. La cosa che voglio dire è che non è stata la mossa dietro a un capomandria, tutt’altro. Il clima è violento, c’è quasi un’intolleranza fisica a una presenza che si pone. Di fronte a questo, naturalmente, ci sono due reazioni: una è la reazione furibonda (ti senti minacciato e rispondi a tono), l’altra è lo scoramento (perché ti fanno piangere, ti prendono in giro, ti respingono). Invece domina a Milano nel movimento un clima di letizia che io non ho mai visto da anni, letizia che risponde all’aggressione in termini di ragioni per cui
votare, ripetendole e introducendole con una pazienza in certi casi impressionante. Dico solo un episodio. Un egiziano aggredisce un gruppo dicendo: «Voi siete contro gli extracomunitari», difendono noi, sono gli unici che ci vogliono bene davvero», e cominciano una lunga discussione in arabo. Letizia e pienezza di ragioni. Allora dico: qui c’è qualcosa di strano, di eccezionale, come se il desiderio
vedesse la presenza del Mistero in azione e questo desse la corrispondenza e le ragioni. A me viene in mente don Giussani quando diceva che di fronte ai barbari, i monaci restavano perché erano certi. Mi è arrivato un sms che diceva: «Stanno mandandoci via, ma noi non ce ne andiamo». Ci siamo. Però voglio dire la ragione, secondo me, che ritorna anche sulla questione sollevata dal primo intervento. Noi eravamo nella confusione, ma Carrón ha tenuto duro e ci ha fatto vedere in
azione l’ultima parte degli Esercizi, quando ha parlato dell’autorità che sfida il cuore. Perché quando ha parlato della verifica della fede, di fronte alle settimane che passavano nella difficoltà, è come se avessimo fatto esperienza di una autorità non robotica, che non è chiusa nella torre, ma che ti dice: «Prova, vedi, verifica». Vedendo gli universitari per primi, uno alla volta ci si è mossi, ma non il gruppo: uno alla volta abbiamo seguito questa autorità. Io risponderei così alla domanda
iniziale sul metodo: qui stiamo facendo esperienza di qualcosa di ancora più grande delle elezioni, cioè che seguire un’autorità non come ordine («Vota questo»), ma come sfida delle ragioni, fa riscoprire l’umano in un modo che, secondo me, è per sempre, è come un passaggio definitivo. Di fronte a un’autorità che ti dice: «Guarda il tuo desiderio, vai fino in fondo», tu diventi protagonista di una presenza che secondo me durerà, chiunque si affermi elettoralmente, perché è una presenza
che sente che quello che sta vivendo non glielo leva più nessuno, e che è anche la cosa più efficace. Ma soprattutto mi sembra che stiamo cominciando a verificare cosa voglia dire il metodo dell’esperienza, un desiderio fatto rinascere da qualcuno che riscopre la Presenza che prima non vedeva.

Rileggo quello che dicevi adesso, perché questa autorità non sono io, tante volte non sono stato io; io ho solo detto: «Verifichiamo la fede», ma cosa è stato verificare la fede? Non è «l’immagine di autorità o di guida robotica, quasi che si trattasse di individui chiusi dentro una torre da cui lanciano segnali», abbiamo detto agli Esercizi citando Giussani. Ma «l’autorità è una persona vedendo la quale uno vede che quel che dice Cristo corrisponde al cuore. Da questo il popolo è guidato». Può
essere la propria figlia, può essere l’universitario, può essere il vicino, può essere l’amico. E questo ha fatto venire la voglia a chi non ce l’aveva. Perché il metodo è lo stesso, è un’esperienza in atto. E ciascuno, se guarda se e perché si è mosso, potrà riconoscerlo, potrà vedere che possibilità gli ha offerto questa esplosione, proprio quando sembrava ci fossero le condizioni per dire: «Adesso
smettiamo». Invece è successo il contrario, sta succedendo il contrario.

Durante la campagna elettorale ho vissuto questa esperienza di verifica della fede di cui si sta parlando. In un contesto che è quello che descriveva l’intervento precedente, una mattina, in un mercato in cui la maggioranza della gente o era scettica o arrabbiata nera (di solito, tutte e due assieme!), stavo volantinando; a un certo punto, una signora da lontano inizia a inveirmi contro;
allora io inizio a risponderle da lontano e poi pian piano ci avviciniamo, e questa mi riversa addosso tutta la sua rabbia di fronte alla situazione politica eccetera. A un certo punto, in questa sua rabbia, l’ho fermata e le ho detto: «Va bene, signora, ma dentro tutto questo qual è il problema? Cioè, perché è arrabbiata così?». E lei allora ha iniziato a raccontarmi che i suoi due

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figli hanno perso il lavoro, e non hanno soldi per i nipoti. E lì è accaduto questo in me: mi sono sorpreso a vivere una vibrazione di fronte al bisogno di questa donna che era inimmaginabile prima, che non è qualcosa che programmi perché il massimo che puoi raggiungere quando lo programmi è dilatare il sentimento che hai in quel momento. Ma lì è stata un’altra cosa, è stato una passione per il suo destino che è qualcosa che tante volte vorresti poter vivere di fronte alle
persone che ami, e che invece non accade di vivere. E allora con molta semplicità le ho detto: «Signora, io farei tutto quello che posso per lei, e mi impegno a trovarle un colloquio di lavoro per i suoi figli». La signora si è fermata, ha smesso di inveire, mi ha abbracciato, ha iniziato a stringermi le mani e si è messa a piangere: “Nessuno mi aiuta, nessuno mi aiuta,e tu sì”. E lì sorprendi dentro l’esperienza che cosa è in grado di bucare quello scetticismo che sembra tante
volte invalicabile: questa vibrazione di sé di fronte all’altro che è data solo da quando ho incontrato Cristo, da quando sono stato io guardato così. Io posso stare di fronte a un bisogno così perché ho incontrato Chi un bisogno così lo colma, e per questo il primo criterio con cui da lì mi sono mosso è sostenere con tutte le energie che ho, andando a volantinare, chi a questo luogo che è la Chiesa, il movimento, consente di vivere liberamente e di proporsi come risposta al bisogno
dell’uomo.

Che uno si possa sentire insultato così e che questo non prevalga come reazione, ma che uno si sorprenda a vivere questa vibrazione di fronte al bisogno, questa passione per il destino di un altro fino al punto che si apre una possibilità di dialogo! Lui si faceva la domanda: «Che cosa è in grado di bucare questo muro?». Soltanto una ragione politica? Noi dobbiamo qualche volta farci la domanda: ma che cosa vuol dire incidenza storica, che cosa muove l’uomo nell’intimo? Perché
quello che è venuto fuori in queste elezioni è che situazioni come queste si sono moltiplicate infinitamente, e che tutti coloro che tra noi non avevano fatto un’esperienza non sono stati in grado di stare davanti a queste situazioni. Invece, soltanto chi ha fatto questa esperienza ha potuto stare senza fuggire, aprendo una possibilità, bucando il muro. Allora domandiamoci: ma Cristo, volendo incidere sulla storia, ha sbagliato metodo creando la Chiesa invece di un partito politico? E allo stesso modo: don Giussani ha sbagliato facendo un movimento e non un partito politico con un ordine di scuderia? Se noi non capiamo questo, penseremo sempre che sarebbe meglio fare altro, che saremmo più incidenti storicamente facendo altro. Ma questa esplosione non ci sarebbe stata se non per il motivo che stiamo vedendo! Se noi da queste elezioni non usciamo con questa chiarezza, non acquistiamo questa consapevolezza, poi ritorneremo inesorabilmente al vecchio schema, perché
non abbiamo imparato e giudicato qualcosa di nuovo. Come mi scrive questa ragazza che era andata a volantinare davanti a una chiesa: «Per prima cosa mi ha impressionato vedere la violenza verbale con cui sono stata trattata, e mi sono chiesta: “Ma come mai è così violento?”. Di riflesso mi son chiesta: “Ma cosa è successo a me per cui posso stargli davanti senza scadere al suo gioco?”. E mi sono sorpresa – secondo punto – della portata dell’incontro della mia vita. Ho incontrato persone
che mi sfidano sempre sulla ragione e soprattutto ieri mi son resa conto che questo è un fattore eccezionale, perché per noi che eravamo lì è stato urgente domandarci che cosa stavamo imparando. Terzo: ho incontrato persone che non hanno avuto paura della mia libertà. Infatti coloro che ci accusavano avevano censurato questo, e questo mi ha fatto capire l’assoluta disistima delle persone e, più importante ancora, mi ha fatto rivedere fino a che punto sono amata, non sono tenuta sotto
una campana di vetro sperando che non mi scontri mai con circostanze e situazioni che esigono un mio giudizio; anzi, al contrario, il nostro lavoro di verifica della fede è sul campo. Mi ha sorpreso una gratitudine ancora più consapevole per il movimento, per le persone che ho incontrato, che è davvero unico: da una parte, il fatto di essere spronati a usare la ragione e a dare un giudizio finalmente mio, dall’altra parte, la stima nella mia libertà. Mi sono accorta che questi sono i due segni della verifica della fede». Ma questo chi l’ha scoperto? Chi tra noi è divenuto più consapevole della portata storica della fede? Chi si è implicato giocandosi totalmente in questa proposta (che non è l’ordine di scuderia), e l’ha verificata, e ne ha visto la convenienza umana. Si tratta di un esempio della frase che abbiamo spesso citato di Giussani: la fede diventa una esperienza presente, confermata nella realtà. Questa persona, vivendo una esperienza nel presente, non un ricordo del
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passato, ha reperito nell’esperienza stessa la convenienza umana dell’esperienza che stava facendo: e questo è quello che potrà farla resistere in un mondo in cui tutto dice violentemente l’opposto. Vi leggo un’altra testimonianza (è un’universitaria che scrive a un’amica). «Il volantinaggio è una dinamo per la fede e l’umanità, è bellissimo sorprendersi in movimento liberi [guardate che cosa dice!] per una gratitudine che già c’è e che cresce facendo. Ho detto ai miei [genitori] che sto
volantinando e per chi, e non hanno preso bene la notizia: “Te l’hanno venduta bene, sei una falsa cristiana” eccetera. Tutte le obiezioni che mi vengono sbattute in faccia da loro o dagli altri non scalfiscono però la mia certezza; anzi, è sempre più ragionevole, e io sono sempre più libera, mentre gli altri con il passare del tempo sono sempre più arrabbiati, da qualunque parte stiano. Anche questo è significativo, perché io non sono stata convinta dialetticamente, ma sono stata e sto con voi. Allora, diventano sempre più miei [miei!] i criteri ideali del movimento, unitamente al realismo e alla passione di realizzarli, così non ho bisogno di tapparmi il naso davanti alla politica che non mi piace, perché ho chiaro l’origine e lo scopo. In questo verifico la fede, cioè scopro che mi
plasma fino al punto di inverarsi in come mi muovo anche in politica. Domenica ho volantinato all’uscita della Messa vespertina. Siccome ero stata distratta nel pomeriggio, a Messa Gli ho chiesto in particolare di riconquistarmi. Quando sono uscita per volantinare mi sono trovata davanti a quattro altre ragazze che erano lì per lo stesso motivo, una di queste ha istantaneamente catalizzato tutta la mia attenzione [una ha catalizzato l’attenzione: l’autorità] per la faccia che aveva: uno splendore da quanto era contenta. Siccome mi sono avvicinata e la fissavo proprio (che imbarazzo!), lei mi ha chiesto perché. E io, anziché rispondere, le ho chiesto il suo nome e cosa facesse nella vita. Nel frattempo sono arrivate due amiche e anche loro sono rimaste stupite dalla faccia di questa. Alla fine del volantinaggio l’abbiamo salutata e siamo andate. Poi noi tre abbiamo avuto la stessa reazione: “Ma è sicuramente del Gruppo adulto!”. Io ho continuato a pensarci, perché non avevo mai capito la vocazione di san Matteo. Come è possibile che uno sguardo sia motivo sufficiente per mollare tutto e seguire? Gli ha detto: “Seguimi”, e Lo ha seguito. Come deve averlo guardato! Ora so che è possibile perché se lei in quel momento mi avesse detto: “Andiamo”, io sarei andata senz’altro, letteralmente conquistata. L’eterno [l’eterno!] è venuto a guardare me, me, così». Perché? Per quel rapporto con la Risurrezione di cui parlava il primo intervento. I viventi, i viventi!
Non i sentimentali, i viventi! Che possono sfidare gli altri con questa intensità del vivere.


