mercoledì 30 settembre 2009

Bagnasco: il mondo ha bisogno della famiglia



GENOVA. Gli adulti sappiano testimoniare ai giovani la bellezza della famiglia: è il messaggio che l’arcivescovo di Genova e presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, ha voluto consegnare ieri pomeriggio alle oltre settecento coppie di genovesi presenti nella cattedrale di San Lorenzo per l’iniziativa “ 50 anni insieme” organizzata dal Comune del capoluogo ligure.
« La vostra presenza è una testimonianza, un annuncio, un messaggio di fiducia e di incoraggiamento » per « un mondo che si sente sempre più orfano e solo e che avverte, nonostante tutto, il bisogno della famiglia come punto di riferimento certo e stabile » . « Diciamolo ai nostri giovani affinché abbiano il coraggio di affrontare l’avventura della famiglia » , perché capiscano la bellezza di una famiglia « fondata sul matrimonio » e sull’unione « di un uomo e di una donna aperti alla vita dei figli nella provvidenza di Dio » . « Il mondo – ha aggiunto Bagnasco – ha bisogno di famiglia » e « la società rispecchia la bellezza o la fragilità della famiglia » . Infatti, « la storia insegna che laddove la famiglia è unita, stabile, pronta, generosa, la società è decisamente sana, sicura, e rassicurante » ed il mondo, tanto più nella nostra società contemporanea, ha bisogno di « una famiglia dove la vita viene accolta fin dal suo principio con generosità, con fiducia e con spirito di sacrificio, dove la vita viene accompagnata nelle diverse stagioni e viene curata nel momento del bisogno, della malattia, e della morte, preludio della vita eterna » . Infine, il cardinale ha affermato che, « l’amore di un uomo ed una donna che attraversa vittorioso le difficoltà degli anni è sostenuto da Dio ed è un vincolo sacro » .
Adriano Torti - Avvenire - 30/09/09

l’Africa ha bisogno della “pazzia di Dio”


Rose Busingye
mercoledì 30 settembre 2009
Il titolo del Sinodo africano è “La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. La realizzazione di questo programma dipende tutta dal cuore dell’uomo africano e dalla sua educazione. Cristo è venuto, la questione è accorgersi che questo cambia tutto, cambia il mio modo di trattare me stessa e di comportarmi con gli altri e con le cose. La questione è l’appartenenza a Lui. Appartenenza vuol dire essere stata preferita, vuol dire che Qualcuno mi ha voluto. Questo supera tutti i contrasti che abbiamo fra tribù, politici e altri interessi costituiti. Veramente la pace per l’Africa dipende dall’incontro tra il cuore dell’uomo e Cristo. Perché l’appartenenza a Cristo supera l’appartenenza al gruppo tribale e colloca quest’ultima al giusto posto, col giusto valore. Ma questo avviene solo se la fede penetra gli strati profondi dell’umanità, arriva là dove si formano i criteri di percezione delle cose. Allora l’appartenenza diventa la forza dell’io, e la persona diventa libera e protagonista.
Perché questo avvenga è fondamentale l’educazione. L’uomo africano ha un altissimo senso religioso, ha un fortissimo senso dell’appartenenza, ma essi devono essere educati. Ci si deve educare ad accorgersi che il compimento è già con noi, che la risposta è già presente, e non è una magia o un modo di credere sentimentale che la rendono presente. L’uomo africano possiede un senso religioso veramente alto, non c’è un africano che non sia consapevole di dipendere da Qualche cosa di Altro, che non abbia questo senso di dipendenza da Qualcosa. Lo chiama “Spirito” o con un altro nome, lo cerca nelle magie, ma comunque non può vivere senza avere qualcosa da cui dipendere. Nessun africano mai direbbe, come fanno tanti europei, «sono nato, adesso sto qua e questo è tutto». No: l’africano ha sempre viva la questione dell’origine.
L’incontro che manca
Il problema è che la maggior parte degli africani, e anche dei cristiani, non può testimoniare di un incontro in cui si è sentito dire: «Sono Io che cerchi». Perché troppo spesso Cristo non è stato presentato come qualcosa che è già presente in noi, ma come qualcosa che arriva dal di fuori. Così oggi tanti studiosi africani scrivono che il Dio cristiano è stato importato dai bianchi e che il cristianesimo non è riconciliato con l’identità e la cultura africane. Per me e per tanti amici non è così, perché il modo in cui ci è stato presentato il cristianesimo, attraverso la persona di don Luigi Giussani e di chi lo seguiva, è stato diverso. È come se ci fosse stato detto: «Tutto quello che hai cercato negli spiriti, nelle magie, c’è già, è presente, è quello che ha fatto te, ti ha fatto nascere, ti fa respirare. E io ti dico il suo nome». Invece è come se a tanti africani chi ha presentato il cristianesimo avesse detto: «Metti via tutti gli idoli, tutte le tue cose, io ti ho portato Dio, io ti ho portato Cristo». Come se Cristo fosse una proprietà. Ma Cristo non lo possiede nessuno, viene come vuole Lui, come disegna Lui, viene in ogni uomo di questo mondo.
La magia, gli spiriti e la vita quotidiana

La conseguenza del non presentare Cristo come qualcosa che è in te, ma come qualcosa che viene da fuori, fa sì che alla fine, per molti, c’è un Dio del bianco e un Dio dell’africano. E quando c’è una difficoltà, una malattia, anche i cristiani a volte guardano dalla parte del Dio africano e dicono: «Forse sono gli spiriti». Così vanno da quelli che voi europei chiamate gli “stregoni”. Che riempiono la loro mente di paura. Gli stregoni li terrorizzano, la loro mente si riempie di reazioni che vengono dalla paura: e loro stessi si convincono che per guarire la loro mente dovrà essere torturata e riempirsi di credenze frutto della paura. Anche le sètte che mescolano il cristianesimo con gli spiriti, quelle dei cosiddetti “salvati”, seguono lo stesso metodo degli stregoni: producono agitazione e suggestione nella mente, ti convincono che la presenza di Dio o degli spiriti buoni è legata a una magia, e che tutto nella vita può essere ottenuto in modo magico. È un Dio che ti dice: «Posso farti avere tutto per magia». Ma non è un Dio che entra nella tua vita normale, che la vive con te, che la porta con te. È un Dio della suggestione psicologica: alla fine della preghiera ti senti guarito, ma il giorno dopo stai peggio di prima.
Ma Dio è questa tenerezza che è venuta nel mondo, che ha avuto pietà di noi e ci tocca tutti quanti. È ciò che Benedetto XVI ha espresso nelle sue tre encicliche, soprattutto nella Deus caritas est, dove descrive Dio con questo amore infinito: «la pazzia divina», come ha scritto. La pace e la riconciliazione nascono da questa esperienza di Dio: Dio ha preso me, che ero niente e che sono niente, mi ha preso così come sono, e nella quotidianità. Quel che viene naturale dire è: «Io voglio partecipare a questa pazzia di Dio, a questo essere di Dio». Questa cosa, nel tempo, fa sì che non mi adiro più per i peccati altrui, per le ingiustizie che l’altro ha compiuto nei confronti miei e di altre persone. Nell’esperienza dell’amore divino, non ha più senso che io misuri i peccati miei e degli altri. Nel tempo questo produce serenità e il desiderio che il mio incontro con ogni essere umano sia tenerezza, non uno sforzo o un ripetere parole o un cercare di essere più bravi degli altri.
Qui da me a Kampala arrivano ragazze di tribù ostili alla mia, giovani che hanno combattuto o sono stati bambini soldato. Dovrei averne paura o provare disprezzo per loro. E invece queste cose non mi toccano più: per me sono persone amate e volute da Dio, che hanno continuamente bisogno di essere amate e volute. Se hanno bisogno di mangiare do loro da mangiare, se hanno bisogno delle medicine do loro le medicine. Quando arrivano le accolgo come tutti gli altri bambini, non in base al discrimine se hanno rubato e ucciso oppure no. Appartengono a Cristo, e quindi appartengono anche a me.

domenica 20 settembre 2009

L’educazione si realizza per una sorta di “contagio” di u­na vita.


U na scuola professio­nale d’eccellenza per chi, con la scuola, ha spesso un rapporto difficile. È stata inaugurata ieri matti­na a Como, ai margini del Parco regionale della Spina verde, l’istituto “Oliver Twi­st”, con 250 studenti tra i 14 e i 18 anni che, reduci da per­corsi formativi faticosi, lì hanno la possibilità di segui­re corsi di istruzione e for­mazione professionale per o­peratori della ristorazione e del settore tessile. La scuola, che sorge nel complesso del­la fondazione Cometa – una rete di famiglie impegnate nell’accoglienza dei minori – offre inoltre percorsi educa­tivi sperimentali di recupero della scolarità attraverso il la­voro artigianale e percorsi in­novativi per prevenire e con­trastare la dispersione scola­stica.
La lezione inaugurale è stata tenuta dal presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, don Julián Cár­ron, sul tema “L’educazione è dare il senso della vita, non è una parola, è un’esperien­za”. «Oggi – ha ricordato il successore di don Giussani alla guida del movimento – nessuno rischia e tanti pre­feriscono scaricare su altro la propria responsabilità edu­cativa. Per questa ragione, il problema dell’educazione non è innanzitutto dei ra­gazzi, ma è una questione degli adulti: solo se noi adul­ti ci impegniamo col reale nella sua totalità, possiamo avere la chance per comuni­care un significato». È ciò che si impegnano a fare alla scuo­la “Oliver Twist”, dove i ra­gazzi sono accompagnati in un confronto quotidiano con la realtà, anche quella più im­pegnativa che riguarda il mondo del lavoro.
«L’educazione – ha sottoli­neato Cárron – si realizza per una sorta di “contagio” di u­na vita. Altro che parole e re­gole! Parole e regole hanno valore solo in quanto stru­menti di una vita che c’è: u­na vita che per dirsi ha biso­gno della parola e per svilup­parsi ha bisogno di un alveo, come gli argini per un fiu­me ». Per questo, «educare è co­municare sè stessi», che è poi una «modalità di vivere il proprio rapporto col reale». Ma chi è in grado di educare? Soltanto «chi ha verificato nella propria vita il contenu­to che offre agli altri». Come hanno fatto i promotori del­la Fondazione Cometa quan­do hanno pensato di costi­tuire la scuola “Oliver Twist”. «Se non aveste fatto la verifi­ca personale che la fede met­te nelle condizioni ottimali per vivere nel mondo e per affrontare ogni circostanza – ha concluso Cárron – come potreste guardare in faccia i vostri ragazzi senza dubitare che ciò che proponete loro potrebbe essere solo un so­gno che non risolve il pro­blema della vita? Tutto il vo­stro pur nobile sforzo sareb­be parte del problema e non della soluzione».