Di fronte a quello che sta succedendo ho due sentimenti prevalenti che mi determinano tantissimo. Il primo è la gratitudine per quello che vedo succedere, per quello che è stato raccontato anche qua, per il lavoro che stiamo facendo. Perché io sono sicuro che senza il lavoro che stiamo facendo, senza l’accanimento nel lavoro che stiamo facendo non solo tanti di questi fatti non sarebbero successi – e questo è un dato con cui bisogna essere leali –, ma non mi sarei mai accorto della portata che hanno. Cioè non mi sarei mai accorto di che peso ha su di me il ritrovarmi spostato dallo scetticismo, di trovarmi lieto, vibrante, non mi sarei mai accorto della portata che ha storicamente il fatto che incontri gente e la sposti, la tiri via fisicamente dallo scetticismo, del fatto che c’è gente che entra dentro questo tritacarne, questa centrifuga in cui tutto ti butterebbe fuori, e resta unita con se stessa, lieta, felice. Insomma non mi sarei accorto della portata dell’esperienza che sto facendo. E l’altra cosa, l’altro sentimento che ho dentro è una inquietudine, un desiderio, quasi uno struggimento, perché quello che prevale adesso è che io voglio conoscere sempre di più che cosa rende possibile questo, che cosa c’è all’origine di questo, che cosa sta facendo accadere queste cose che vedo, perché non posso più ridurle a una questione di bravura, di organizzazione,
di vittoria o sconfitta numerica, di intelligenza, di quanto siamo bravi, di quanto siamo più capaci degli altri. Io ho bisogno di capire qual è l’origine di questa cosa che vedo che sta spostando me e gli altri.

E questo è il lavoro da fare: capire. Finisco leggendo un testo di don Giussani che reagisce di fronte a uno che non ha capito questa origine: «Un giorno del 1969, Giussani si sta aggirando per i corridoi della Cattolica, “dove dominava la rivoluzione”, quando si imbatte in “un ragazzo il quale diceva energicamente (era passato evidentemente alla rivoluzione), diceva: ‘Se non troviamo le
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forze che fanno la storia, noi siamo perduti!’ [questo apparteneva alla nostra storia, ma non si era reso conto della sua portata e non ne aveva capito l’origine: quali sono le forze che cambiano la storia]. Io non voglio addentrarmi nella descrizione della ingenuità ultima – come è di ogni ideologia che pretenda l’universalità – di questa frase. Io voglio semplicemente dire quello che mi è
venuto come contraccolpo dentro il cuore nel sentire quanto quello affermava: che le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”. Infatti, “la forza che fa la storia è un uomo che ha posto la sua dimora tra di noi, Cristo”. [Non dice che la forza che cambia è il sentimento, la forza che ci fa drizzare i capelli... no, «la forza che cambia la storia è un Uomo che ha posto la sua dimora fra di noi, Cristo»]. La riscoperta di questo impedisce la nostra distrazione come uomini, il riconoscimento di questo introduce la nostra vita all’accento della felicità, sia pure intimidita e piena di una reticenza inevitabile”. Giussani sottolinea che “è nell’approfondimento di queste cose che uno incomincia a toccarsi alla mattina le spalle e sentire il proprio corpo più
consistente e a guardarsi nello specchio e sentire il proprio volto più consistente, sentire il proprio io più consistente e il proprio cammino tra le gente più consistente, non dipendente dagli sguardi altrui, ma libero, non dipendente dalle reazioni altrui, ma libero, non vittima della logica di potere altrui, ma libero”».
Questa è la verifica della fede: ubi fides ibi libertas. Ciascuno adesso, come davanti a qualsiasi gesto che proponiamo, può fare la verifica in che misura è più libero, in che misura è più lieto, in che misura è più consistente, in che misura è cresciuta la coscienza dell’origine, perché se non cresce questa coscienza, anche se abbiamo raccontato fatti, succederà come abbiamo detto la volta scorsa: fatti senza giudizi. E fatti senza giudizi vuol dire che noi dai fatti non impariamo niente e
perciò alla fine continuiamo a dire giudizi senza fatti, cioè facciamo ideologia. Come se tutto quanto abbiamo vissuto non fosse stato utile per capire di più la portata di quello che abbiamo incontrato, cioè per renderci più consapevoli che le forze che cambiano la storia sono quelle che cambiano il cuore dell’uomo, e che la forza che fa la storia è un Uomo che ha posto la sua dimora tra di noi, Cristo.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 8 giugno alle ore 21.30. Riprendiamo ancora la prima lezione degli Esercizi della Fraternità con tutto questo che abbiamo visto. In tutte le città la celebrazione della festa del Corpus Domini sarà segnata da una processione pubblica. La Chiesa propone questo gesto tutti gli anni per ricordare che Gesù è una presenza che viene incontro oggi alla persona ed è una domanda a tutta la società. Per educarci alla totalità della vita della Chiesa, come tutti gli anni, proponiamo di partecipare alla processione del Corpus Domini
insieme a tutta la Chiesa. Siamo stati a Roma, ma vogliamo proporre a tutti quanti, a tutto il movimento anche questo gesto educativo alla totalità, ad allargare il cuore alla dimensione della Chiesa. Per il percorso che stiamo facendo, dovrebbe essere semplice per noi capire il valore di questa proposta. Un aiuto in questo può essere anche la mostra sull’Eucarestia, preparata da ITACA per il Congresso Eucaristico Nazionale, che sta girando nelle varie città e che vi prego di prendere
in considerazione: non possiamo sprecare l’occasione di questa mostra e del Congresso Eucaristico per fare un passo nella coscienza del valore dell’eucarestia per la nostra vita che ancora non è abbastanza chiaro come consapevolezza. Questo è un aiuto a non perderci il meglio. A Milano, la mostra sarà al Palazzo delle Stelline (corso Magenta) dal 31 maggio al 12 giugno 2011.
Sabato 11 giugno si terrà il 33° Pellegrinaggio a piedi da Macerata a Loreto con inizio alle ore 20.30 allo stadio di Macerata. Il pellegrinaggio è un’occasione per ritornare a essere mendicanti, per riconoscere tutta la grandezza del nostro desiderio, così grande che noi non siamo in grado di rispondere da soli.

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Volontari al Meeting. Il Meeting di Rimini è un esempio sul grande schermo di ciò che uno sguardo nuovo alla realtà può generare. Il Meeting è un gesto espressivo di tutto il movimento, di tutti, perché il luogo a cui possiamo invitare e dire: «Guarda, guarda che cosa viene fuori da una fede vissuta così! Che capacità di dare ragioni, di incontro, di proposta, di incidenza storica», per questo è un bene per tutti il Meeting, è uno dei beni più belli che la storia del movimento ha generato, per questo è una cosa di tutti. Ed è reso possibile anche attraverso l’io di ciascuno impegnato con questa realtà: dagli organizzatori ai relatori, dalla gente che partecipa ai volontari, si tratti di presentare una mostra, oppure di sorvegliare un cancello dove non passa quasi mai nessuno. Non è questo il punto, perché non lo facciamo per un tornaconto, ma, come dicevamo prima, per quel di più che già
abbiamo, come gratitudine. Quello che fa la differenza è il coinvolgimento della persona in quello che fa, non tanto quello che fa. Se uno è presente e accetta la sfida che deve affrontare per vivere il compito che gli è stato affidato, tutto diventa utile e ciascuno può vivere il servizio con un beneficio per sé. Se uno fa un
piccolo gesto come rapporto col Mistero, seppur piccolo è pieno di un significato infinito e acquista una portata senza limiti. Per questo ci sentiamo di proporre, come occasione privilegiata, il volontariato al Meeting.
Veni Sancte Spiritus