L A SFIDA EDUCATIVA LANCIATA DALLA CHIESA: Per un nuovo ciclo di umanesimo

In che senso l’educazione è divenuta una sfida? Come ha detto Benedetto XVI la questione educativa è ormai un’ « emergenza » che coinvolge tutti, la società civile, lo Stato e la Chiesa. Ma che ciò sia una « sfida » – come ci ricorda ora il ' Rapporto- proposta sull’educazione' del Comitato per il Progetto culturale della Cei – significa che la provocazione emergente e urgente è anche un’occasione storica e una possibilità di iniziativa. Proprio a partire dal livello educativo – anzi, forse solo da lì – la crisi d’epoca in cui siamo può trovare le risorse per un nuovo ciclo di umanesimo.
È evidente che luoghi primari dell’esperienza e della formazione umana, come famiglia, scuola, convivenza sociale e la stessa comunità cristiana, sono in affanno quanto alla loro capacità di formare persone a vivere da persone. Ed è anche chiaro, benché meno evidente, che tale crisi, prima e più radicalmente che da motivi di tenuta morale o di relativismo culturale – che pure incidono pesantemente –, dipende dal nichilismo incorporato in un sistema sociale che svuota la domanda di senso e la rende inoperante dentro la vita. Cosa a tal punto avanzata che la mancanza di senso unificante l’esistenza viene accolta come una condizione nuova e irrinunciabile di libertà, benché consegni quotidianamente il vivere a una frammentazione penalizzante e moltiplichi le situazioni di orfananza e di solitudine, di disperazione e di violenza.
Educazione in questo contesto non può più essere intesa in senso limitativo, come un’attività specializzata nel trasmettere valori, che non troverebbero più corrispondenza nel vivere. Dell’educazione va riscoperto, invece, il suo essere dimensione strutturale del vivere umano e qualità indispensabile delle relazioni umane come tali: essere educati non significa ricevere regole di comportamento, ma ricevere risposta a un bisogno umano primario, quello di essere aiutati a giungere a se stessi. Ciò avviene in una relazione umana autentica: l’educazione trova alimento nella buona relazione nella quale la persona fa l’esperienza di essere riconosciuta, messa in cammino, fatta progredire, e così generata alla sua umanità.
Certamente l’educare ha i suoi luoghi paradigmatici nella famiglia e nella scuola, ma per sua natura investe la totalità dell’esperienza e delle forme di relazione, perché ovunque e costantemente l’uomo ha bisogno nel corso della sua vita di essere generato alla sua umanità e di diventare a sua volta generatore di altri all’umanità. Si comprende, perciò, perché la questione educativa abbia a che fare con l’intera vita sociale e stia al cuore di qualunque forma di civiltà umana: la società nasce dal riconoscimento tra gli uomini e si mantiene nella misura in cui tra essi è data e ridata forma all’umanità.
La crisi contemporanea dell’educare riguarda esattamente questo livello fondamentale della cosa: il nichilismo diffuso, l’idea astratta di libertà, la privatizzazione delle identità culturali e religiose, la proceduralizzazione delle relazioni, nascondono il fatto drammatico che nella vita sociale la cura della sua generazione e rigenerazione è fondante, e che tale aver cura è l’educazione. Una società che non si cura di educare e che non si interroga sull’origine delle sue difficoltà o dei suoi fallimenti educativi è una società in cui il senso di morte prevale sulla percezione della vita. Al contrario, il coraggio di mettersi in questione a questo livello segnala – per quanti problemi vi siano – la riscossa della volontà di vita. A quest’ultima si rivolge la sfida educativa.
F.Botturi- Avvenire 20/09/09

venerdì 18 settembre 2009

Niente progetti a tavolino: la lezione dell’esperienza



Q uattordici figli naturali, ventiquattro ragazzi ospitati in affido residenziale in quattro comunità familiari, 75 in affido diurno. E poi la Contrada degli artigiani, una scuo­la- bottega dove gli artigiani insegnano vecchi mestieri ai giovani: falegnameria, tappezzeria, restauro , decorazione. E ancora, un’associazione sportiva con 100 mini-atleti (calcio, a­tletica leggera, nuoto, pallavolo), un centro diurno e varie atti­vità di sostegno ai genitori in difficoltà. Cometa, l’associazione non profit che ha promosso la scuola Oliver Twist che s’inau­gura domani, è tutto questo, ma è molto di più: è un’esperien­za di comunione. All’origine di Cometa stanno due frasi. Una la pronuncia il pa­dre dei fratelli Figini (Innocente, Erasmo e Maria Grazia) poco prima di morire: «Vi lascio la mia fede. E una sola raccomanda­zione: vivere in comunione». L’altra è di don Giussani, che per anni li ha accompagnati: «Andate a vivere insieme, fate un’opera di comunione». Poi la realtà ha lanciato le sue provocazioni, e loro le hanno raccolte. La richiesta di aiuto di un sacerdote che propone a Erasmo di prendere in casa un bambino sieropositi­vo – cosa impopolare al giorno d’oggi, figuriamoci nel 1987 –, poi l’acquisto di una vecchia cascina alla periferia di Como, che diventa la casa comune dei due fratelli e delle loro famiglie, a cui presto se ne aggiungono altre due. E il luogo attorno al quale negli anni sono na­te opere di accoglienza e educazione. «Non siamo eroi né progettisti di alunché – si schermisce Innocente Figini –. È Dio che si fa vivo attraverso la realtà, noi rispondiamo. Alla fonte di tutto c’è un io cambiato dal­l’incontro con Cristo, unito al desiderio di condividere la vita con chi ha fatto la me­desima esperienza di cambiamento. Così, di incontro in incontro, è nato tutto ciò che oggi si chiama Cometa».
Lui se la ricorda come fosse oggi quella fra­se profetica che Giussani gli disse durante una conversazione: «Tra non molto diven­terà difficile, quasi impossibile comunicare qualcosa di impor­tante alla gente. Ci vorranno dei luoghi vedendo i quali il desi­derio che abita nel cuore di ogni uomo possa essere risveglia­to ». E chi avvicina l’esperienza di Cometa è contagiato dal fa­scino che ne promana. Un fascino che si esprime nelle opere e nella bellezza che le accompagna: il giardino, i fiori sui tavoli, l’arredo curato, la scelta dei colori, l’attenzione ai particolari. Si avverte la mano di Erasmo, affermato stilista di tessuti da arre­do, ma non c’è nessuna concessione all’estetismo formale. La bellezza non è un vestito, non è un’aggiunta, è il modo con cui si manifesta l’amore alla vita. È, ultimamente, un richiamo al Mi­stero presente in ogni cosa. L’esperienza di Cometa ha fatto scuola ed è diventata oggetto di studio a livello accademico. L’anno scorso per conoscerla è arrivato dagli Stati Uniti il professor Lester Salamon, direttore del Centro studi sulla società civile alla Johns Hopkins Univer­sity di Baltimora, uno dei massimi esperti di non profit a livello mondiale: «Da vent’anni giro il mondo per studiare l’argomen­to, ma devo ammettere che non ho mai visto niente di simile e che questa è una delle esperienze più belle che abbia mai co­nosciuto ». Ciò che l’ha colpito di più (e che quest’anno l’ha spin­to a portare in visita alla sede di Cometa 50 suoi collaboratori provenienti da tutto il mondo) è avere visto quanto l’esperien­za della fede vissuta in una dimensione comunitaria è capace di generare un cambiamento rilevante anche a livello sociale. Proprio quello che disse vent’anni fa Giussani ai fratelli Figini: «La vita è tortuosa e piena di prove, ma chi ha incontrato Gesù sa che con Lui ogni passo è possibile, che la comunione è la ve­ra liberazione».
Il consiglio di Giussani: «Andate a vivere insieme, fate un’opera di comunione». Poi il fiorire di opere educative e di accoglienza
DI GIORGIO PAOLUCCI - Avvenire

La comunione va in cattedra - L'Avventura della Vita e passione per ogni uomo.

A Como una scuola professionale d’eccellenza all’insegna della sussidiarietà Nella scia di Cometa, un gruppo di famiglie che condividono la vita


P rovate a immaginare una scuola che co­mincia a educare già dai muri, decorati con frasi che restituiscono senso alle parole. U­na scuola dove i banchi, di legno e alluminio rici­clato sono pezzi di design, come le porte in carta pressata con gli oblò in vetro. Corridoi nei quali gli armadietti in legno e vernice metallizzata so­no lì a raccontare un’appartenenza, gli arredi dei bagni sono degni di un grand hotel e hanno spec­chi incorniciati come quadri. Una scuola dove al­l’ingresso c’è una reception, proprio come negli alberghi, a testimoniare di un’accoglienza. Pro­vate insomma a immaginare una scuola d’eccel­lenza e poi riempitela non di rampolli dell’élite, ma di ragazzi come tanti, di quelli che si trovano nelle scuole normali. Anzi, di quelli che più spes­so
non si trovano a scuola, perché l’hanno ab­bandonata, hanno dovuto essere allontanati da contesti negativi o più semplicemente non ci so­no potuti andare nel loro Paese d’origine. Ecco, a­desso che avete immaginato questa scuola idea­le, andatela a vedere a Como, dove verrà inaugu­rata ufficialmente domani mattina.
È la scuola « Oliver Twist » , incastonata nella co­munità familiare Cometa, nata dall’iniziativa – ma loro direbbero dall’ « incontro » – tra Cometa ap­punto
(vediere articolo a fianco) e la Fondazione di partecipazione Oliver Twist, creata dal gruppo finanziario Kairos. «La fondazione – spiega la di­rettrice generale Anna Venturino – ha finanziato l’opera per oltre il 40%, ma soprattutto si è coin­volta fin dall’inizio nella progettazione, nella rac­colta fondi, nella formazione della squadra dei collaboratori, fino a sviluppare una partnership
tra Cometa e Ark ( Absolute return for kids), orga­nizzazione che in Inghilterra gestisce per conto del governo scuole pubbliche particolarmente problematiche». Alla realizzazione concreta han­no poi partecipato altri soggetti come la Fonda­zione Cariplo, la Fondazione De Agostini, la Re­gione Lombardia, la Provincia di Como e nume­rosissime realtà locali dell’industria e dell’artigia­nato, sviluppando al meglio l’idea di sussidiarietà. Perché l’originalità del progetto sta anzitutto nel proporre un ambito educativo a tutto tondo, che parte dalla famiglia e arriva al lavoro, passando attraverso l’accoglienza e l’istruzione. Un percor­so nel quale ogni soggetto coinvolto è chiamato a svolgere il proprio compito educativo. L’altra spe­cificità sta nel tessere legami con il territorio e con le persone, mettendo insieme ragazzi desiderosi di imparare un mestiere e artigiani pronti a tra­smettere il saper fare; nel collegare la domanda delle aziende della zona con una formazione pro­fessionale d’eccellenza, promuovendo una reale alternanza tra scuola e lavoro.
«Sono tre gli indirizzi principali della scuola. An­zitutto i corsi triennali per i ragazzi dai 14 ai 17 an­ni per formare operatori dell’area tessile, del le­gno- arredo e lavoratori dell’area ristorazione – spiega Alessandro Mele, direttore generale di Co­meta –. Poi c’è quello che chiamiamo Liceo del la­voro, rivolto in particolare a quei ragazzi che ri­schiano di abbandonare o hanno già abbando­nato il percorso scolastico tradizionale. Per cia­scuno studiamo un progetto formativo persona­le, lo accompagniamo, lo rimotiviamo, cerchia­mo di fargli scoprire la bellezza di conoscere co­se nuove, di imparare un mestiere » . Tutti i per­corsi, infatti, prevedono periodi di stage e un nu­mero significativo di ore di formazione diretta- mente in azienda.
È l’esperienza che ha fatto scoprire a Salvatore, oggi 19 anni, «un Salvatore che neanche io cono­scevo, diverso da quello che a 14 anni si era per­so, poi era stato in comunità, ma non sapeva fare niente. Dopo tre anni di scuola – racconta – lavo­ro da più d’un anno come addetto alla campio­natura dei telai alla Rubelli di Como e posso pen­sare a un futuro mio, a creare una famiglia». Lo stesso orgoglio e la medesima riconoscenza che traspaiono dalle parole di Mahmoud, ragazzo mu­sulmano approdato a Lampedusa dopo la traver­sata in un barcone, passato a vivere da solo a Mi­lano, senza alcuna prospettiva, e infine arrivato a Cometa. «La prima cosa che mi ha colpito è che mangiavamo tutti insieme e che le persone s’in­teressavano a me, a chi ero, a come ero arrivato lì, volevano sapere cosa mi sarebbe piaciuto fare – racconta –. Qui ho imparato l’italiano, ho studia­to, ho fatto l’esame di terza media e ho preso an­che 'Buono'! La mia vita è cambiata. Adesso sto imparando il mestiere di restauratore: è difficile, ma che soddisfazione quando ti arriva una cosa bella e tu la fai diventare ancora più bella». E quanto proprio la bellezza delle cose dica del­l’amore con cui ci si rivolge alle persone, lo testi­monia lo stupore d’un ragazzino: «Una roba così la fanno solo per i figli di papà. E invece voi l’ave­te fatta per noi», ha detto l’altroieri quando è en­trato nella nuova struttura per il primo giorno di lezioni. Guardava i banchi, la lavagna elettronica
touch screen , le sale coi mobili disegnati da Era­smo Figini, stilista- arredatore fondatore di Co­meta assieme al fratello Innocente. «Per educare bisogna lasciarsi educare, ridare e ridarsi la ra­gione d’ogni cosa», spiega Erasmo, mentre pas­siamo fra aule con i computer ancora imballati e i corridoi illuminati con lampade che mutano d’intensità a seconda della luce esterna. Di fian­co all’ufficio della presidenza campeggia una scrit­ta sul muro: «È solo la comunione che tiene de­sto lo scopo delle decisioni». Il segreto dell’eccel­lenza probabilmente sta qui – nell’idea di una scuola che sia anzitutto luogo di comunione – o meglio in «Una comunione che fa scuola», come recita il titolo (provvisorio) del libro che il teolo­go spagnolo Josè Miguel Garcia sta scrivendo sul­l’esperienza di Cometa.
AVVENIRE 18/09/09 di Francesco Riccardi

martedì 15 settembre 2009

Moralità per tutti. Contributo dei cristiani alla società plurale:cercare un compromesso nobile sulle questioni etiche, o fare obiezione di coscienza



In qualità di presidente della delegazione francese alla Seconda Conferenza Internazionale dell’UNESCO (1947), Jacques Maritain aveva sostenuto una tesi che mantiene una forte validità e, se rigorosamente formulata, può costituire la base per identificare un nuovo modo di pensare la laicità nella società plurale. L’ambito politico – diceva Maritain – ha come oggetto un bene pratico riconosciuto da tutti come un valore in sé, indipendentemente dal fatto che non si riesca ad accordarsi sulla sua fondazione speculativa o dottrinale che necessariamente si rifà a diverse e spesso contraddittorie mondovisioni. In cosa può consistere? La convivenza e la comunicazione reciproca cui sono chiamati i soggetti, spesso in conflitto, che vivono nell’odierna società plurale, rivelano come bene pratico sociale il fatto stesso di vivere insieme. Se lo si riconosce nella sua inevitabile decisività (al limite come minor male) e lo si sceglie consapevolmente, questo essere in relazione diventa un bene politico primario. Elaborando, in modo adeguato, questa comune decisione, il bene pratico dell’essere in società potrebbe costituire quell’universale politico che il processo di secolarizzazione ha smarrito lungo la modernità.

La costruzione di questo universale politico nella società plurale domanda ad ogni soggetto una narrazione tesa al riconoscimento il più possibile condiviso. Deve contemplare un triplice aspetto. Ogni soggetto identitario deve narrare di sé, narrare degli altri ed accettare di essere narrato.

In una società plurale l’unitario soggetto ecclesiale viene inevitabilmente guardato da una prospettiva interna e da una esterna spesso tra loro discordanti: «Chi vede delle persone ballare ma non sente la musica, non capisce i movimenti che osserva. Così chi non condivide la fede cristiana sarà incline a spiegarla attraverso qualcosa di diverso dalla verità del suo oggetto». D’altra parte «il cristiano incapace di calarsi nella prospettiva esterna… diventa un settario o un fanatico che si chiude nei confronti dell’universalità della ragione» (Spaemann). La proposta cristiana deve quindi fare i conti, con coerenza, con entrambi i profili, senza rinunciare al suo nucleo veritativo che postula – è bene ricordarlo – la medesima “pretesa” di universalità propria della ragione.

Un prezioso contributo che il cristianesimo offre alla costruzione dell’universale politico è leggibile da chiunque, anche solo a partire dal suo profilo esterno. È quello di una pratica dell’esperienza morale elementare che rende ragionevole per tutti fare riferimento ad una common morality.

Per cogliere l’autentica natura di questa moralità comune si deve partire dalla esperienza elementare del bene che ogni uomo fa. Se guardiamo alla genesi dell’esperienza morale del soggetto (bambino) ci rendiamo conto che essa si radica in un desiderio di compimento di sé, che prende forma nelle inclinazioni e negli affetti originari, a partire dalle relazioni primarie di riconoscimento, in cui, circolarmente, il desiderio acquista coscienza pratica di se stesso e diventa capace di comunione con gli altri. La forma originaria da cui l’uomo apprende ad attuare il bene consiste quindi nella relazione con l’origine del bene. E la decisione per le cose buone da fare deriva dalla pratica di relazioni buone. L’esperienza morale elementare, comune a tutti gli uomini, non si origina da un’idea del bene che sia contenuta nel cosmo o nel bios, né si deduce dalla natura razionale dell’uomo, ma si forma a partire dal beneficio primario della relazione.

Su questa base la persona percepisce un legame de-ontico (ob-ligazione) con le possibilità del bene stesso. Si rende conto della loro non opzionalità ed ipoteticità, bensì della loro doverosità come opera della libertà.

La convinzione dell’assolutezza del Bene morale spinge i cristiani, consapevoli del valore del vivere insieme come bene politico primario, a proporre questa common morality. È la base su cui si può, di volta in volta, cercare il com-promesso nobile su beni specifici di carattere etico, sociale, culturale, economico e politico con tutti gli altri abitanti della società plurale. Quando questo com-promesso risultasse tecnicamente impossibile su principi sostanziali i cristiani dovranno fare ricorso all’obiezione di coscienza.

Guardando ora al cristianesimo dal profilo interno al fine di chiarire pienamente l’apporto dei cattolici alla crescita della vita buona del Paese, è importante notare che la sua incarnazione nella storia postula una insuperabile circolarità tra fede e cultura.

La fede, offrendo all’uomo un’ipotesi interpretativa del reale, produce cultura/e; la/e cultura/e, esercitandosi, interpreta(no) la fede stessa. Nel tempo storico, una tale dinamica è insuperabile.

Un sentiero adeguato per interpretare correttamente il circolo fede-cultura/e va cercato nella proposta di tutti i Misteri cristiani nella loro articolata unità, così come sgorga dall’avvenimento di Gesù Cristo. Essi, incarnati nella storia del soggetto personale e comunitario che li vive, incidono sul modo di concepirsi come uomini, come società, sul rapporto con il creato e sono esposti, a loro volta, alle inevitabili interpretazioni culturali che questo soggetto pratica. L’impegno del cristiano con la persona, con la società, con il cosmo, non è una conseguenza dei Misteri che vive. E, tuttavia, non è immediatamente coincidente con i Misteri cristiani come tali: è implicato in essi. I Misteri cristiani infatti non sono dati una volta per tutte nella forma di un pacchetto di dogmi da cui tirare le opportune conseguenze; essi sono dimensioni dell’evento di Gesù Cristo che continuamente si ripropone alla libertà, sempre storicamente situata, dell’uomo. Non esigono meccaniche applicazioni, né estrinseche giustapposizioni, ma dinamiche implicazioni.

Annunciare l’avvenimento di Gesù Cristo in tutta la sua interezza, giungendo quindi a mostrarne tutte le implicazioni, è quanto oggi è domandato ai cristiani. E questo soprattutto in Italia, dove il fenomeno della secolarizzazione rivela, ad una attenta analisi, caratteristiche del tutto particolari, talora assai diverse rispetto a quelle degli altri paesi euroatlantici. Non per niente si parla della Chiesa italiana come di un “caso eccezionale”.
Estratto dell’intervento che il Patriarca di venezia card. Angelo Scola terrà al Congresso internazionale promosso dallo Studium Generale Marcianum a Venezia dal 15 al 17 settembre dal titolo “La società plurale”, un tema che sarà sviluppato a partire da diverse prospettive (filosofica, giuridica, teologica, sociologica) grazie al contributo di personalità quali David Novak, Cesare Mirabelli, Otfried Höffe, Pierpaolo Donati, ecc.

domenica 13 settembre 2009

Non ci basta -«Non ci basta una ripetizione, pur giusta, di un discorso pulito e corretto».


Tracce N.8, Settembre 2009
A molti, magari, capiterà di farlo dopo aver sfogliato il giornale. E servirà tempo per andare a fondo in quella proposta, per non lasciarla scorrere via in fretta, presi dall’affanno dell’anno che riprende e del lavoro che incalza di nuovo. Ma se lo avete già fatto, se avete già aperto il libretto allegato a questo numero, e scorso almeno l’Introduzione di quell’Assemblea che il mese scorso ha raccolto a La Thuile quattrocento responsabili di Cl di tutto il mondo, è probabile che abbiate sentito almeno un’eco del contraccolpo subìto da chi c’era.
Diciamoci la verità: con quel primo «non ci basta» buttato in pista da don Julián Carrón di fronte alla confusione che viviamo, qualche familiarità ce l’avevamo già. «Non ci basta una ripetizione, pur giusta, di un discorso pulito e corretto». Il cristianesimo non è una faccenda di parole, o di principi da applicare alla vita per sostenerla. «E questo lo sappiamo anche noi», aggiungeva Carrón: «Abbiamo ripetuto tante volte la cosa giusta, ma questo non ci fa stare in piedi, non ci fa respirare». Non ci basta, appunto. «Abbiamo bisogno di vedere davanti a noi persone che nel loro porsi, nel loro modo di affrontare il reale (…) introducono una luce, una chiarezza in mezzo alla confusione nel modo in cui vivono gli affetti, il lavoro, le circostanze». Abbiamo bisogno di testimoni. La fede vive di questo. Chi ha seguito Tracce - e il lavoro educativo di cui cerca di rendere conto - nell’ultimo anno, sa bene di cosa stiamo parlando.

Subito dopo, però, è arrivato un altro affondo. «Ma il testimone non basta. Il testimone ci mostra una reale possibilità più umana di vivere nelle circostanze cui siamo chiamati, e per questo ci colpisce; ma non basta, perché ciascuno di noi (io, tu) ha bisogno che accada nella sua vita, nelle circostanze che è costretto ad affrontare, cioè ha bisogno di fare l’esperienza personale di ciò che il testimone mostra. Perché diventi mio!».
Ecco, lì in parecchi sono rimasti spiazzati. Meglio: provocati. Perché non si tratta di una sterzata, di un cambio di direzione. Non ci sono cesure in questo passaggio, non ci sono salti, come se l’insistenza sulla testimonianza fosse da archiviare per passare ad altre parole “di moda”: giudizio, esperienza… È un percorso da fare (e nelle pagine di quel libretto lo trovate tutto, passo per passo). Perché una cosa è chiara, se si guarda alle nostre vite: solo in quel «mio» c’è tutto. Certezza e speranza. E se non arrivo a dire «mio», non posso neanche dire «io». «Senza che questo diventi veramente esperienza noi non cresciamo nella certezza della fede».