Le responsabilità dei cristiani «OPPORTUNE ET IMPORTUNE»



di mons. Luigi Negri

C’è una presenza che accompagna inesorabilmente la vita della società e la devasta: la violenza. Una violenza irresistibile e irrefrenabile: sempre più spesso comincia nell’àmbito delle famiglie ma poi dilaga a tutti i livelli della vita sociale. Noi vi assistiamo in un modo che sembra rassegnato, quando non come se fosse un elemento obiettivo della vita concreta e quotidiana. Mentre siamo a tavola, nel silenzio che caratterizza la vita di troppe famiglie, segno di sostanziale estraneità, la televisione ci mette sotto gli occhi la violenza inaudita delle masse sulle masse: urla, percosse, ferimenti, omicidi con tutto un accompagnamento di sangue, di lacrime e di disperazione. Che cosa non abbiamo visto nella vicenda libica e nelle altre cosiddette rivoluzioni?
E poi c’è la violenza nella nostra vita quotidiana, nelle nostre città e nei nostri paesi. E il volto limpido, solare, lieto, della piccola Yara ci accompagnerà per sempre. Questa ragazzina cui una o più belve umane hanno impedito una vita che non poteva non essere sentita e desiderata come piena di fiducia e di bellezza.
Le belve sono fra di noi. La violenza entra nell’ambito della normalità quotidiana. Violenza su tutti, innanzitutto sui bambini, nei modi più terribili e deviati, usati sempre più spesso come oggetti; violenza sui gruppi sociali minoritari e che non accettano di omologarsi alla vita della società violenta. E qui si apre il capitolo terribile dell’odio verso i cristiani e verso i segni della tradizione cristiana nei Paesi a maggioranza non cristiana. Violenza contro i disabili, i malati: violenza in molti casi giustificata da troppa «cattiva scienza», contro la vita umana e la sua strutturale indisponibilità a qualsiasi potere umano.
Chiediamoci se in questa perversione del nostro mondo noi cristiani abbiamo una qualche responsabilità. Consiglio a tutti di rileggere lo straordinario volume di Jacques Maritain, Il contadino della Garonna: contributo fondamentale per la comprensione della storia e delle difficoltà della Chiesa dagli anni ’50 del secolo scorso fino a oggi.
Secondo Maritain, l’errore fondamentale dei cristiani è di essersi inginocchiati davanti al mondo. «In larghi settori del clero e del laicato, ma l’esempio viene dal clero, non appena la parola mondo è pronunciata, una luce d’estasi passa negli occhi degli uditori». Inginocchiarsi di fronte al mondo ha significato e significa per troppa cultura cristiana condividere sostanzialmente l’idea della naturale bontà dell’uomo e del mondo. Se l’uomo è strutturalmente buono, allora non c’è assolutamente bisogno della redenzione. Una miscela di pelagianesimo, manicheismo e catarinismo fa sì che i cristiani accettino l’antropologia mondana senza nessuna istanza critica.
Si è persa la verità del peccato originale, confinato nell’àmbito della mitologia, e i limiti dell’uomo vengono dirottati nell’àmbito delle patologie psicologi- che, oggetto di terapie psicoanalitiche che alla fine li elimineranno totalmente.
Anche noi cristiani abbiamo dato il nostro contributo, teorico e pratico, a quell’«irrealismo antropologico», di cui ha così spesso e pertinentemente parlato Giovanni Paolo II.

Ma se il mondo è strutturalmente buono e la storia dell’umanità è la storia di un progresso definitivamente positivo, anche se attuato con gradualità, allora qual è la funzione della Chiesa: quella di scomparire nel mondo, perché il mondo possa, senza più nessuna obiezione dall’esterno, raggiungere la sua piena maturità?
Ben altro era quello che ci era stato messo nel cuore e come responsabilità da assumere di fronte a Dio, alla nostra coscienza, al cuore e alla storia degli uomini. Infatti, la novità della vita dell’uomo è solo Cristo – in cui si è reso e si rende definitivamente presente la misericordia di Dio – che accoglie l’uomo, lo libera dal suo male profondo, e lo fa camminare verso un destino di verità, di bellezza, di bene e di giustizia. Siamo stati in silenzio, cioè non siamo stati testimoni, testimoni della verità e della liberazione. Soltanto un’umile e certa testimonianza di Cristo incontra l’uomo di oggi come l’uomo di ogni tempo: alla luce del volto di Cristo emerge tutta l’inesorabile positività del cuore dell’uomo, ma insieme emerge anche l’inesorabile tendenza al male e all’odio che caratterizza anch’essa il cuore dell’uomo. L’uomo ha bisogno di essere educato. La testimonianza cristiana è un fattore fondamentale di educazione che favorisce, con il suo stesso esserci, una vita umana più positiva e più buona sulla terra. Se la Chiesa sta in silenzio, non annuncia Gesù Cristo, non coinvolge la libertà degli uomini nel grande evento della salvezza cristiana, allora questa assenza favorisce il dilagare del male, nel cuore dell’uomo e della società.

Fonte: http://www.diocesi-sanmarino-montefeltro.it/default.asp?id=456

domenica 22 maggio 2011

La fede, la scienza, lo stesso stupore nelle domande del Papa agli astronauti



STORICO COLLEGAMENTO DI BENEDETTO XVI CON LA STAZIONE SPAZIALE

Può succedere, a bordo di una stazione spaziale orbitante sulla Terra, di guardare l’Universo, e pregare? Lo ha domandato Benedetto XVI agli astronauti della Iss, la Stazione spaziale internazionale raggiunta ora dallo shuttle Endeavour. E da lassù l’astronauta Roberto Vittori ha risposto che sì, dopo una giornata di ricerca accade, di guardar giù, verso la Terra: «Un pianeta blu, e bellissimo».
Quella bellezza, ha detto Vittori, «prende il cuore, e guardandola viene spontaneo pregare».
Dello straordinario collegamento fra il Papa e gli equipaggi di Iss e Endeavour – inspiegabile la mancata diretta da parte della Rai – la prima cosa a colpire è che Benedetto XVI non ha fatto un discorso, ma ha posto delle domande a quei dodici astronauti stretti l’uno all’altro, undici uomini e una donna con la chioma ondeggiante in verticale, in assenza della gravità. Come si guarda al mondo, da lassù?, chiede il Papa. E la guerra, non sembra dall’Universo tanto più assurda, tra uomini che vivono assieme su una sola Terra? E com’è la salute del Pianeta, vista dal cielo?
Un Papa che fa domande a uomini nello spazio, esploratori inviati sulle tracce di antimateria e buchi neri, è una bella contraddizione all’immagine di una Chiesa oscurantista, della scienza nemica, che ci viene ogni giorno conculcata. Dunque il Papa agli astronauti pone domande, avvinto dalla curiosità per quella inedita prospettiva dal cielo – la Terra, là sotto, così piccola.
Bellissima, però; tanto che nel guardarla, blu dei suoi oceani, viene da pregare. Il Papa annuisce leggermente, come ben comprendendo. Guardare la bellezza del creato e essere spinti a cercarne il creatore, è cosa antica; accadeva alle tribù primitive, sotto le stelle; accadeva agli antichi Greci, che chiamavano 'thauma' quello stupore. Accade ancora ai nostri figli, quando sono piccoli, davanti al mare, o nelle notti limpide; chi ha fatto le stelle, domandano – come se fosse evidente che la realtà non s’è fatta da sola.
E anche in orbita a 27 mila chilometri orari, a 400 chilometri da Terra, accade agli uomini, stanchi di calcoli, di guardar giù, e aver voglia di pregare.
Domanda ancora il Papa all’astronauta Paolo Nespoli, che ha perso la madre mentre era quassù, se si sia sentito solo, quel giorno, lei morente e lui così lontano. «Ho sentito arrivare quassù le vostre preghiere», risponde Nespoli. Poi dalla stazione spaziale mostrano a Benedetto la medaglia di Michelangelo da lui donata che fluttua dolcemente, libera dalla gravità: e a lui scappa un sorriso di meraviglia infantile, nel vedere l’eterna legge che ci costringe al suolo cancellata.
Nel congedarsi un astronauta si lascia andare a sollevarsi nella cabina: ancora il Papa sorride. Di quel sorriso che hanno gli anziani quando vedono i giovani partire per una grande avventura.
Proprio un’ora prima, agli studenti dell’Università Cattolica, Benedetto aveva ricordato la tendenza della modernità a ridurre l’orizzonte umano a ciò che è misurabile e a eliminare dal sapere critico la questione del senso, la 'domanda cruciale'. Ma ora forse, guardando quei giovani russi, americani, italiani, scienziati, esploratori del cielo, misuratori di stelle, ha ragione di confortarsi. Interrogando quella pattuglia, che dice che anche lassù succede di stupirsi della bellezza del mondo, e di pregare; che anche lassù arrivano le preghiere, e accompagnano nell’ora del dolore. La legge di gravità sovvertita, un’altra legge resta, dentro agli uomini: più chiara anzi quando la Terra appare piccola, là in basso, e l’Universo immenso. La legge antica che spinge a alzare lo sguardo, e a cercare. Oltre le stelle, oltre le galassie e l’antimateria.
Sulle tracce di una mano di cui resta, ovunque, come stampata, l’impronta.

MARINA CORRADI

martedì 17 maggio 2011

Perché si faccia «piena luce» la verità ha bisogno dell’amore

L a volontà che si faccia piena luce, davanti a Dio e agli uomini. Le linee guida date dalla Congregazione per la Dottrina della Fede ai vescovi per l’intervento nel caso di abusi sessuali di sacerdoti su minori semplicemente applicano il rigore voluto da Benedetto XVI e già espresso nella Lettera ai cattolici d’Irlanda. La cui drammatica eco – «Avete tradito la fiducia riposta in voi da giovani innocenti. Dovete rispondere a Dio onnipotente, come pure a tribunali debitamente costituiti» – si riflette in queste linee: nella primaria sollecitudine per le vittime, nella collaborazione con la giustizia civile. Come ha detto Benedetto XVI nel libro intervista con Peter Seewald, «quello che non deve mai succedere è che si fugga, e si faccia finta di non vedere». Atteggiamento del quale un’immagine potrebbe essere il cardinale Bagnasco, l’altro giorno a Sestri Ponente: che è andato di persona in una comunità sconvolta dall’arresto di un sacerdote.
Nessun equivoco dunque sulla drammaticità del male inflitto, e patito, né sulla necessità che la giustizia faccia il suo corso. Ma, abituati come siamo al giustizialismo rabbioso delle piazze, in queste linee guida troviamo invece altri toni, oggi non così usuali. «Il vescovo ha il dovere di trattare tutti i suoi sacerdoti come padre e fratello», si legge. È una questione, fondamentalmente, di amore al primo posto nel discernimento sul cosa fare, di fronte al peggiore dei mali che possano intaccare la Chiesa. Amore che, come ha detto Benedetto XVI in «Luce del mondo», «non è soltanto gentilezza e cortesia, ma è amore nella verità»: «Anche la punizione può essere un atto d’amore».
E questo è il punto in cui, nella rigorosa fermezza impartita dal Papa contro il cancro della pedofilia, si vede il discrimine fra la giustizia degli uomini e quella che anima la Chiesa: non è mai per annientare, per distruggere, che si processa e si punisce un colpevole. C’è sempre al fondo una tensione a riscattare, a ricreare, perfino dal più profondo dei baratri. Di fronte al più infame dei peccati, là dove il sangue freme, ed è istintivo il desiderio di restituire il male fatto, la Chiesa ricorda ai vescovi che devono trattare i loro sacerdoti «come padri, e fratelli».
E ben sapendo poi come la più severa delle leggi non elimini la possibilità del male, il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede dedica ampio spazio alla formazione e all’accompagnamento dei preti. Tutto, in realtà, comincia qui. Perché un ragazzo decide di farsi prete? Perché a fronte dell’amore che prova per Cristo, nessun altro amore tiene, spiegano quelli che ancora oggi, contro la corrente, fanno questa scelta. E come, a fronte di questo inspiegabile vertiginoso amore, il destino di alcuni possa precipitare nell’abiezione più vergognosa, è un doloroso buio mistero. Ma occorre non dimenticare, di fronte allo scandalo, che è possibile, e milioni di volte nella storia della Chiesa è stato vero, restare invece fedeli a quell’amore promesso ­assoluto, totale, tanto che niente, al confronto, basta.
Anche in queste linee date sull’urto di un frangente drammatico, la Chiesa si conferma fedele alla sua vocazione. Che è alla verità, ma alla verità nell’amore. E perciò non cede, come certa umana 'giustizia', ad ansie di annientamento dei colpevoli; e perciò va oltre la condanna, e pensa a come fare, a come educare, perché non accada più. In fin dei conti è semplicemente l’attitudine di una madre: che, comunque, spera che il figlio viva, e ritorni; che riflette su dove ha sbagliato, ed è tesa a non ripetere i suoi errori. Materna antica attitudine, nelle città degli uomini così strana, e straniera.
MARINA CORRADI