Per molti, il Meeting di quest’anno è stato proprio una documentazione di questo percorso, come abbiamo cercato di spiegare nel “primo piano”. E le vacanze pure. Ma pensate che prospettiva si spalanca per chi riprende le occupazioni “normali” dell’anno con questo passo chiaro da compiere, con questo lavoro avviato di paragone continuo tra ciò che ci accade e il nostro cuore, con questo approfondimento di certezza della Sua Presenza nelle nostre vite. Pensate che cosa può essere delle battaglie che ci attendono a scuola, sul lavoro, in famiglia. O nel contesto sempre più confuso e per certi versi barbaro - lo testimoniano le vicende di questi ultimi giorni - della vita pubblica: media, politica, cultura… Pensate che cosa accade se lì dentro, non un briciolo prima - in astratto - o una frazione di secondo dopo - come etichetta da appiccicare -, ma dentro il reale iniziamo ad accorgerci davvero della presenza inestirpabile di Chi, essendo risorto, domina il reale. Qui e ora.
Diceva san Gregorio Nazianzeno, in quella frase tanto cara a don Giussani: «Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei creatura finita». Ma se arriviamo a dire «mio»…

domenica 6 settembre 2009

MEETING/ Carron: avvenimento e conoscenza in San Paolo





Il 28 giugno scorso in occasione della chiusura dell’Anno Paolino, Benedetto XVI ha affermato. “L’Anno Paolino si conclude, ma essere in cammino insieme con Paolo, con lui e grazie a lui venir a conoscenza di Gesù e, come lui, essere illuminati e trasformati dal Vangelo – questo farà sempre parte dell’esistenza cristiana” [1]. In un Meeting per l’Amicizia fra i Popoli che mette a tema la conoscenza difficilmente avremmo potuto trovare un testimone migliore di Paolo per documentare la verità del titolo scelto: La conoscenza è sempre un avvenimento. In cammino con l’Apostolo, come ci suggerisce il Papa, è possibile capire che cosa sia per lui la conoscenza come avvenimento: nel modo con cui egli ce l’ha testimoniata nella conoscenza di Gesù.



Dal punto di vista strettamente storico, nell’esistenza di san Paolo non vi è un fatto più indiscutibilmente certo della svolta che conobbe la sua vita in un momento determinato, ossia quando si trovava in cammino verso Damasco [2]. All’inizio della lettera ai Gàlati Paolo narra il cambiamento con queste parole: “Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani”[3]… Il ribaltamento è consistito, secondo la testimonianza dello stesso Paolo, nel passaggio da persecutore ad apostolo di Colui che in precedenza aveva accanitamente perseguitato. Per capire la portata d’una tale svolta occorre soffermarsi un attimo per guardare, anche se sommariamente, la vita precedente dell’apostolo.



“La mia condotta di un tempo nel giudaismo”



Fortunatamente, Paolo ci offre sufficiente informazione per farci un’idea abbastanza chiara su questa tappa della sua vita. Nel testo citato della Lettera ai Gàlati egli ci parla della sua vita di un tempo nel giudaismo, collegando la sua persecuzione della Chiesa e il suo accanimento nel sostenere le tradizioni dei padri. Quest’ultima caratteristica ci informa dell’origine della sua passione per le tradizioni dei padri: la sua educazione farisea. Infatti, come sappiamo attraverso, tra gli altri, lo storico ebreo contemporaneo Flavio Giuseppe, i farisei avevano imposto al popolo molte leggi dalla tradizione dei padri non scritte nella legge di Mosè. Conferma di questo la troviamo anche nel Vangelo: “I farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavate le mani fino al gomito, attenendosi alla tradizione degli antichi”[4]. Ma la cosa più significativa è il suo essere, nella difesa delle tradizioni, “molto zelante” (perissotérôs zêlôtês) fino al punto di sorpassare in questo zelo “la maggior parte dei miei coetanei e connazionali”.



Nella Lettera a Filippesi Paolo ci offre una breve autobiografia prima della svolta, dove esibisce le credenziali che contraddistinguevano la sua vita nel giudaismo: “circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge”[5]. Ai primi posti di questo elenco Paolo enumera i privilegi ereditati dalla sua appartenenza al popolo d’Israele (circonciso, israelita, della tribù di Beniamino, ebreo); i tre ultimi tratti sono scelte fatte da lui: fariseo, persecutore e irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge.



Il motivo, però, di questo elenco non è meramente biografico, bensì apologetico. Infatti, l’apostolo sta difendendo i suoi fratelli della comunità di Filippo[6] dai cattivi operai che mettono a rischio la loro fede cristiana, cercando di rispostare la loro fiducia lì dove la ponevano come ebrei, appunto nella carne. In questo contesto, Paolo insiste che se qualcuno ha dei titoli per vantarsi nella carne è proprio lui: circonciso, ebreo, fariseo, persecutore, irreprensibile nell’osservanza della legge.



Con ciò Paolo ci informa, tra l’altro, che lui era fariseo quanto alla legge, mettendo insieme, così, il suo fariseismo e la passione per legge. Lo scopo fondamentale del fariseismo era l’educazione alla legge. Non stupisce, quindi, che l’educazione farisea ravvivasse in Paolo la passione per la legge.



Il preciso significato che aveva per lui questa passione è quello che abbiamo scoperto: “accanito [estremamente zelante] com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri”[7]. Luca ci offre una autodichiarazione paolina riassuntiva di cosa significasse per un ebreo formarsi alla scuola farisea. “Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi”[8].



Questo zelo per Dio e per la sua legge è ciò che ha portato Paolo a essere persecutore: “fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge”[9]; “come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, … accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri”[10].



Per capire il significato che aveva per il fariseo Saulo questo zelo per Dio che lo spingeva a perseguitare i seguaci di un condannato per blasfemia dal sinedrio (il tribunale ebraico) basta leggere questo brano di un suo contemporaneo, Filone di Alessandria, in cui si parla dell’apostasia, il reato che Saulo attribuiva ai cristiani di origine ebraica: “È un bene che tutti quelli che sono animati dallo zelo per la virtù possano infliggere le pene immediatamente e con le proprie mani, senza dover condurre il colpevole dinanzi a nessun tribunale, consiglio o magistrato, e possano dar libero sfogo ai sentimenti che li animano: l’odio verso il male e l’amore per Dio, che li spingono a infliggere la pena all’empio, senza compassiona alcuna. Devono ben sapere che l’occasione li ha convertiti in consiglieri, giurati, alti magistrati, membri dell’assemblea, accusatori, testimoni, leggi, popolo; per dirlo con una sola parola: in tutto. Di modo che senza paura né impedimenti possano difendere la santità in tutta sicurezza”[11].



Questo zelo aveva i suoi modelli in personaggi veterotestamentari come Pincas, che trafigge con la sua lancia un israelita che si è unito a una donna madianita[12]; o Elia e Ieu, che uccidono quanti hanno piegato le ginocchia a Baal[13]. A partire dalla rivolta dei Maccabei questo zelo faceva parte dei gruppi radicali, che erano sempre pronti a usare la forza per difendere la legge. Anche se questo zelo non è esclusivo dei farisei (lo troviamo anche negli altri gruppi religiosi del tempo: sadducei, esseni, zeloti), non c`è dubbio che è questo un tratto d’identità dei farisei.



Che lo stesso Paolo non si astenne dall’uso della violenza, si evince dal verbo che usa per descrivere la sua azione contro la Chiesa. Per due volte Paolo usa il verbo porthein, “distruggere”[14]. Fin dove può arrivare la violenza si può vedere dall’uso che di questo verbo fa lo storico ebreo Flavio Giuseppe per descrivere l’incendio di villaggi e città di Idumea da parte di Simone bar Giora[15]. C’è chi vuole ridurre l’azione di Paolo a una forte polemica. Ma i dati offerti dallo stesso Paolo, senza nemmeno doversi appellare agli Atti degli Apostoli, parlano da sé. Più tardi Paolo stesso dirà[16], in allusione agli ebrei che non hanno riconosciuto Cristo a causa del suo zelo per Dio, che questo zelo è stolto, senza vera conoscenza (ou kat’ epignôsin)[17].



Alla fine di questa breve descrizione della prima tappa della vita di Paolo possiamo dire che essa è totalmente determinata dalla legge. La sua formazione farisea, il suo zelo per la tradizione degli antichi, la sua attività di persecutore parlano di questa sua passione per la legge data da Dio al popolo sul Sinai e che costituiva per lui il bene più prezioso. Tutto ruota intorno alla legge. In una situazione come quella sin qui descritta, con una convinzione così radicata, nulla poteva far sperare in un cambiamento significativo nell’esistenza di Paolo. Ma l’imprevisto accade.



L’avvenimento di Damasco



Infatti, nel corso di una delle sue azioni contro i cristiani di Damasco Paolo si è visto sorpreso da un avvenimento che gli ha cambiato la vita (Att 9,1-5). Anche quelli che non erano stati testimoni dell’evento non potevano evitare di trovarsi davanti al fatto di questo cambiamento che si rendeva evidente a loro nel modo con cui Paolo si muoveva e nei nuovi compagni da cui si trovava circondato. Il libro degli Atti[18] narra in modo espressivo questo cambiamento descrivendo i nuovi rapporti di Paolo a Gerusalemme: “Venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo”. Dopo che Barnaba narra come Paolo si è comportato a Damasco, il timore viene fugato e l’Apostolo può andare e venire “a Gerusalemme, parlando apertamente nel nome del Signore”.



Rivolgendosi ai Gàlati, Paolo non testimonia soltanto il cambiamento che ha avuto luogo nella sua vita, ma anche il fatto che lo ha causato: la rivelazione del Figlio che gli è stata concessa da Dio. Come afferma categoricamente Charles Kingsley Barrett: “L’essenza della conversione di Paolo fu la rivelazione di Gesù Cristo”[19]. Tuttavia in questo testo Paolo non ci spiega esplicitamente in che cosa sia consistita questa rivelazione. Da altri passi della Lettera sappiamo che essa si basa sull’apparizione di Cristo risorto. Nelle due occasioni in cui Paolo allude a questo fatto nella Prima Lettera ai Corinzi l’esperienza avuta sulla via di Damasco viene collocata nel contesto delle apparizioni pasquali. In 1Cor 9,1 (“Non ho veduto Gesù, Signore nostro?”), utilizza lo stesso verbo, horein, “vedere”, che ritroviamo in contesti legati alla Pasqua[20]. E in 1Cor 15,8, Paolo cita l’apparizione di Gesù risorto di cui fu personalmente oggetto, alla fine di un elenco di apparizioni: di conseguenza la cataloga come tale. Da questi testi si può dunque arguire che “Paolo ha visto Gesù” e che “considera questa visione identica e di pari valore rispetto a quelle che hanno ricevuto come grazia Pietro, Giacomo e gli altri testimoni delle apparizioni del Risorto”[21].