domenica 15 maggio 2011

Amore - Tutti i colori della coppia


Erano centinaia le coppie venute a celebrare col vescovo la festa annuale dei fidanzati. A ognuna gli organizzatori avevano dato un fazzoletto colorato. Con i sei colori dovevano formarsi altrettanti gruppi, incaricati di formulare ciascuno una domanda. Ai fidanzati piacque questa tavolozza dell’amore, tanto che chiesi ad ognuno di scegliere e indicare all’altro il colore in cui più si ritrovava: ne venne fuori un arcobaleno, che mi fece pensare a quanto sia vario e ricco il mondo delle relazioni di coppia. I primi tre colori potrebbero essere riferiti a Dio, Trinità d’amore: se il bianco rinvia alla luce del Padre, che tutto avvolge e in cui tutto vive, il rosso evoca la vicenda del Figlio, venuto nella carne per versare il suo sangue sulla croce e risorgere alla vita per noi, mentre il giallo-oro richiama la presenza dello Spirito Santo, vincolo che unisce il Padre e il Figlio e irradia nel tempo lo splendore dell’eternità. Nella realtà misteriosa significata da questi colori si può trovare la risposta alla domanda che ci riguarda tutti: chi ci renderà capaci di amare? Kahlil Gibran nel suo libro Il Profeta risponde in modo semplice e denso: «Quando ami non dire: 'Ho Dio nel cuore'; di’ piuttosto: 'Sono nel cuore di Dio'».
Si diventa capaci di amare quando ci si scopre amati da Dio, lasciandoci condurre da lui verso il futuro, che egli vuole costruire con noi. Fare questa esperienza vuol dire credere nel Dio Trinità, che si è rivelato nella croce e risurrezione del Signore Gesù. Nell’unità del reciproco darsi ed accogliersi dei Tre, il Dio cristiano si offre come l’evento irradiante dell’amore eterno: «In verità, vedi la Trinità, se vedi l’amore. Ecco sono tre: l’Amante, l’Amato e l’Amore» (sant’Agostino). Sposarsi nel nome della Trinità vuol dire entrare nell’esperienza viva e profonda di questo amore: perciò, non solo è giusto e necessario per chi crede, ma è bello, della bellezza a cui solo la partecipazione all’amore infinito può aprirci. Attraverso la missione del Figlio e dello Spirito Santo la Trinità si rivela come l’origine, il grembo e la patria dell’amore. Solo quando si riconosce amata dal suo Dio, la creatura diviene capace di amare l’altro al di là di ogni misura di stanchezza. Sentendosi avvolto dall’amore dei Tre, che sono uno, chi crede scopre di poter costruire storie d’amore vere e definitive. Chi fa esperienza di questo amore, impara a credere nella possibilità di un amore eterno. La fede non cesserà allora di sostenere la fatica di amare con il racconto dell’amore, che ci è stato rivelato nella croce e resurrezione di Gesù e continua a raggiungerci nella preghiera e nei sacramenti. Quanti hanno incontrato il Dio di Gesù Cristo, hanno creduto all’amore che non delude. Immersi nei colori della Trinità, essi sanno di poter giocare la propria vita in un vincolo definitivo, che richiede il dono completo di sé. Un vincolo che, affidato a Dio e benedetto nel suo santo nome, può fondare famiglie che siano dimore affidabili dell’amore che non delude. Anche per questo motivo è giusto ed è bello sposarsi in chiesa! Segno efficace dell’opera di Dio, il sacramento del matrimonio comunica agli sposi la grazia dell’incontro con Cristo, sposo della Chiesa, la presenza santificante dello Spirito e la promessa della fedeltà di Dio Padre per tutta la vita. Questa profonda unità, radicata in Dio e capace di sostenere i due nella varietà delle opere e dei giorni, può essere significata dal colore del cielo, sempre profondo nella pur continua varietà dei toni e delle forme, che vanno dall’azzurro assolato al profondo blu delle notti, dalle tinte infuocate dei tramonti al rosa dell’aurora apportatrice di luce. Come la profondità del cielo e la varietà dei suoi colori non si contraddicono, così la fedeltà e la novità nella vita di coppia fanno parte l’una dell’altra: gli sposi, consacrati a Dio, vengono accolti e custoditi da lui, sempre nuovo nella fedeltà. Confidando in questo aiuto, essi si promettono fedeltà eterna, con l’impegno «di amarsi e onorarsi tutti i giorni della loro vita», di rinnovare cioè ogni giorno il sì della reciproca accoglienza, nella buona e nella cattiva sorte, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia. Senza questo continuo, reciproco accogliersi, nutrito alle sorgenti eterne dell’amore, non ci potrà essere vera gioia fra i due: «Il fiore del primo amore appassisce, se non supera la prova della fedeltà» (Søren Kierkegaard).
Due colori possono evocare lo stile di comportamento più adatto al rapporto di coppia: il verde della speranza e il rosa della mitezza e del rispetto. Colore delle piante semprevive, sul quale il trascorrere delle stagioni non incide, il verde evoca la virtù forse più necessaria alla scelta di sposarsi e di aprirsi al dono dei figli: la speranza, fondata sull’amore di Dio e sull’impegno di reciproca fedeltà dei due. Chi non spera non ama, perché non riesce ad accettare il rischio che ogni amore comporta, in quanto è il prezzo dell’incontro delle due libertà che scelgono di donarsi l’una all’altra. Senza speranza la fatica arresta il cammino.
L’amore vive di speranza, dovendo ogni giorno aprirsi alle sorprese del futuro, che chiamano i due a mettersi in gioco sempre di nuovo: se non è l’impegno di ogni giorno, l’amore è il rimpianto di tutta la vita! La forza della speranza rende capaci di cominciare ogni giorno da capo: essa fa giovane l’amore, anche quando il peso degli anni e le prove della vita lo espongono ai rischi della stanchezza e delle disillusioni.
Con la speranza, lo stile dell’amore esige la tenerezza, nutrita di attenzione e di rispetto e capace di dare gioia al cuore dell’altro: il rosa della mitezza tenera ed accogliente è non meno necessario degli altri colori dell’amore. Gli sposi sono chiamati a custodire ciascuno la libertà e la dignità dell’altro e a vivere la generosità del reciproco darsi. Perciò, una parola mite, un gesto di tenerezza sono capaci di sanare tante ferite e di far crescere i due nella pace. La stessa unione dei corpi, aperta alla fecondità in maniera responsabile e vissuta con generosità, tenerezza e rispetto, fa degli sposi veicolo dello Spirito Santo l’uno per l’altra. L’esperienza della vita condivisa mostra peraltro come l’elogio della tenerezza non escluda nessuna delle età dell’amore!
Non è forse vero che la tenerezza che si dimostrano due sposi avanti negli anni, il loro guardarsi con un amore che li riconosce belli l’uno per l’altra nonostante il tempo passato, tocca il cuore e fa sperare che l’amore sia sempre possibile, e che perciò la vita può essere sempre bella? Qualcuno dei fidanzati mi chiese di aggiungere ai colori citati almeno qualche altro: ad esempio, il grigio, per significare la monotonia in cui a volte può cadere il rapporto di coppia, o il viola, che simboleggia i tempi della prova o quelli dell’attesa, e rimanda a situazioni in cui tutti possono trovarsi di fronte alle sfide della vita, quali le ore del dolore e della malinconia o i momenti in cui l’impatto con una prova inaspettata o una delusione impensabile rischia di mettere in crisi il rapporto. L’osservazione mi sembrò giusta, al punto che sarei stato tentato di aggiungere all’elenco l’indaco delle notti oscure o il turchese delle fasi di transizione. Avrei voluto perfino aggiungere il nero del lutto e delle lacrime, ma una coppia mi fece notare che questo colore non appartiene all’amore, perché l’amore non perdona la morte: «Amare qualcuno significa dirgli: Tu non morirai!» (Gabriel Marcel). Tutti questi colori evocano, comunque, le debolezze e le fatiche possibili nella vita di coppia: la fragilità psicologica e affettiva delle relazioni fra i due e in famiglia; l’impoverimento della qualità dei rapporti che può convivere con ménages all’apparenza stabili e normali; lo stress originato dalle abitudini e dai ritmi imposti dall’organizzazione sociale, dai tempi di lavoro, dalle esigenze della mobilità; la cultura di massa veicolata dai media che influenza e corrode le relazioni familiari, invadendo in maniera indiscreta la vita della famiglia con messaggi che banalizzano il rapporto coniugale.