Se “l’esperienza è l’emergere della realtà alla coscienza dell’uomo, è il divenire trasparente della realtà allo sguardo umano”[22], per Paolo in questa esperienza dell’incontro con il Risorto diventa trasparente la realtà di Cristo. In nessun altro momento della sua vita la ragione e la libertà di Paolo furono sfidate, messe in gioco, come di fronte a questo avvenimento. In modo assolutamente imprevisto, sulla strada verso Damasco, Cristo risorto incontra Paolo, la cui ragione viene dilatata dalla grazia della fede perché sia adeguata alla realtà eccezionale che ha davanti a sé. È questa presenza di Cristo risorto – che lo precede e lo provoca, cioè lo precede chiamandolo – a sostenere l’apertura della ragione affinché Paolo possa percepire adeguatamente il significato di quell’incontro, provocando in lui l’attrazione che permette alla libertà l’adesione amorosa a quella presenza[23]. Per questo l’Apostolo può appropriatamente definire l’avvenimento una rivelazione: in esso si rivela a Paolo la piena realtà di Cristo[24]. Come tanti ebrei, Paolo aveva accettato il giudizio su Gesù contenuto nella sentenza del sinedrio: un bestemmiatore, contrario alle più preziose tradizioni di Israele (il Tempio e la Legge)[25]. Credeva di sapere già chi fosse Gesù Cristo. Ora invece l’inaspettata irruzione nella sua vita di Cristo risorto gli fornisce una conoscenza su cui non poteva contare.



Se, come recita l’assioma di Jean Guitton, “‘ragionevole’ significa sottomettere la ragione all’esperienza”[26], Paolo si è dimostrato un uomo ragionevole, accettando di sottomettere la sua ragione, ossia ciò che pensava di Gesù, alla conoscenza della realtà di Cristo così come si era resa trasparente in quell’esperienza. J. Murphy-O’Connor ha descritto magistralmente questo processo: “Ora Paolo conosceva con la convinzione ineludibile dell’esperienza diretta che il Gesù che era stato crocifisso sotto Ponzio Pilato era vivo. La resurrezione che aveva ostinatamente rifiutato era un fatto, innegabile quanto la sua stessa realtà. Sapeva che Gesù ora esisteva su un altro piano. Questo riconoscimento era tutto quello di cui aveva bisogno per la sua conversione. [...] Gesù quindi deve essere precisamente ciò che Egli in modo implicito, e i suoi discepoli in modo esplicito, pretendevano che fosse: il Messia”[27]. Fu la conoscenza della vera natura di Gesù Cristo, ottenuta attraverso la grazia di una rivelazione, a motivare la sua conversione. L’avvenimento di questa rivelazione trasformò il persecutore fariseo in un apostolo. Essere così semplici da riconoscere il contenuto di quella rivelazione implicava il riconoscimento di Gesù Cristo e l’immediata cessazione della sua attività persecutoria. Le persone che egli aveva perseguitato avevano ragione, egli stesso aveva torto.

Questo aiuta a capire la natura della cosiddetta ‘conversione’ di Paolo. È indubbio che a Paolo si debba applicare il concetto di conversione con molta cautela. “Siamo lontanissimi dal cliché della conversione intesa in senso moralistico. Paolo non era un peccatore penitente che ha ritrovato il cammino del bene, dopo aver percorso quello del male. Tantomeno era un agnostico che ha finito per accettare Dio e una visione religiosa della realtà”[28]. Come ha scritto lo studioso di San Paolo, C.K. Barrett: “La conversione di Paolo non ha trasformato un uomo moralmente empio in un uomo moralmente buono; non era mai stato un uomo moralmente empio”. Egli stesso confessa che era “irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge” (Fil 3,6); che superava “nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali” (Gal 1,14). Si deve a questo zelo anche l’accanita persecuzione della Chiesa di Dio: lo considerava un dovere strettamente religioso, come dimostra il fatto che, dopo la rivelazione della vera natura di Cristo, abbandona la sua attività di persecutore per aderire a Lui”[29]. Per questo, insiste G. Barbaglio, “la sua, se si può parlare di conversione, è stata una conversione a Cristo, scoperto con gli occhi della fede come chiave di volta del destino umano”[30].



Nuova conoscenza



Da quanto detto si evince che la novità dell’evento accaduto sulla via di Damasco non si limita al cambiamento di vita, da persecutore a credente in Gesù Cristo. Per Paolo questo avvenimento è stato una vera conoscenza, di cui il cambiamento di vita non è altro che una conseguenza. “Il suo incontro con Cristo gli ha rivelato la verità di tutto quello che aveva ritenuto falso, costringendolo a una nuova valutazione, che si trasformò nel nucleo cristologico e soteriologico del suo vangelo”[31].

Nella Seconda Lettera ai Corinzi[32] 5,16 San Paolo ci dice esplicitamente la novità di questa conoscenza: ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne (kata sarka); e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne (kata sarka), ora non lo conosciamo più così[33].



Che cosa significa per Paolo questa conoscenza di Cristo “secondo la carne”? Si è discusso molto a che elemento della frase occorreva unire l’espressione “secondo la carne”: a Cristo o al verbo “conoscere” [34]. È chiaro che qui Paolo sta mettendo a contrasto due modi di conoscere: quello del passato (“abbiamo conosciuto”), che era una conoscenza di Cristo “secondo la carne” e quello del presente (“ora però non lo conosciamo più così”). “Quando lui [Paolo] dice ‘Noi abbiamo conosciuto in altro tempo Cristo secondo la carne’ (5,16) si riferisce ovviamente alla conoscenza che aveva di Cristo quando come fariseo perseguitò i cristiani (Gal 1,13; Fil 3,6). Egli condivideva l’opinione comune tra i suoi coetanei che Gesù fosse un maestro eretico e un agitatore turbolento le cui attività l’avevano portato giustamente al patibolo. Questa – egli lo sa – è una valutazione falsa, e l’abbandona. Adesso riconosce Gesù come Salvatore”[35]. Questo ci consente di capire il senso della conoscenza “secondo la carne”. La conoscenza di Cristo “secondo la carne” è una conoscenza di Cristo secondo la sua misura, la sua capacità umana di conoscenza, che l’aveva portato a una valutazione di Cristo che l’avvenimento di Damasco aveva mostrato falso[36]. Leggiamo infine il testo nella nuova versione italiana: “Quindi, da ora in poi, noi non conosciamo più nessuno da un punto di vista umano; e se anche abbiamo conosciuto Cristo da un punto di vista umano, ora però non lo conosciamo più così”.



Che Paolo dia alla rivelazione accaduta sulla via di Damasco il valore di conoscenza si vede nel fatto che il contenuto di questa rivelazione diventa il metro di giudizio fondamentale per valutare ogni cosa[37]. “Cristo gli aprì gli occhi e, una volta che lo ebbe conosciuto, i suoi criteri di giudizio furono semplicemente rovesciati”[38]. Nulla lo rende più evidente che il testo in cui egli ci fa vedere che novità si è introdotta nel giudicare questo evento: “circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo”[39].



Paolo è poi obbligato a rivedere tutte le categorie fondamentali del suo pensiero, le sue vecchie convinzioni, alla luce della nuova conoscenza di Cristo[40]. Il risultato di questa revisione e la nuova mentalità derivatane costituiscono ciò che chiamiamo teologia paolina[41].

“Quella rivelazione del ‘Signore della gloria’ crocifisso (1Cor 2,8) fu un avvenimento che rese Paolo, il fariseo, non soltanto un apostolo, ma anche il primo teologo cristiano”[42]. Per questo i tentativi di spiegare la teologia paolina a partire da altri punti sorgivi diversi da quell’evento sono falliti. Secondo J. Jeremias, né l’ambiente ellenistico né l’educazione giudaica costituiscono la chiave per comprendere il pensiero e la vita di Paolo: “né la religione misterica, né il culto dell’imperatore, né la filosofia stoica né il presunto gnosticismo precristiano costituiscono l’humus originario dell’apostolo. [...] Paolo è uno di quegli uomini che hanno sperimentato una violenta rottura con il passato. La sua è una teologia radicata in una conversione repentina”[43].

Per questo “la finalità dell’intera teologia dell’apostolo è in ultima istanza la spiegazione della rivelazione del Figlio di Dio, che ebbe luogo sulla via di Damasco. Questa è l’origine da cui nasce il suo pensiero e da cui egli parte per elaborare la sua teologia. È chiaro che al momento della sua vocazione non era ancora cosciente della portata della rivelazione, che doveva essere il suo vangelo. Ma in nuce tutto il resto era già presente. Concretamente, la rivelazione è proprio il fatto che Gesù è il Figlio di Dio”[44].



Questo non vuol dire che Paolo capisse tutto fin dall’inizio. Osserva J. Fitzmyer: “Affermare il carattere decisivo di questa visione per la penetrazione del mistero di Cristo non significa che Paolo abbia compreso immediatamente tutte le implicazioni della visione che gli fu concessa. Ma gli fornì il criterio valutativo di base, che avrebbe illuminato tutto quello che doveva imparare su Gesù e la sua missione tra gli uomini, non solo nella tradizione della Chiesa primitiva, ma anche nella sua esperienza apostolica personale di predicatore del ‘Cristo crocifisso’ (Gal 3,1)”[45]. Con questo nuovo criterio valutativo Paolo fu costretto a rivedere tutte le sue convinzioni fondamentali: dalla legge alla storia della salvezza, dal culto alla lettura della Scrittura. Tutto è visto alla nuova luce di quest’evento. È ovvio che non possiamo rivedere ciascuno di esse. Ci soffermeremo su due esempi, ognuno portatore di una indicazione decisiva.



Il velo di Mosè



A nessuno risulterà a questo punto strano che il cambiamento operato in Paolo come conseguenza dell’avvenimento sulla via di Damasco abbia influenzato il suo modo di leggere la Scrittura, strumento decisivo per formulare la nuova mentalità e per spiegare il mistero di Cristo; infatti, Paolo si servì come mezzo per esprimere la novità cristiana, di cui ora partecipava, proprio le Sacre Scritture di Israele, l’Antico Testamento[46]. Ma in che cosa consisteva la novità del suo avvicinamento alla Scrittura?



Nel corso della storia, il terzo capitolo della Seconda Lettera ai Corinzi è stato il punto di riferimento fondamentale per comprendere questa novità, quella che chiameremo l’ermeneutica paolina[47]. Questo capitolo fa parte dell’apologia che Paolo fa del suo ministero di apostolo, confrontandolo con quello di Mosè, cui fanno appello i suoi avversari[48]. In esso Paolo contrappone l’effimero ministero della lettera, che è ministero di morte e di condanna, al perenne ministero dello Spirito che dà vita, un ministero di giustizia[49]. Sebbene anche il primo sia un ministero glorioso, la sua gloria non è paragonabile a quella del secondo. “Se dunque ciò che era effimero fu glorioso, molto più lo sarà ciò che è duraturo”[50].



Se il ministero apostolico di Paolo è così glorioso da risplendere tra tante tribolazioni per la sua capacità d’introdurre una novità nella vita, allora perché non viene accolto tra gli ebrei? Questa mancanza di una risposta, non è forse segno della sua inautenticità?[51] Per controbattere a questa obiezione al proprio ministero formulata dai suoi avversari ebrei, Paolo ricorre al racconto del velo di Mosè[52] contenuto nel libro dell’Esodo[53]. E comincia dicendo: “Forti di tale speranza, ci comportiamo con molta franchezza e non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli di Israele non vedessero la fine di ciò che era solo effimero”[54]. L’apostolo con il participio (katargoumenou) si riferisce al fatto che lo splendore di Mosè, che si identifica con quello dell’antica legge, sparirebbe al manifestarsi del mistero di Cristo in tutta la sua pienezza[55]. Questa manifestazione, che ebbe luogo durante la resurrezione di Gesù, inaugura un ministero di gloria duraturo, fonte di una speranza che permette a Paolo di procedere in tutta libertà, senza la necessità di ricorrere, come Mosè, a un velo che ne occulti la scomparsa.



Subito dopo però Paolo utilizza la parola “velo” per designare un altro fatto che avviene presso una parte del popolo ebraico, quella che continua, per zelo verso i supposti diritti del Dio di Israele, a rifiutare Gesù (e con Lui il Suo vangelo, i predicatori dello stesso e quella parte degli ebrei che lo ha accolto)[56]. “Ma le loro menti furono accecate; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, alla lettura dell’Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto”[57]. Nelle riflessioni dell’Apostolo il velo è ciò che ricopre il cuore, ossia gli occhi dell’intelligenza di questi ebrei ostili, di modo che quando ogni sabato la legge (l’Antico Testamento) viene letta nelle loro sinagoghe, essi non vedano la realtà, ossia quello che Gesù Cristo ha rappresentato con la sua predicazione, morte e resurrezione. Finché non si toglieranno (o finché Dio non toglierà) il velo dal loro cuore, non crederanno in Gesù Cristo, e quindi non comprenderanno pienamente l’Antico Testamento[58]. La relazione tra la fede in Cristo e la vera comprensione della Scrittura è fondata sul fatto che, come dice lo stesso Paolo all’inizio della lettera ai Romani, “il vangelo di Dio”, che è il vangelo “riguardo al Figlio suo ... Gesù Cristo” Dio lo “aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture”[59]. Per questo possiamo dire con A. Vanhoye che “per quelli che leggono le Scritture senza riconoscere che parlano di Gesù Cristo, l’AT è un libro il cui significato rimane velato (2Cor 3,14)”[60].



Qui tuttavia Paolo non ci dice soltanto che l’Antico Testamento continua a essere velato per chi non crede in Cristo, ma anche come si può rimuovere il velo che ne impedisce la comprensione. Con un tratto stilistico di grande bellezza, che impiega con una certa frequenza per dire ai destinatari delle lettere come si toglierà il velo, Paolo utilizza le parole dell’Esodo[61] in cui l’autore sacro descrive come Mosè, rivolgendosi a Dio per parlarGli, si toglieva il velo. Allo stesso modo, questi ebrei che non vedono la verità di Gesù per il velo posato sui loro cuori possono raggiungere la ricca fonte di speranza costituita dal Vangelo attraverso un’unica via: questa via consiste nel rivolgersi a Dio, perché l’unico Dio di Israele è quello che si è manifestato nella resurrezione di Gesù.



Anche se non è così immediato seguire quella che è stata denominata la “forma midrashica di argomentazione”[62] di Paolo, perché è molto lontana dal nostro modo di ragionare, lo scopo dell’allusione al velo di Mosè in questo contesto è chiaro. Ricorrendo all’immagine del velo, Paolo vuol dire, secondo M. Thrall, che “nella vita della sinagoga rimane attivo ‘lo stesso velo’, la stessa barriera per la comprensione della finalità della Legge di Mosè, già presente come all’epoca di Mosè. [Questo velo] è ancora posto sull’AT, durante la lettura”[63]. La barriera che ostacola la percezione del significato della Scrittura sparisce definitivamente solo con l’arrivo di Cristo[64]. In tal caso, le critiche giudaiche al ministero di Paolo, o in senso più generale al cristianesimo, basate sulla comprensione ebraica dell’Antico Testamento mancano di fondamento[65]. Ma, come abbiamo visto, ciò non è sufficiente. Perché Cristo sveli il significato dell’Antico Testamento si richiede, da parte di chi lo legge, di rivolgersi al Signore, ossia al Dio che si è manifestato in Gesù Cristo[66].



L’importanza di questo testo per l’interpretazione della Scrittura è evidente. Secondo D.-A. Koch, il passo è un testo chiave, dato che è l’unico in cui Paolo affronta esplicitamente, seppure in modo indiretto, la questione dell’ermeneutica[67]. In esso, Paolo stabilisce le condizioni per la comprensione della Scrittura. Forse non risulterà inutile ricordare in questo contesto che coloro a cui Paolo rimprovera di leggere la Scrittura coperta da un velo che impedisce loro di comprenderne il vero significato sono giudei (e non possono essere altro che giudei)[68]. È ben noto il complesso sistema di regole ermeneutiche generato dal giudaismo per la comprensione dell’Antico Testamento[69]. Anche se ai tempi di Paolo questo sistema non era ancora arrivato alla complessità che più tardi sarà testimoniata dalla letteratura rabbinica, sappiamo che aveva già raggiunto un certo grado di sofisticazione[70]. Nonostante questo spreco di energie e d’ingegno, Paolo sostiene che la lettura rimane velata finché non si rivolgeranno al Signore, ossia al Dio che si è manifestato durante la morte e la resurrezione di Cristo (poiché non vi altro Dio oltre quello che si è manifestato in Cristo). In questo modo Paolo stabilisce il principio fondamentale della sua ermeneutica: l’interpretazione della Scrittura non è in ultima istanza una questione tecnica, ma teologica. Tutta l’abilità e tutta la perspicacia dei rabbini non sono in grado di attraversare il sottile velo che li separa da una reale comprensione. Qualsiasi sforzo umano non basta ad attraversarlo. Paolo lo sapeva per esperienza personale. Descrivendo la fase giudaica della sua vita, non può far altro – l’abbiamo visto – che riconoscere come nel giudaismo superasse “la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri”[71]. Questo zelo lo aveva portato a studiare presso uno dei rabbini più prestigiosi del suo tempo, Gamaliele. Munito di questo bagaglio, era convinto di comprendere le tradizioni meglio dei seguaci di Colui che a suo parere le metteva in pericolo, e così secondo lui era legittimo perseguitarLo. Soltanto la grazia della rivelazione del Figlio, concessagli da Dio, ha permesso la rimozione del velo e con questo il reale raggiungimento del vero significato delle tradizioni ricevute.



In tal senso – per limitarci a citare un altro esempio del rinnovato interesse che negli ultimi trent’anni ha suscitato questo capitolo come testo chiave dell’ermeneutica paolina dell’Antico Testamento – P. Stuhlmacher ha richiamato l’attenzione sul vincolo tra l’esperienza di Paolo sulla via di Damasco e 2Cor 3,14, testo in cui Paolo rende esplicito il fondamento della sua ermeneutica. 2Cor 3,14 mostra – secondo il professore di Tubinga – che l’esperienza di Paolo lo ha costretto a concludere che sulla lettura e l’interpretazione della legge era posto un ‘velo’ che occultava al giudeo il suo vero significato e, di conseguenza, gli impediva di giungere a una vera comprensione di Cristo. In Cristo questo velo scompare, rendendo così possibile una vera comprensione della Legge. Secondo Stuhlmacher, l’esperienza cristologica di Paolo è il punto di appoggio sia della sua visione della Legge, sia della sua ermeneutica dell’Antico Testamento[72]. Il principio ermeneutico cristologico tuttavia non impedisce a Paolo l’utilizzo delle tecniche esegetiche del suo tempo, come dimostra anche il testo che stiamo commentando. Lo studio dell’uso dell’Antico Testamento nelle lettere rende manifesto il fatto che Paolo abbia messo al servizio di questo principio ermeneutico, ancorato alla sua esperienza, tutte le sue conoscenze di esperto rabbino. Molte citazioni dell’Antico Testamento che troviamo nelle sue lettere sono così complesse che si possono spiegare solo col fatto che Paolo aveva acquisito una totale padronanza dei metodi esegetici del suo tempo. Principio cristologico e principio razionale, ossia l’impiego di determinate tecniche di interpretazione, non sembrano dunque assolutamente contrapposti nell’uso che ne fa Paolo. Lo dimostra il fatto che l’utilizzo dei testi dell’Antico Testamento da lui citati non è assolutamente arbitrario, ma particolarmente accurato nel rendere il loro significato originale nei rispettivi contesti[73]. Le regole ermeneutiche tuttavia non sono usate in modo neutro, ma alla luce dell’avvenimento che ha determinato la sua vita. Sottolinea M. Hooker: “La differenza fondamentale tra Paolo e i suoi contemporanei non è, dunque, una questione di metodo, dato che egli usa tecniche che ad essi erano familiari, anche quando a noi risultano estranee. [La differenza] consiste piuttosto nell’accettazione del fatto che Cristo stesso è la chiave del significato della Scrittura”[74]. E la ragione di questa differenza si basa, secondo la studiosa, sul fatto che, avvicinandosi alla Scrittura, “Paolo parte dall’esperienza cristiana e spiega la Scrittura alla luce di questa esperienza”[75]. In questo modo Paolo ci insegna una volta per tutte che la contemporaneità di Cristo è l’unica in grado di svelare il senso della Scrittura. Ieri come oggi.



La stoltezza dei Gàlati



Ma come può conoscere Cristo uno che non abbia la grazia che ha avuto Paolo di una apparizione di Cristo risorto? Come può partecipare all’avvenimento che gli consenta di fare esperienza di Cristo per poter conoscerlo? Quanto accadde nelle chiese della Galazia è altamente significativo e funge da esempio spettacolare.



I galati hanno avuto notizie di Cristo attraverso l’annuncio del vangelo grazie all’attività missionaria dell’Apostolo. L’accoglienza di questo annuncio da parte dei Galati ha consentito loro di fare l’esperienza che Paolo sintetizza meravigliosamente in queste parole: “Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”[76]. E continua, poco oltre: “E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!”[77]. L’incorporazione in un gruppo ben preciso, la comunità cristiana, attraverso un gesto determinato, il battesimo, dopo aver accolto il Vangelo, il cui contenuto è condiviso da Paolo con gli altri apostoli, da allora ha permesso ai Gàlati di avere esperienza della novità che Cristo ha introdotto nella storia. Questa esperienza è talmente reale che Paolo si appellerà ad essa per aiutare i Galati ad affrontare una situazione in qui si sono venuti a trovare.



Infatti, poco dopo essi vengono importunati da alcuni intrusi i quali annunciano “un altro vangelo”, che per la loro salvezza insieme con la fede in Cristo richiede la circoncisione e le opere della legge[78]. I Gàlati così si trovano davanti due versioni del ‘vangelo’, e devono prendere una decisione. Sorpreso dalla rapidità con cui essi stanno passando a un ‘vangelo’ diverso da quello che ha predicato[79], Paolo scrive la lettera per dimostrare che “non ce n’è un altro”, ma solo quello che ha annunciato loro e ciò che li sta ammaliando non è altro che una deformazione dell’unico Vangelo di Cristo[80]. Per questo, nella prima parte racconta la sua storia personale: come ha conosciuto il Vangelo per rivelazione e come questo Vangelo che predica è l’unico Vangelo, corrispondente a quello degli altri apostoli, come dimostra il fatto che quando lui aveva esposto il vangelo che predicava tra i gentili direttamente alle colonne della Chiesa di Gerusalemme (cioè Pietro, Giovanni e Giacomo), non solo non gli imposero né aggiunsero nulla di nuovo[81], ma gli tesero la mano in segno di comunione, come riconoscimento della “grazia a me conferita”[82] sulla via di Damasco.