Gli stessi colori «di transizione», tuttavia, in quanto tesi verso la luce, possono richiamare i punti di forza della scelta di fare famiglia: la sua corrispondenza alla natura intima e profonda della persona umana fatta per amare; il suo essere non a caso la prima e la più originaria delle comunità naturali; la sua capacità di resistere alle sfide dei cambiamenti, attingendo di volta in volta alle risorse morali e affettive delle quali è custode. Agli occhi della fede, poi, appare qualcosa di ancora più grande: la famiglia ha un legame profondo con la Trinità. Tutti i colori di Dio vengono a riflettersi in essa. Lo aveva intuito una bambina, che la catechista aveva invitato a riflettere così: «Il Padre è Dio, il Figlio è Dio, lo Spirito Santo è Dio. Come spiegheresti questo?». La piccola, fattasi tutta seria, rispose dopo qualche istante: «Dio sarà il nome di famiglia». La teologa in erba aveva percepito qualcosa di grande: la comunione dei Tre che sono Uno si riflette e vive nella comunità familiare. Certo anche la differenza è grande: le tre Persone in Dio sono Uno, mentre nella famiglia il legame d’amore non renderà mai perfettamente uno chi la compone. Tuttavia, si è famiglia quando si tende con tutte le forze ad essere uno nell’amore, non nonostante, ma proprio grazie alle diversità, analogamente a come avviene nell’amore eterno. Infine è la luce a comprendere tutti colori, a renderli visibili.
Per chi crede la luce vera, venuta in questo mondo, arriva dall’alto, non a distruggere, ma a plasmare, costruire ed esaltare le forme della vita, come nei meravigliosi quadri di Caravaggio. È la luce della grazia divina che illumina, salva, perdona, risana. Essa non annulla le difficoltà, ma ci rende capaci di superarle: col suo aiuto possiamo dire veramente che «non è il cammino che è difficile, è il difficile che è cammino!» (Pavel Evdokimov). L’ultima parola sull’amore non potrà essere perciò che l’invocazione di questa luce, vissuta nel silenzio dell’ascolto e dell’adorazione di Dio, dove ci si lascia semplicemente amare da lui, e nella supplica, che chiede umilmente alla Trinità di renderci partecipi della sua vita divina: è l’inno del grazie, della lode, dell’intercessione, che vorrei innalzare per tutti gli sposi, presenti e futuri, ed insieme con loro.
Sposarsi nel nome della Trinità vuol dire entrare nell’esperienza viva e profonda di questo amore: perciò non solo è necessario per chi crede, ma è bello, della bellezza cui solo la partecipazione all’infinito può aprirci. Soltanto quando si riconosce voluta dal suo Dio, la creatura diviene capace d’abbracciare l’altro al di là di ogni stanchezza e impara a credere alla possibilità di un dono eterno Ecco perché sposarsi in chiesa!
di Bruno Forte

FARSI AFFERRARE DA GESÙ / QUELLA RADICE CHE DÀ FORZA



I cristiani non devono avere paura, ha detto il Papa parlando alle Pontificie Opere Missiona­rie. Non devono avere paura di proclamare il Van­gelo, anche se «sono attualmente il gruppo reli­gioso che soffre il maggior numero di persecu­zioni », ha ricordato. E basta pensare alle crona­che dall’Iraq all’Egitto, al Pakistan, all’Orissa, al Sudan, e avere anche una vaga memoria della fe­rocia subita, per domandarsi istintivamente: non aver paura? E come si fa, in certi posti, a non a­vere paura? Perfino lontano dagli scenari san­guinosi, nel civile sicuro orizzonte occidentale, non ci vuole un po’ di coraggio forse semplice­mente per palesarsi cristiani in un mondo seco­larizzato? (Nelle scuole, nei luoghi di lavoro, quel­la tacita pressione a richiudere la fede in una ca­mera privata, interiore, a non portarla nell’are­na del vivere comune).
Non dobbiamo avere paura, dice Benedetto XVI, e le sue parole riecheggiano quel 'non abbiate paura' di Giovanni Paolo II la cui eco è risonata il primo maggio in una piazza San Pietro gremi­ta e commossa. Già, non dobbiamo; ma, come si fa a non avere paura? Come fanno i cristiani in vaste zone del mondo a vivere, e a restare e a te­stimoniare il Vangelo, nella minaccia che in­combe? E come facciamo più modestamente noi, a non trovare più comodo e conveniente alli­nearci, omologarci al conformismo della cultu­ra dominante? Non bisogna avere paura, già; ma, come diceva Manzoni, il coraggio uno non se lo può dare. E allora un ascoltatore distratto potrebbe pensa­re a un imperativo morale che ci venga co­mandato, cui con le nostre forze dobbiamo a­derire; come soldati, ai quali sia stato inculca­to un senso militare dell’onore, e non ne pos­sano venire meno. Ma c’è un passaggio nel discorso di Benedetto XVI che di quel 'non abbiate paura' è la chiave di volta, e che nella sintesi dei titoli dei giornali ri­schia forse di non essere abbastanza notato. «Condizione fondamentale per l’annuncio è la­sciarsi afferrare completamente da Cristo», dice il Papa: in questo essere afferrati è la 'linfa vita­le' del cristiano e dell’annuncio cristiano. Affer­mazione che, a guardarla dalla platea di un cri­stianesimo formalmente e distrattamente eredi­tato – come è per non pochi in Occidente – è un capovolgimento radicale della questione. Perché la vulgata appresa da molti della nostra genera­zione – forse per colpa anche nostra, noi alunni svogliati – sembrava insistere sul cristianesimo come un 'dover essere', un dovere aderire a u­na morale, uno sforzarci di virtù. E invece la con­dizione fondamentale per vivere la fede e an­nunciarla, ricorda Benedetto, è «lasciarsi afferrare completamente da Cristo». Un essere presi, con­quistati, abitati; non un doverismo, un ferreo im­porsi una legge da osservare. Come Benedetto XVI ha scritto nell’incipit della Deus caritas est ,
«all’inizio dell’essere cristiano non c’è una deci­sione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona».

E dunque quel 'non abbiate paura' che da Gio­vanni Paolo II a Benedetto ci viene ripetuto non è l’ordine di aderire a un imperativo sia pure su­periore, ma è l’esortazione a lasciarsi semplice­mente afferrare da Cristo. Certo, anche questo comporta una paura, in uo­mini educati al culto di sé stessi, e di sé padroni; è un abbandonarsi, e anche questo richiede co­raggio. Certo, ognuno può obiettare di essere i­nadeguato e incapace, non assolutamente al­l’altezza di quel compagno. Ma il nostro Dio, ri­corda il Papa, è uso a mettere il suo tesoro in 'va­si di creta'. E la creta è terra, comune, e fragile. Però nella forma del vaso è fatta per accogliere. «L’anima non è che una cavità che egli riempie», ha scritto Clive Staples Lewis – l’autore di Cro­nache di Narnia – con l’intuizione folgorante del poeta. E dunque noi vasi di creta, materia da po­co; ma, colmati, capaci anche di un’appartenenza più grande della paura.
MARINA CORRADI Avvenire 15/05/11

sabato 14 maggio 2011

Nella famiglia la realizzazione dell’uomo «Qui si incontrano teologia dell’amore e teologia del corpo»

«Nei corpi lo spirito si manifesta e opera»

Il discorso rivolto ieri dal Papa ai partecipanti all’Incontro promosso dal Pontificio Istituto Gio­vanni Paolo II per gli studi su matri­monio e famiglia in occasione del XXX anniversario di fondazione.
...Il nuovo Beato Giovanni Paolo II, che, come è stato ricordato, pro­prio trent’anni fa subì il terribile at­tentato in Piazza San Pietro, vi ha af- fidato, in particolare, per lo studio, la ricerca e la diffusione, le sue «Cate­chesi sull’amore umano», che con­tengono una profonda riflessione sul corpo umano. Coniugare la teologia del corpo con quella dell’amore per trovare l’unità del cammino dell’uo­mo: ecco il tema che vorrei indicarvi come orizzonte per il vostro lavoro.
P oco dopo la morte di Miche­langelo, Paolo Veronese fu chiamato davanti all’Inquisi­zione, con l’accusa di aver dipinto fi­gure inappropriate intorno all’Ulti­ma Cena. Il pittore rispose che anche nella Cappella Sistina i corpi erano rappresentati nudi, con poca rive­renza. Fu proprio l’inquisitore che prese la difesa di Michelangelo con u­na risposta diventata famosa: «Non sai che in queste figure non vi è cosa se non di spirito?». Da moderni fac­ciamo fatica a capire queste parole, perché il corpo ci appare come ma­teria inerte, pesante, opposta alla co­noscenza e alla libertà proprie dello spirito. Ma i corpi dipinti da Miche­langelo sono abitati da luce, vita, splendore. Voleva mostrare così che i nostri corpi nascondono un miste­ro. In essi lo spirito si manifesta e o- pera. Sono chiamati ad essere corpi spirituali, come dice san Paolo (cfr
1Cor 15,44). Ci possiamo allora chie­dere: può questo destino del corpo illuminare le tappe del suo cammino? Se il nostro corpo è chiamato ad es­sere spirituale, non dovrà essere la sua storia quella dell’alleanza tra cor­po e spirito? Infatti, lungi dall’oppor­si allo spirito, il corpo è il luogo dove lo spirito può abitare. Alla luce di que­sto è possibile capire che i nostri cor­pi non sono materia inerte, pesante, ma parlano, se sappiamo ascoltare, il linguaggio dell’amore vero.
L a prima parola di questo lin­guaggio si trova nella creazione dell’uomo. Il corpo ci parla di un’origine che noi non abbiamo con­ferito a noi stessi. «Mi hai tessuto nel seno di mia madre», dice il Salmista al Signore ( Sal 139,13). Possiamo af­fermare che il corpo, nel rivelarci l’O­rigine, porta in sé un significato filia- le, perché ci ricorda la nostra gene­razione, che attinge, tramite i nostri genitori che ci hanno trasmesso la vi­ta, a Dio Creatore. Solo quando rico­nosce l’amore originario che gli ha dato la vita, l’uomo può accettare se stesso, può riconciliarsi con la natu­ra e con il mondo. Alla creazione di Adamo segue quella di Eva. La carne, ricevuta da Dio, è chiamata a rende­re possibile l’unione di amore tra l’uomo e la donna e trasmettere la vi­ta. I corpi di Adamo ed Eva appaio­no, prima della Caduta, in perfetta armonia. C’è in essi un linguaggio che non hanno creato, un eros radi­cato nella loro natura, che li invita a riceversi mutuamente dal Creatore, per potersi così donare. Compren­diamo allora che, nell’amore, l’uomo è 'ricreato'. Incipit vita nova, diceva Dante ( Vita Nuova I,1), la vita della nuova unità dei due in una carne. Il vero fascino della sessualità nasce dalla grandezza di questo orizzonte che schiude: la bellezza integrale, l’u­niverso dell’altra persona e del 'noi' che nasce nell’unione, la promessa di comunione che vi si nasconde, la fecondità nuova, il cammino che l’a­more apre verso Dio, fonte dell’amo­re. L’unione in una sola carne si fa al­lora unione di tutta la vita, finché uo­mo e donna diventano anche un so­lo spirito. Si apre così un cammino in cui il corpo ci insegna il valore del tempo, della lenta maturazione nel­l’amore. In questa luce, la virtù della castità riceve nuovo senso. Non è un 'no' ai piaceri e alla gioia della vita, ma il grande 'sí' all’amore come co­municazione profonda tra le perso­ne, che richiede il tempo e il rispet­to, come cammino insieme verso la pienezza e come amore che diventa capace di generare vita e di accoglie­re generosamente la vita nuova che nasce.
Certo che il corpo contiene an­che un linguaggio negativo: ci parla di oppressione dell’altro, del desiderio di possedere e sfrutta­re. Tuttavia, sappiamo che questo lin­guaggio non appartiene al disegno originario di Dio, ma è frutto del pec­cato. Quando lo si stacca dal suo sen­so filiale, dalla sua connessione con il Creatore, il corpo si ribella contro l’uomo, perde la sua capacità di far trasparire la comunione e diventa terreno di appropriazione dell’altro. Non è forse questo il dramma della sessualità, che oggi rimane rinchiu­sa nel cerchio ristretto del proprio corpo e nell’emotività, ma che in realtà può compiersi solo nella chia­mata a qualcosa di più grande? A que­sto riguardo Giovanni Paolo II parla­va dell’umiltà del corpo. Un perso­naggio di Claudel dice al suo amato: «la promessa che il mio corpo ti fece, io sono incapace di compiere»; a cui segue la risposta: «il corpo si rompe, ma non la promessa...» ( Le soulier de satin , Giorno III, Scena XIII). La for­za di questa promessa spiega come la Caduta non sia l’ultima parola sul corpo nella storia della salvezza. Dio offre all’uomo anche un cammino di redenzione del corpo, il cui linguag­gio viene preservato nella famiglia. Se dopo la Caduta Eva riceve questo nome, Madre dei viventi, ciò testi­monia che la forza del peccato non riesce a cancellare il linguaggio ori­ginario del corpo, la benedizione di vita che Dio continua a offrire quan­do uomo e donna si uniscono in una sola carne. La famiglia, ecco il luogo dove la teologia del corpo e la teolo­gia dell’amore si intrecciano. Qui si impara la bontà del corpo, la sua te­stimonianza di un’origine buona, nell’esperienza di amore che ricevia­mo dai genitori. Qui si vive il dono di sé in una sola carne, nella carità c­o­È niugale che congiunge gli sposi. Qui si sperimenta la fecondità dell’amo- re, e la vita s’intreccia a quella di al- tre generazioni. È nella famiglia che l’uomo scopre la sua relazionalità, non come individuo autonomo che si autorealizza, ma come figlio, spo- so, genitore, la cui identità si fonda nell’essere chiamato all’amore, a ri- ceversi da altri e a donarsi ad altri.
Questo cammino dalla creazione trova la sua pienezza con l’Incarnazione, con la venuta di Cristo. Dio ha assunto il corpo, si è rivelato in esso. Il movimento del corpo verso l’alto viene qui in- tegrato in un altro movimento più originario, il movimento umile di Dio che si abbassa verso il corpo, per poi elevarlo verso di sé. Come Figlio, ha ricevuto il corpo filiale nella gratitu- dine e nell’ascolto del Padre e ha do- nato questo corpo per noi, per gene- rare così il corpo nuovo della Chiesa. La liturgia dell’Ascensione canta que- sta storia della carne, peccatrice in A- damo, assunta e redenta da Cristo. È una carne che diventa sempre più piena di luce e di Spirito, piena di Dio. Appare così la profondità della teo- logia del corpo. Questa, quando vie- ne letta nell’insieme della tradizione, evita il rischio di superficialità e con- sente di cogliere la grandezza della vocazione all’amore, che è una chia- mata alla comunione delle persone nella duplice forma di vita della ver- ginità e del matrimonio.
Cari amici, il vostro Istituto è posto sotto la protezione del­la Madonna. Di Maria disse Dante parole illuminanti per una teo­logia del corpo: «nel ventre tuo si rac­cese l’amore» ( Paradiso XXXIII, 7). Nel suo corpo di donna ha preso cor­po quell’Amore che genera la Chie­sa. La Madre del Signore continui a proteggere il vostro cammino e a ren­dere fecondo il vostro studio e inse­gnamento, a servizio della missione della Chiesa per la famiglia e la so­cietà. Vi accompagni la Benedizione Apostolica, che imparto di cuore a tutti voi. Grazie.
Benedetto XVI

venerdì 13 maggio 2011

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 6 aprile 2011

Testo di riferimento: «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova», suppl. a Tracce-Litterae
Communionis, n. 5 (2011), Società Coop. Ed. Nuovo Mondo, Milano 2011, pp. 4-10.
• Ballata dell’uomo vecchio
• Silenzio cantatore
Gloria
Riprendiamo il nostro percorso. Incomincio leggendo due lettere che mi avete mandato. «Guardarel’io-in-azione per me, ora, significa riconoscere una profonda smemoratezza. L’ultima volta hai detto: “Voi raccontate i fatti e poi aggiungete quello che volete”; hai fotografato in modo straordinario molti dei miei ultimi anni...». Questo è decisivo per renderci conto del perché noi, malgrado tutto quanto ci diciamo, non facciamo esperienza. E non è che se adesso raccontiamo dei fatti senza giudicare siamo meno ideologici di prima – cioè quando davamo giudizi senza i fatti –: è un’altra forma di ideologia, è un altro modo di far fuori l’esperienza, che resta inutile per la vita.
Perché ci sono due atteggiamenti: o fatti senza giudizio o giudizio senza fatti. Potete scegliere... Che cosa accomuna tutti e due? La mancanza di esperienza. Per questo dico che una cosa è seguire don Giussani e un’altra cosa l’intenzione di seguirlo; questo è un esempio, parliamo di “esperienza”, ma
senza dare a questa parola il senso e il significato vero. Gli esiti li vedremo dopo. «...Posso però dire che se non avessi preso sul serio il lavoro di Scuola di comunità e quello di seguirti così come posso ora, alle sette e trenta del mattino nel mio ufficio credo che non avrei neppure questo barlume di coscienza. Vivo di parentesi e ora è chiarissimo, direi carnale, cosa tu intendessi per spaccatura tra
sapere e credere. Mi sono trovato di recente davanti alla domanda: ma Cristo cosa c’entra con il fatturato, con i semiconduttori [cioè con il lavoro]? E non so rispondermi. Ma mentre prima questa miseria riconosciuta mi bloccava, ora mi rilancia, mi fa friggere, sono fatto di desiderio e quando ti ascolto sento un amico che mi pungola, che mi richiama e che mi vuol bene». Renderci conto di
questo ci fa capire perché don Giussani, come abbiamo richiamato all’inizio degli Esercizi, dice che l’unica modalità di fare la strada è non “fatti senza giudizio” o “giudizio senza fatti”, ma un’esperienza vera. La conseguenza del non fare una strada si vede subito, e canta come il “silenzio cantatore”. Ascoltate quest’altra testimonianza: «Ti scrivo per raccontarti cosa ho scoperto di me in
quest’ultimo periodo. A Pasqua è venuta da noi una coppia di sposi che non conoscevamo direttamente, che è stata invitata grazie ad alcuni amici in comune. Sapevamo però la loro storia. A settembre hanno perso una bimba di dodici anni malata di tumore. Durante il pranzo questi nuovi amici ci raccontavano del loro dolore in alcuni tratti disperato, e allora qualcuno domanda con interessante provocazione: “Si può essere ancora felici dopo un dramma così, dopo un dolore
così?”. Alcuni di noi hanno cercato di rispondere a partire da esperienze viste o vissute, ma a poco serviva. A un certo punto, un amico ci incita: “Dai, forza, rispondiamo!”. Si è creato tra noi un silenzio per me troppo lungo, quasi imbarazzante. Non ricordo poi come si è rotto questo silenzio,
ricordo che mi sono alzata e con la scusa di controllare qualche figlio che giocava in giardino sono uscita dalla sala da pranzo. In un primo momento, parlando con qualcuno che era in giardino con me, trovavo tutte le scuse possibili per giustificare il mio comportamento: “Non si può essere così incalzanti, è successo tutto da così poco tempo, il dolore è ancora così vivo e qualsiasi cosa uno
possa dire non servirà a molto”. E anche dicevo: “Il tempo aiuterà, sono sicura”. Ma dentro di me [non è che noi scherziamo] non ero tranquilla. E una tristezza sempre più pungente si faceva sentire.
Il giorno dopo ho la possibilità di confrontarmi con gli amici che erano a pranzo con me, e scopro che quel silenzio era stato significativo non solo per me. Qualcuno dice: “Quell’incapacità di non saper rispondere alla domanda di ieri sulla felicità fa pensare”. Ma la mia non era una tristezza legata alla mia incapacità di risposta, ma a una mancanza di certezza [l’esito del non fare la strada che ci indica don Giussani è che non si arriva mai alla certezza]. Se mi avessero detto: “Tuo figlio è
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tonto”, non avrei esitato un attimo a rispondere, non sarebbe trascorso neppure un attimo di incertezza, avrei gridato e dimostrato che non era vero. In quel giorno di Pasqua [in quel giorno di Pasqua, non il venerdì, in quel giorno di Pasqua!] io non è che non sapevo rispondere alla domanda (ne conosco tante di belle frasi e anche di esperienze che possano essere di aiuto, anche se non le ho
vissute in prima persona), il mio silenzio nasceva dal fatto che io non sono così certa che Gesù può tutto, può rendere felice anche dopo un dolore così forte [e di questo si accorge non per un ragionamento, ma attraverso il paragone tra come avrebbe reagito davanti all’affermazione che il figlio è tonto e come ha reagito davanti alla domanda sulla felicità di quella donna: si vede nell’azione, in come noi ci mettiamo davanti al reale], altrimenti non avrei mollato [osservazione
molto acuta]; non avrei mollato, non mi sarei sentita imbarazzata. Questa mia tristezza, però, mi sta facendo compagnia perché prima mi accontentavo e dicevo: “Pazienza, imparerò”. Ora mi sento come quando litigo con mio marito – che amo molto e soffro quando gli dico cose che non avrei voluto dirgli perché arrabbiata, e sento un fortissimo desiderio di chiedergli scusa e di tornare a essere in pace con lui –. Mi viene in mente Pietro quando ha tradito Gesù, e Tommaso che non
credeva che fosse veramente risorto. Eppure sono diventate creature nuove come tu dicevi agli Esercizi, non hanno mollato perché Cristo “investiva la loro vita”. Mi domando cosa mi stia accadendo. Perché accorgermi di questa tristezza che non si accontenta di soddisfazioni a buon mercato? Perché non mi comporto sempre con Lui come mi comporto con mio marito, come una donna innamorata?». Questo mostra la pertinenza di quello che ci ha detto don Giussani nel mitico episodio del figlio di Manzù, ché se uno non fa questo percorso non potrà capire, perché non
arriverà mai a questa certezza. E questo “canterà” alla prima occasione. Per questo sembra che Giussani ci complichi la vita facendoci fare questa strada; in realtà, è l’unico che ha sfidato la nostra mentalità, il nostro bisogno, che ci offre un percorso per venire fuori da questa malattia che ci troviamo addosso a causa della situazione culturale in cui viviamo, della incapacità di raggiungere
una certezza sulle cose. Per questo insiste sempre che è un problema di conoscenza. Noi continuiamo a spostare il problema sulla morale, sulla coerenza, ma questo non è niente in paragone alla mancanza di certezza che poi ci paralizza e ci rovina.
Dalla presentazione de Il senso religioso agli Esercizi devo dire che è nato un gran movimento che non mi lascia assolutamente più tranquillo, che anzi, oserei dire, mi mette dentro una certa inquietudine. Scopro finalmente, dopo tanti anni di vita nel movimento, alcune cose che pensavo di sapere e che tentavo faticosamente di applicare.
Vedete? Per noi il cristianesimo è questo: qualcosa che pensiamo di sapere e poi applichiamo. Ma in nessun caso partiamo dall’esperienza. Prego.
Racconto due o tre episodi che mi sono capitati in questo periodo per spiegare che cosa sta succedendo. Innanzitutto il silenzio. Io ho sempre rispettato il silenzio agli Esercizi nei vari trasferimenti, però mai come quest’anno ho sperimentato che il silenzio non è un momento vuoto che io devo faticosamente riempire con pensieri e riflessioni anche nobili, giuste, importanti, ma
finalmente mi sono reso conto che il silenzio è il momento in cui io posso guardare quello che sta accadendo. La seconda questione è che in questi Esercizi finalmente mi sono lasciato provocare da quello che tu dicevi, e non a pensare che sono d’accordo con quello che tu dici, ma in fondo in fondo mi tocca fino a un certo punto. Per cui arrivo in albergo il sabato, pranzo con gli amici e, forte di questa provocazione, di questa inquietudine che avevo dentro, domando: «Ma come è
andata oggi?». Silenzio un po’ imbarazzato. Interviene un mio amico e mi dice: «Bene». Io rincalzo sulla questione e dico: «Ma cosa vuol dire bene?», perché evidentemente non mi poteva bastare più parlare in un certo modo di quello che stava accadendo nella vita. Silenzio di nuovo. Poi questo amico chiede alcune questioni sulle due lettere che tu avevi letto la mattina, e io dico: «Ma la
lettera che ha letto Carrón dell’amica rivolta all’amico mi pare talmente importante che io mi sono domandato e domando a voi: “Ma tra di noi siamo amici così?”». Silenzio…Silenzio cantatore!
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Silenzio, rotto soltanto da un fatto banale che accade a tavola: mi sporco un po’ la camicia e per qualche minuto si parla di quella questione; silenzio di nuovo e poi, finalmente, si riprende a parlare di questa questione. E qui fioccano le ipotesi, le interpretazioni, le posizioni. C’è chi dice:
«Ma le tue percezioni potrebbero non esser giuste», oppure… Attenzione, eh! Oppure: «Tra di noi siamo amici, ci aiutiamo, preghiamo per noi, per i nostri bisogni, per i nostri familiari, andiamo a Roma». Che cosa si può chiedere di più?
Oppure l’ultima domanda, ancora più impressionante da questo punto di vista: «Ma forse c’è qualcosa di più?». Questa questione mi ha lasciato triste, da un certo punto di vista, e ancora di più non tranquillo su quello che c’era in gioco. Dopo gli Esercizi torno in ufficio e riparlo con alcuni miei colleghi, durante la pausa, del problema dell’immigrazione, di cui si parla in continuazione perché è drammatico, importante, ma in fondo in fondo fino ad allora io pensavo: mi tocca, ma fino a un certo punto, perché è lontano. Però lì mi accorgo di non poter più sopportare di discutere io stesso negli stessi termini della questione, e mi scopro a cogliere lo stesso bisogno che hanno gliimmigrati – e loro hanno bisogni infiniti che io non ho perché sto bene, ho una casa, ho da mangiare, ho un lavoro dove mi stimano, insomma, ho sostanzialmente tutto –. Da queste tre
questioni che sinteticamente ho raccontato emerge un imperioso bisogno per la mia vita di essere portato via dal nulla in cui inevitabilmente mi trascino o vengo trascinato dalla realtà, dalle questioni che succedono, dalle tensioni che ci sono. Se non accade qualcosa di potente che mi porta via dal nulla…
«Ma forse c’è qualcosa di più?». Basta che uno prenda consapevolezza del proprio bisogno, e parla diversamente della vita, dell’immigrazione e di qualsiasi altra cosa. Non è un ragionamento:succede che parliamo delle stesse cose con una intensità e con una profondità che prima non ci sognavamo! Proprio su questo tema leggo una lettera (perché tante volte c’è tanta confusione sull’io-in-azione): «Ho iniziato a lavorare sugli Esercizi e mi sono reso conto che da alcuni mesi
sono concentrato su queste domande: ma io, davvero, in fondo, da che cosa mi sento costituito? Da che cosa mi aspetto davvero la soddisfazione? Che cosa mi fa respirare? Ma davvero a cinquantatre anni ancora mi aspetto di essere felice, soddisfatto? O mi sto già accontentando? Sino a poco tempo fa ho pensato che cogliere l’io-in-azione volesse dire scoprire che cosa ero capace io di immettere
nel reale, avendo una certa esperienza della vita, del lavoro, della famiglia, di Cl». Tante volte l’ioin-azione lo riduciamo a questo, a un giudizio moralista su quello che noi non riusciamo a fare. Ma questo non è uno dei fattori costitutivi dell’io, questa è tutt’altra questione: in che cosa sono capace?
È significativo, come termina la lettera: «Invece ora penso: cogliere l’io-in-azione significa ammettere quale sia il bene della mia vita nel quale trovo soddisfazione». Ma ha saltato il punto! Perché prima di sapere che cosa può essere il bene della mia vita la questione è sapere che cosa sono io! Cioè: le cose più elementari noi le diamo per scontate, le saltiamo in continuazione. Chi mi scrive non è che non stia cercando di fare un lavoro, ma è come se non riuscisse a spostarsi da quel
che ha in testa lui alla proposta che ci fa Giussani. Occorre questo paragone serrato con quello che dice Giussani, perché se uno rilegge il capitolo IV de Il senso religioso, vede che negli esempi che fa non è mai in gioco la nostra capacità! Ma è come se noi già sapessimo: abbiamo sentito la frase, la interpretiamo secondo i nostri pensieri, e non vengono mai fuori gli aspetti costitutivi dell’io. E
questo fa sì che poi – come dice Giussani – non vediamo la pertinenza di quello che propone la fede alle esigenze che ho scoperto nel mio io. E possiamo celebrare la Pasqua – come diceva prima la lettera – e non sorprendere la pertinenza di questa festa alle esigenze del mio io. E poi ci chiediamo se è possibile essere felici dopo che una bimba di dodici anni è morta... Ma questo c’entra qualcosa con la Risurrezione o no?! Ma che non si leghino in noi queste cose indica fino a che punto l’esperienza di quello che propone la fede ci è estranea. Sapere e credere non si incontrano.La settimana di Pasqua naturalmente per noi preti è abbastanza impegnativa, molto intensa, seguita dal fatto che c’era subito dopo la settimana degli Esercizi, poi io non sono potuto andare a
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Roma perché bisognava preparare una iniziativa dove sono parroco. Passata la domenica di Roma – diciamo così –, il lunedì è come calata la tensione. E mi ha colpito:c’era stata la Pasqua, c’erano stati gli Esercizi, c’era stata la beatificazione di Giovanni Paolo II; e invece io ero triste e malinconico. E mi ha colpito ciò che ho pensato: sono malinconico, proprio come Carrón ci ha
detto agli Esercizi, e per la prima volta in modo chiaro non ne ho avuto paura, cioè non mi sono chiesto: che cosa devo fare? come me la cavo? come combattere la malinconia per recuperare? No, ho detto: la malinconia vuol dire che io Ti conosco, vuol dire che io ho bisogno di Te. E per la prima volta, invece di lottare contro questa malinconia, ho cominciato a guardare tutta la settimana, quello che capitava, partendo da questa malinconia, cioè attendendo Lui. La cosa che mi ha impressionato di più è di non avere paura.
La cosa che lo ha impressionato di più è di non avere paura.
Alla fine di un lungo percorso lavorativo al quale tenevo tantissimo, il 22 marzo c’è stato un doppio esame del mio lavoro che è andato oltre ogni aspettativa. Però ero molto memore di quell’esperienza, che tu dicevi, della tua amica di Barcellona che aveva ottenuto il successo alla mostra dei suoi quadri, e mentre il 22 marzo si avvicinava ero costretto dal lavoro a fare tutto
benissimo, a fare anche il famoso seven-eleven (cioè dalle sette di mattina alle undici di sera). E lì ho detto: è proprio una maledizione, cioè la vita è una maledizione perché se le cose vanno male,tanto devono andare male, quindi vanno sempre male, e se vanno bene è uguale.
Qual è il criterio di giudizio che hai usato per dire che la vita è una maledizione?
Perché non c’era niente che avrebbe potuto soddisfarmi, sia che le cose andassero bene sia che andassero male, niente mi avrebbe riempito, niente. Però non potevo mandare tutti a quel paese…Perché non potevano riempirti? Come lo sai questo? Perché tu stavi cercando di riempire il tuo desiderio con quel che tu facevi.
Sì. Sì! Questo è il pedaggio che noi paghiamo ogni volta che nella vita non capiamo di che cosa siamofatti. Tu dici che la vita è una maledizione proprio perché tu non sei in grado di fare qualcosa, neanche con il seven-eleven, per rispondere a tutta la tua insoddisfazione! E noi possiamo essere qua per anni e non aver capito questo; e questo non è legato al fatto che siamo tutti malati o peccatori, ma che non capiamo. Non capiamo di che cosa si tratta, perché se avessimo capito di che
cosa si tratta, non diremmo queste cose! Invece continuiamo a dirle come tutti, come tutti, e possiamo dire tutta la logica de Il senso religioso, ma non abbiamo capito niente, e lo si vede ogni volta che parliamo. Quando dico che manca il senso del Mistero sto dicendo questo, perché se tu avessi capito qual è la natura del tuo io, non ti saresti mai sognato di pensare che quello che tu facevi nel seven-eleven avrebbe potuto rispondere al tuo desiderio di soddisfazione, e così non
avresti perso il tempo. Tu non cerchi di salire questa parete a mani nude, non lo fai, sono cose irragionevoli, non le facciamo; se continuiamo a farle non è perché siamo scemi, ma perché non conosciamo ciò di cui parliamo. E se non si introduce una nuova conoscenza, quella unica, reale, noi continueremo a dire, malgrado anni di movimento e di vita cristiana, che la vita è una maledizione, e non ci pioverà sopra, non ci sarà nessuno in grado di convincerci del contrario,
perché il problema è a monte. Riesco a spiegarmi? Seconda puntata. Vengo il 23 marzo a Scuola di comunità e, diciamo, il cuore era proprio fermo, convinto, e tu continuavi a dire: «Ok, c’è una Presenza che ci accompagna, ma che cos’è che ci
impedisce di fermarci?». Il 6 aprile sei andato ancora più a fondo: «E tu? E tu?», e io, Carrón, ho incominciato a piangere come un matto. Perché? Perché mentre tornavo a casa mi sono sorpreso a dire: il mio cuore prima non batteva, adesso batte. E dicevo, anche meglio di Luzi – però perché seguivo te... –: ma di che cosa è presenza questa presenza? Ma non è finita perché, siccome tu continuavi a dire: «Non andate avanti, non andate avanti», io non volevo dire “Gesù”, però mi
ha… Non è Gesù quello che manca. Non volevo dirlo!
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Meno male. Perché non volevo dirlo? Perché doveva essere Lui a presentarsi, e Lui si è presentato. L’ho capito dopo. Era davanti a te. Non lo vedevi. Se Gesù non fosse e non accadesse in noi, non potremmo dire queste cose. Quello che dice il Volantone è vero: Cristo è qualcosa che sta accadendo ora, capisci?
Non l’immagine che tu hai in testa di come deve apparire, perché se il tuo cuore non batteva e poi batteva, chi te lo faceva battere, io? Ma siamo matti?! Come dice il Vangelo: siamo stolti perché non capiamo quel che succede davanti ai nostri occhi! Parole e immagini, mai un’esperienza!