Ma Paolo non si limita a questo, e nella seconda parte della lettera fornisce ai travagliati Gàlati gli argomenti con cui potersi difendere dagli attacchi che stanno ricevendo. Paolo sa per esperienza personale che fu portato a convincersi della verità di Cristo dall’esperienza del suo incontro con Lui. Tenendo conto di questo fatto, non risulta strano che l’apostolo in questa seconda parte cominci appellandosi all’esperienza dei Gàlati. Ecco il testo: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia. Noi infatti per virtù dello Spirito, attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo”[83].



In questo passo Paolo mette in primo luogo davanti agli occhi dei Gàlati il fatto che abbiano ricevuto lo Spirito, e i prodigi che questo Spirito ha operato tra loro. Come osserva acutamente Vanhoye, “nel contesto si tratta necessariamente di un fatto osservabile, constatabile. Altrimenti non potrebbe servire come argomentazione”[84]. Proprio perché è un fatto verificabile, i Gàlati hanno potuto fare l’esperienza dello Spirito, e ciò permette a Paolo di appellarsi a questa esperienza come criterio decisivo per chiarire il dilemma che ora devono affrontare. Per questo, – ha sottolineato J. Dunn – “appellarsi all’esperienza da parte di Paolo non è un fatto periferico o casuale. È al centro della sua intenzione di trattenere i Galati all’interno del suo vangelo”[85].



Prima di continuare è necessario soffermarsi brevemente sul valore del verbo pascheinperché sul suo significato è nata una vivace discussione. La ragione di questa discussione si basa sul fatto che il verbo è sempre usato con il significato di ‘soffrire’ [86]. Per questo motivo commentaristi antichi e moderni hanno interpretato l’epathete di 3,4 come un’allusione ai patimenti sofferti dai Gàlati in conseguenza della loro adesione alla fede[87]. Se ora la abbandonassero, passando a un altro ‘vangelo’, tutte queste sofferenze sarebbero state vane. Tuttavia la letteratura greca documenta anche casi in cui paschein viene usato rispetto a esperienze favorevoli, positive, prive di sofferenza[88]. Per questo recentemente alcuni studiosi hanno interpretato il verbo in questione nel nostro testo nel senso di ‘sperimentare, fare l’esperienza di qualcosa di positivo’. A loro parere, questo è l’unico significato adeguato al contesto in cui compare il verbo nel nostro testo, in cui Paolo si sta appellando all’esperienza positiva vissuta dai Gàlati quando hanno ricevuto lo Spirito e, in seguito, ai miracoli che lo Spirito ha realizzato fra di loro[89]. Secondo F. Mussner, “tosauta può designare unicamente i doni dello Spirito e i ‘prodigi’ che discendono da lui (cfr. 5,5). Il verbo paschein ha anche un significato positivo: ‘sperimentare’ (qualcosa di buono)”[90]. Il fatto che Paolo non alluda in nessun altro passo della lettera a sofferenze vissute dai Gàlati – diversamente da quello che dice, per esempio, dei Tessalonicesi, che ricevettero e mantennero la loro fede fra gravi tribolazioni[91] –, è per questi studiosi una conferma dell’uso positivo del verbo in tale contesto. Dato che il verbo paschein può avere il significato più neutro di ‘sperimentare’, e che la scelta del significato è determinata dal contesto, orientato interamente verso un tenore positivo, possiamo concludere che con esso Paolo si sta riferendo alle esperienze positive vissute dai Gàlati dal momento in cui decisero di ricevere il vangelo di Paolo. Scrive R. Longenecker “Per questo tosauta epathete deve essere interpretato con ogni probabilità come riferito all’insieme di esperienze spirituali positive”[92].



Ma che cosa significa ‘ricevere lo Spirito’[93]? È ben noto che a partire da H. Gunkel le opinioni sono concordi e si possono sintetizzare con queste parole: “La teologia del grande apostolo è un’espressione della sua esperienza, non delle sue letture... Paolo crede nello Spirito divino, perché lo ha sperimentato”[94]. Uno degli ultimi studi sulla questione non ha fatto altro che confermare questo convincimento: per Paolo lo Spirito era una realtà sperimentata[95]. Ma Paolo, nella sua concisione, non ci ha facilitato: non ci fornisce una descrizione esplicita dei fatti cui si riferisce, che certamente erano noti ai Gàlati (ma non a noi). Possiamo però essere certi che non furono troppo diversi da quelli enumerati in Gal 5,22, quando Paolo fa un elenco dei frutti che lo Spirito produce in coloro che lo ricevono: “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”. In altre parole: il cambiamento dell’io. Inoltre, nel nostro passo troviamo l’altra espressione energôn dynameis, “colui che opera miracoli”. Si tratta di un’azione presente, lo dimostra il participio presente energôn. Come leggiamo in 1Cor, dove “il dono di far guarigioni” e “il potere dei miracoli” (energêmata dynameôn) sono attribuiti allo Spirito. Questi fatti accertabili costituiscono l’esperienza dei Gàlati. “Qui l’obiettivo è ricordare ai Gàlati un genere di esperienze sufficienti a dimostrare che essi hanno ricevuto lo Spirito escatologico”[96].



Dopo aver messo loro di fronte le grandi cose (tosauta epathete) di cui hanno fatto esperienza, può porre la questione decisiva: “Colui che dunque vi concede lo Spirito e opera portenti in mezzo a voi, lo fa grazie alle opere della legge [perché siete fedeli alla legge ebraica] o perché avete creduto alla predicazione [all’annunzio cristiano]?”[97]. Se saranno onesti e leali rispetto all’esperienza vissuta, potranno riconoscere attraverso di essa che le grandi cose successe a loro non hanno origine dall’osservanza della legge, dato che il Vangelo predicato da Paolo non la includeva come fattore determinante, ma soltanto dall’ascolto della fede. Soltanto la fede è l’origine dei frutti che vedono con i loro occhi! Questo è il motivo per cui conviene che continuino ad abbracciare il Vangelo che ha prodotto tra loro tanti frutti preziosi.



Appellandosi dunque alla loro esperienza, Paolo offre al contempo il metodo per uscire dallo stato di perplessità in cui si trovano: tutte queste esperienze positive non significano nulla per voi, quando vi trovate di fronte al dilemma se continuare con lo Spirito o tornare alla legge giudaica?[98]. Saranno state vane? Come l’esperienza sulla via di Damasco, cui l’Apostolo ha fatto allusione all’inizio della lettera, ha permesso a Paolo di riconoscere la verità su Cristo (e quindi di scegliere ragionevolmente tra le due interpretazioni della persona di Gesù, quella degli ebrei seguaci del sinedrio e quella cristiana), così l’esperienza dei Gàlati è ciò che permette loro di decidere in modo ragionevole tra le due interpretazioni del Vangelo. Certamente Paolo è cosciente del fatto che sono esperienze di natura molto diversa. Ma questa differenza non sminuisce la loro validità. Nel caso di Paolo l’esperienza dell’incontro con Cristo risorto gli fa conoscere in modo diretto, immediato, la vera realtà di Cristo. Nel caso dei Gàlati il modo per arrivare a conoscere la realtà profonda di Cristo ha seguito un altro corso, non per questo meno adatto a giungere a una certezza. I Gàlati hanno davanti segni palpabili della Sua presenza in mezzo a loro grazie all’azione condotta dallo Spirito attraverso la predicazione, il battesimo, eccetera. Sanno bene che questi segni sono iniziati a partire dal momento in cui hanno deciso di ricevere il Vangelo di Gesù. Sono dunque segni che non possono essere spiegati ragionevolmente se non con la presenza di Cristo risorto in mezzo a loro a opera dello Spirito. Per strade diverse, tanto Paolo quanto i Gàlati ne possono essere certi. Questo dovrebbe convincerli della verità del vangelo di Paolo. La loro esperienza permette che giudichino da soli, senza dipendere né da Paolo né dagli intrusi. Qui risiede il valore dell’appellarsi di Paolo all’esperienza: è in essa che si rende trasparente la verità del Vangelo che Paolo ha predicato loro.



Tutto ciò permette di comprendere la reale portata dell’accusa di ‘stoltezza’ mossa da Paolo ai Gàlati. “O stolti Gàlati, chi mai vi ha ammaliati”[99]. Con essa – commenta Vanhoye – “quello che [Paolo] cerca è di provocare la presa di coscienza da parte dei Galati della loro ‘stoltezza’”[100]. In che cosa consiste la loro stoltezza? Nonostante quanto si è reso evidente grazie alla loro esperienza – ossia che la loro adesione al Vangelo ricevuto da Paolo ha procurato straordinari benefici, come documenta ciò che è loro successo –, i Gàlati sono sul punto di lasciare tutto per seguire un altro ‘vangelo’. La stoltezza dei Gàlati, la loro posizione irragionevole, si basa sul non voler sottomettere la ragione all’esperienza vissuta. Se non si lasciassero ammaestrare da questa esperienza, essa risulterebbe realmente vana. Come ha acutamente notato J. Bligh, “se l’esperienza non ha insegnato loro nulla, allora è stata vana”[101]. Invece di fornire ulteriori motivi a favore della loro adesione a ciò che hanno ricevuto, tutto quello che hanno vissuto fino a ora sarebbe paradossalmente stato inutile. “L’esperienza cristiana dimostra l’efficacia salvifica della fede senza alcun riferimento alle opere della legge. Questo fatto iniziale è fondamentale. Il seguito deve corrispondere all’inizio, deve mantenersi sullo stesso piano. I Gàlati però stanno cambiando livello. Dal livello spirituale, dove li ha posti la fede, scendono al livello carnale. È assurdo. Non sono coerenti con la loro propria esperienza. Dio, invece, è coerente, non inizia in un modo per continuare in un altro. Come ha iniziato, così continua, ossia comunica lo Spirito non attraverso le opere della legge, ma attraverso l’ascoltare/ricevere la fede”[102].



Ancora una volta dunque ciò che permette di discernere tra le diverse interpretazioni non è una questione tecnica, ma teologica, o meglio cristologica. È l’avvenimento di Cristo morto e risorto – che per opera dello Spirito si rende presente nella Chiesa e attraverso la Chiesa, comunicandosi alla ragione e alla libertà dell’uomo – a rendere possibile un’esperienza che permette di decidere in ogni momento rispetto alle diverse interpretazioni che possono comparire nel corso della storia umana.

* * *

L’esperienza di Paolo e dei Gàlati ci ha mostrato qual è la condizione per conoscere Cristo: la partecipazione all’avvenimento in cui Lui si rende presente all’esperienza umana. In questo senso possiamo dire che Paolo e i Gàlati sono una documentazione che la conoscenza è sempre un avvenimento. Nessun altro metodo può darci una vera e propria conoscenza. Perché? Vediamolo nel caso di Paolo coi Gàlati.



Tanto l’uno quanto gli altri sono nati in un popolo che li ha introdotti alla realtà attraverso una cultura. A entrambi, così situati storicamente, quindi dotati della tipica precomprensione, va incontro Cristo (direttamente come nel caso di Paolo, oppure attraverso la Chiesa, come per i Gàlati) provocando in loro il dilatarsi della ragione, chiamata a riconoscere la novità che hanno davanti, come succedeva ai discepoli, la cui “capacità di credere”, dice H.U. v. Balthasar, era “completamente sostenuta ed operata dalla persona rivelatrice di Gesù”[103]. Avvenimento cristiano e ragione non si contrappongono nella conoscenza. Al contrario, come si vede dalla questione del velo mosaico, l’avvenimento cristiano libera la ragione dai limiti cui normalmente si conforma seguendo le usanze della propria cultura e tradizione, la restituisce al suo dinamismo più specifico, ossia all’aprirsi liberamente alla comprensione della totalità della realtà, e nella sua novità radicale, come presenza di Dio tra gli uomini, la porta gratuitamente più in là di dove arriverebbe con le sue proprie forze[104].