Tranne quando per caso diciamo qualcosa dell’esperienza: «Il cuore prima non batte e poi batte» è l’unica cosa dell’esperienza che diciamo; ma una volta che l’abbiamo detto, incominciamo subito ad appiccicare quello che abbiamo in testa, tutto al di fuori dell’unità dell’esperienza che ci fa battere il cuore. Per questo per tanti il cristianesimo è qualcosa che già sappiamo e che adesso dobbiamo applicare. No, tu non hai applicato niente per far battere il cuore, ti sei sorpreso che
batteva, sentendolo battere! Allora? Allora agli Esercizi ho riso e ho pianto. Ho riso quando hai detto che la liturgia per noi non è ancora aprire gli occhi e riconoscerLo. Le due domeniche prima di Pasqua le letture presentavano gli episodi del cieco nato e della samaritana. Il cieco nato che Gli dice: «Ma Tu dimmi chi è il Messia», e Lui: «Sono Io che ti sto parlando». Lo stesso con la samaritana: «Dimmi dove trovo quest’acqua», «Sono Io che ti sto parlando». E a me non è mai successo di commuovermi a Messa. Poi viene la tentazione del moralismo, ma questa volta l’ho sconfitta. Allora voglio dirti grazie, perché io non so più niente di me, però ho me, adesso ho me.
Partiamo dal “me” che hai. Giussani ci dice: partiamo dal “me”, partiamo dall’io-in-azione; lascialo venire fuori sorprendendoti di che cosa sei. Fa male.
Non fa male! Ascolta che cosa dice questa lettera: «Le due ultime settimane sono state strazianti, taglienti e lancinanti. Sono stata sovrastata dalla delusione. Forse ti sto dicendo una cosa terribile, ma tu mi hai insegnato a essere leale e quindi lo sarò. Il giorno del mio primo incontro con te, di quello sguardo e del mio risveglio, si sta allontanando e io sempre di più mi rendo conto che non
posso vivere di un ricordo. Avevo riposto le mie speranze in te, ma tu non mi dai risposte e spesso, per problemi di entrambi, facciamo fatica a sentirci o a vederci. Un giorno mi sono accorta che più ti pensavo più mi arrabbiavo, perché neanche tu bastavi più. Ho pensato che fosse un’altra fregatura, e dopo l’entusiasmo di un periodo sarebbe tornato tutto come prima. Di nuovo, confusa,insicura, incerta, senza un appiglio. Se mi avessi visto! Mi sentivo come se cercassi una cosa in una
stanza buia, come se andassi a tentoni, come quando non c’è luce e non vedi e non sai cos’è quello che tocchi, in cui ogni mobile, ogni spigolo è un pericolo. C’erano dei rari e brevi momenti di gioia: due risate con gli amici, l’aperitivo, un complimento che ti fa una persona cara e così via. Insomma, la mia vita in queste due settimane è stata come una luce intermittente: gioia che va, tristezza che viene; soddisfatta un momento, e dopo due minuti amareggiata; un secondo attenta, e dopo persa in
mille pensieri; convinta, e poi delusa. Un susseguirsi di stati d’animo contrastanti e contraddittori, finché a un certo punto mi sono proprio stufata di quello che sentivo. Sbattuta a destra e a sinistra da questi sentimenti, scaraventata, vagante senza meta, impotente, schiava dei miei pensieri, prigioniera di me stessa, perché io ho un’idea di me, ho un’immagine dei miei bisogni o delle risposte che mi voglio dare che sono totalmente distorte. I miei innumerevoli tentativi di concepirmi
e di soddisfarmi continuano solo a ingannarmi, a strangolarmi, a reprimermi, a soffocarmi, sono io che faccio violenza su me stessa. Io da sola non mi basto, non basto al mio desiderio e neanche me lo spiego. Come diceva Emily Dickinson: “Per colmare un vuoto devi inserire ciò che l’ha causato, se lo riempi con altro, ancora di più spalancherà le fauci; non si chiude un abisso con l’aria”. Infatti,
più cercavo di spiegarmi e più ricadevo nella confusione. Tre mattine fa mi sono alzata e mi sono sorpresa con questa domanda: ma in tutto questo caos c’è una cosa, anche una sola cosa, che resta, qualunque essa sia? C’è una cosa che posso dire su di me con certezza che permane come un segno indelebile? Il mio cervello ha iniziato a elaborare un milione di cose, la maggior parte senza senso e
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le restanti assolutamente insufficienti. Allora mi sono ricordata della promessa che ti ho fatto: non dirò mai niente senza prima essermi guardata in azione. Mi sono osservata tutta la giornata cercando di capire cosa mi muovesse, perché facevo tutto: il pranzo con quell’amica, lo studio fatto in un certo modo... In ogni mia azione c’era un denominatore comune: una costante ricerca di qualcosache colmasse la mia nostalgia. Su di me, sulla vita, ho solo una certezza: che il mio cuore è pieno di nostalgia, è pieno di attesa, di tensione, è pieno della promessa che la vita non è vuota, che cerco qualcosa che c’è, altrimenti smetterei di cercare. Il mio cuore cerca, quindi afferma con certezza costante un Altro. Improvvisamente, senza nessun calcolo, senza nessuna formula e nessun ragionamento, di nuovo è tornato quel Tu. Irrompendo mi ha sovrastata, mi ha investita, mi ha coinvolta, abbracciata. Eravamo io e questo Tu, e basta. E ho ripreso a respirare. Un rapporto così intimo e tenero da togliere le parole. Che chiarezza! Un lampo nel buio. Posso fallire, cadere,
sbagliare, fare mille passi indietro dopo averne fatto solo uno avanti, posso rimanere delusa, trattare male le persone a cui tengo, posso rendermi conto della mia nullità, di quanto posso arrivare in fondo, posso finalmente guardarmi fino alla fine, guardare quanto sono meschina, poca, infima, perché tanto non è questo che regge la mia vita, non è questo che mi determina, non è la mia confusione, la mia amarezza o la mia tristezza. C’è solo una cosa che resta, da cui posso ripartire
ogni volta ed è questo Tu che io, inconsciamente o consciamente, ogni volta, ogni giorno, in ogni gesto, desidero e affermo. Questo è un ritratto di me, questo posso dire di me con certezza [e se non facciamo questo percorso, non lo potremo dire mai con certezza], semplicemente guardandomi.
Non ho imparato, non l’ho imparato, non l’ho deciso, non l’ho voluto, ma lo vedo con chiarezza, si impone [questo è il punto di non ritorno!]: il mio senso religioso, la certezza di un Altro e del rapporto privilegiato che posso vivere con Lui. Non so bene Chi sia, che volto abbia, ma è lì che mi guarda e mi chiama. Per la prima volta nella mia vita riesco a voler bene. Il mio dolore, l’attesa,
l’inquietudine: riesco a voler bene a quella parte di me che mi ha sempre reso insofferente; capisco che la mia nostalgia e la mia vertigine sono il veicolo di questo rapporto, e io sono sempre con il fiato sospeso fin quando non dico “Tu” e allora respiro. Volevo dirtelo perché adesso la mia vita ha delle radici». Qualche giorno dopo mi manda questo messaggio. «Ti voglio ringraziare perché mi hai lasciato fare ogni passo da sola, e hai lasciato venir fuori tutta la mia coscienza senza paura del dolore che avrei dovuto affrontare. Grazie perché mi educhi, mi introduci alla profondità delle cose e alla bellezza della vita. Spero di poter avere sempre un amico accanto come te che mi fa essere me stessa sino in fondo». È possibile o no? È possibile se uno prende minimamente sul serio l’ipotesi che ci è stata offerta; lei non sa qualcosa in più di quello che sappiamo tutti, ma ha seguito e ha
verificato. E questo è un punto di non ritorno. Ciascuno può decidere.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 25 maggio alle ore 21.30. Cominceremo a riprendere la prima lezione degli Esercizi della Fraternità.
È uscito il libro di don Giussani Ciò che abbiamo di più caro (1988-1989), che raccoglie le equipes del Clu degli anni 1988 e 1989.
È provvidenziale poter leggere in questo periodo il testo di questi dialoghi con don Giussani e sentirci sfidare dalla domanda: «Che cosa avete di più caro nel cristianesimo?»; ma per poter capire questo, se non facciamo questo lavoro, lo sentiremo sempre appiccicato, non potremo dire che è la cosa più cara. E quando la vita ci stringe rimarremo in silenzio (in silenzio!)... ma non rimarremmo
in silenzio davanti al figlio più caro. Quando don Giussani ci dice questo è per una tenerezza verso di noi, perché senza questo percorso tutto questo non ce lo sogniamo neanche. Per poter dire con lo starets Giovanni che «quello che di più caro abbiamo, […] è Cristo e tutto ciò che deriva da Lui», per poterlo dire con la stessa certezza dello starets Giovanni che percorso occorre fare! È impressionante vedere come Giussani con questi testi ci accompagna ora e ci fa capire quello che ha cercato di fare per anni, per anni con noi. Non è mai troppo tardi!
7
Domenica ci sono le elezioni, non in tutte le città. È un’occasione di verifica della certezza che abbiamo, e di come parliamo delle cose, anche delle elezioni, secondo la novità di quello che ci è capitato. E se non lo facciamo, uno che non fa questo non arriverà alla certezza; non è un problema di “militanza”, sarebbe niente, perché quello che mi raccontavano ieri gli universitari, come potete vedere voi stessi, è che quando vanno ai mercati quello che prevale è lo scetticismo, non soltanto
sulla politica, ma su tutto, sulla vita. E questo scetticismo tutti sappiamo che tante volte, come vediamo, non è problema degli altri, ma ci riguarda, eccome, lo abbiamo in casa. Per questo, non possiamo perdere questa occasione per verificare quello che ci è capitato.
Veni Sancte Spiritus