Quando la libertà di coloro che incontrano l’avvenimento cristiano non si sottrae all’attrazione che la Sua presenza provoca in essi, inevitabilmente si impegnerà a verificarne la corrispondenza con tutti gli aspetti della realtà, giungendo così alla certezza che permette la loro ragionevole adesione. Il caso dei Gàlati dimostra chiaramente che l’annuncio cristiano non viene accettato in modo acritico. Se Paolo si appella all’esperienza dei Gàlati, è precisamente perché non pretende una resa incondizionata al Vangelo – che sarebbe assolutamente indegna della loro natura razionale di uomini –, ma li invita semplicemente a sottomettere la loro ragione all’esperienza vissuta, di modo che quella non si erga a criterio di giudizio avulso da questa, rendendo così vana, inutile, la storia che hanno vissuto, e diventando così irrimediabilmente stolti. L’onestà e la lealtà verso l’esperienza vissuta permette invece di aderire in modo pienamente ragionevole e insieme pienamente libero.



Il caso di Paolo e dei Gàlati è paradigmatico in ogni momento della storia poiché, come per loro, l’avvenimento di Cristo diventa contemporaneo nella vita della Chiesa per ogni uomo, nelle sue circostanze storiche e culturali, permettendogli di vivere la stessa esperienza che consente di raggiungere la certezza sulla verità di ciò che essa annuncia. Questo è così perché, come dice H. Schlier, “il significato ultimo e peculiare di un avvenimento, e pertanto dell’avvenimento stesso nella sua verità, si apre sempre solo a un’esperienza che gli si abbandoni e in questo abbandono cerchi di interpretarlo, a un’esperienza che è vera, se è adeguata all’avvenimento in questione”[105].



Che questo è il metodo non soltanto dell’inizio, ma anche della continuazione della conoscenza ce lo testimonia Paolo nella Lettera ai Filippesi. Infatti l’unico modo di progredire nella conoscenza di Cristo è accettare di partecipare all’avvenimento di Cristo ora, nella potenza della sua risurrezione e la comunione delle sue sofferenze: “Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo. Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all'eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto; io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte, per giungere in qualche modo alla risurrezione dei morti. Non che io abbia già ottenuto tutto questo o sia già arrivato alla perfezione; ma proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato afferrato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo di averlo già afferrato; ma una cosa faccio: dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti, corro verso la mèta per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù”[106]



Consapevole che progredire in questa conoscenza è un dono, come è stato un dono l’inizio, Paolo invita i cristiani di Efeso a implorare Dio Padre “affinché egli vi dia, secondo le ricchezze della sua gloria, di essere potentemente fortificati, mediante lo Spirito suo, nell’uomo interiore, e faccia sì che Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, perché, radicati e fondati nell’amore, siate resi capaci di abbracciare con tutti i santi quale sia la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo e di conoscere questo amore che sorpassa ogni conoscenza, affinché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio”[107].

mercoledì 2 settembre 2009

Giussani: Dio ha bisogno degli uomini


Incontro del MEETING Rimini 1985
Fate bene a battere le mani, perché credo in quello che dico. «Il pericolo maggiore che possa temere l’umanità - dice Teilhard de Chardin - non è una catastrofe che venga dal di fuori, non è né la fame né la peste, è invece quella malattia spirituale, la più terribile perché il più direttamente umano dei flagelli, che è la perdita del gusto di vivere».


Quando ho detto questa frase mi è venuto immediatamente al cuore e alla memoria come deve essere nato storicamente l’interesse per Cristo. La gente poteva andarlo a sentirlo chiedendosi: "Cosa dice costui? Parla della Trinità, di Dio Padre, parla dell’inferno dell’anima, della responsabilità dell’uomo". Però poteva farsi anche un’altra domanda, che trovava la risposta dentro il cuore della gente, senza che essa ne fosse cosciente: "Costui, perché dice queste cose?" E immediatamente, chi avesse formulato questa domanda si sarebbe sentito rispondere: "Perché ama l’uomo". Prese un bambino se lo strinse al seno e disse: "Guai a colui che torce un capello al più piccolo dei bambini" e non parlava di torcere fisicamente un capello, perché in questo fatto tutti hanno un po’ di ritegno; parlava nel far del male al bambino in termini morali, là dove nessuno presta attenzione e precauzione; parlava di un rispetto assoluto di questo esserino indifeso. Oppure si scosta nel sentiero, passa un funerale, una donna singhiozza dietro il feretro e Lui domanda: "Cosa succede?" "È una donna vedova. Le è morto l’unico figlio". Fa un passo avanti e dice: "Donna, non piangere". O ancora: "Che importa se ti prendi tutto quello che vuoi e poi perdi te stesso?” Che cosa darà l'uomo in cambio di sé? Così è sorto nel mondo il senso del rispetto, della venerazione, dell'attaccamento, dell'amore, della fiducia, della responsabilità verso la persona.

La persona: l'amore all'uomo. Altrimenti non si può capire il Cristianesimo. Ma forse noi stessi non lo comprendiamo, pur tentando di viverlo, perché non partecipiamo di questa sua origine. Il cristianesimo non è nato per fondare una religione, è nato come passione per l'uomo. Allora si capisce che se Cristo parlava del Padre, se parlava del bambino, se tendeva con particolare cura lo sguardo all'ammalato, al povero, era perché povero, bambino o ammalato erano, fra tutti, i meno difesi, coloro che meno avrebbero potuto imporre se stessi; proprio per questo ne sottolineava la presenza, perché il loro valore era indipendente dalla loro capacità di potere o di servire al potere. L'uomo, il figlio di donna, l'uomo concreto, come sempre insiste Giovanni Paolo II, non l'uomo alla Feuerbach o alla Marx, io, tu, l'uomo figlio di sua madre e suo padre: e l'amore all'uomo, la venerazione per l'uomo, la tenerezza per l'uomo, la passione per l'uomo, la stima assoluta per l'uomo.
La frase di Teilhard de Chardin mi ha richiamato una frase del Vangelo: "Vi ho detto tutte le cose che vi ho dette, affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena". Gioia: è l'unica voce, quella cristiana, che può usare la parola gioia senza essere obbligata a dimenticare o rinnegare qualche cosa. Gesù lo dice in termini biblici: "Il loro angelo (l'angelo dei bambini) vede la faccia del Padre mio". L'uomo è grande perché è in rapporto con l'Infinito, ma un rapporto siffatto che lo si è potuto anche definire con un paradosso: Dio ha bisogno degli uomini. Dio. Ma chi non ha paura, qualunque immagine ne abbia, ad usare questa parola? Io ne ho molta, e infatti raramente la uso.
Questo "insondabile mistero", come diceva Einstein, tre giorni prima di morire al grande matematico Francesco Severi, "che sottende ogni ricerca", questa "ombra che non si può staccare da noi" diceva Whithead, questa implicazione ultima della ragione, intesa come coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori. "Tutta la legge dell'umana esistenza sta solo in questo: che l'uomo possa inchinarsi all'infinitamente grande", diceva Dostoevskij. Proprio per questo, comunque lo si concepisca, questo infinitamente grande è legato alla nostra esistenza. Con un termine drammatico, la Bibbia parla di "alleanza", un contratto sostanziale, essenziale ed esistenziale: l'alleanza della creazione. Questo infinitamente grande è legato alla nostra esistenza per quello stupore che assicura l'emozione della novità, senza cui la vita sarebbe noia mortale, per cui Dio ci si impone come la struggente attrattiva del reale, dell'essere; per quel brivido della ragione per cui Dio appare come la consistenza che ci mantiene sopra l'abisso del niente; per quella dipendenza inevitabile dagli avvenimenti, per cui Dio ci determina come Destino.
Ma dunque, se Dio è legato a noi, se ne può parlare? Se ne deve parlare, nel senso che non è possibile non parlarne, comunque lo si concepisca. C'è un solo modo per non parlarne: non pensare. "Chiuso fra cose mortali anche il cielo stellato finirà. Perché bramo Dio?" È l'interrogativo appassionato di Ungaretti che era così esplicitato da Reiner Maria Rilke: "Spegnimi gli occhi e io ti vedo ancora; rendimi sordo, ed io odo la tua voce; mozzami i piedi, ed io corro la tua strada. Senza favella, a te io scioglierei preghiere. Dirompimi le braccia ed io ti stringo col cuore mio, fatto repente mano: se fermi il cuore, batte il mio cervello, ardi anche questo ed il mio sangue allora ti accoglierà Signore in ogni stilla". Per questo, per questa implicazione fisiologica, con timore e tremore, ripeto: Dio ha bisogno degli uomini. Così ci si è rivelato.
Il titolo del bellissimo e dimenticato film di Delannoy, è un paradosso, certo, ma è vero: Dio si è reso bisognoso dell'uomo per il modo in cui ha agito. Noi non possiamo che esprimerci con queste formule: aver bisogno senza che si avesse avuto bisogno è amore. L'amore nella sua purità, per tutti nostalgia tanto quanto normalmente non è esperienza, nella sua gratuità assoluta. Dio si è reso bisognoso dell'uomo perché l'ha creato libero, gli ha partecipato questa sua suprema capacità di possesso di sé, e, in secondo luogo, perché si è fatto uomo, si è reso storia! Dal Mistero dei santi innocenti di Péguy: "Chiedete a un padre se il miglior momento non è quando i suoi figli cominciano ad amarlo come uomini, lui stesso, come un uomo, liberamente, gratuitamente. Chiedetelo a un padre i cui figli stiano crescendo. Chiedete a un padre se non ci sia un'ora segreta, un momento segreto, e se non sia quando i suoi figli cominciano a diventare uomini, liberi, e lui stesso trattato come un uomo, libero! L'amano come uomo, libero, chiedetelo a un padre i cui figli stiano crescendo. Chiedete a quel padre se non ci sia una elezione fra tutte, e se non sia quando la sottomissione precisamente cessa, e quando i suoi figli, divenuti uomini, l'amano, lo trattano per così dire da conoscitori, da uomo a uomo, liberamente, gratuitamente, lo stimano così. Chiedete a quel padre se non sa che nulla vale uno sguardo d'uomo che incontra uno sguardo d'uomo. Ora io sono il loro padre, dice Dio, e conosco la condizione dell'uomo, sono io che l'ho fatta, non chiedo loro tropo, non chiedo che il loro cuore, quando ho il cuore trovo che va bene, non sono difficile. Tutte le sottomissioni da schiavo nel mondo non valgono un bello sguardo da uomo libero, o piuttosto tutte le sottomissioni da schiavo nel mondo mi ripugnano ed io darei tutto per uno bello sguardo da uomo libero, per una bella obbedienza e tenerezza e devozione da uomo libero, per uno sguardo di San Luigi IX e anche per uno sguardo di Joinville, perché Joinville è meno santo, ma non è meno libero, e non è meno cristiano e non è meno gratuito, e mio figlio è morto anche per Joinville, A questa libertà, a questa gratuità ho sacrificato tutto, dice Dio, al gusto che ho di essere amato da uomini liberi, liberamente, gratuitamente, da dei veri uomini, virili, adulti, fermi, nobili, teneri ma di una tenerezza ferma. Per ottenere questa libertà, questa gratuità ho sacrificato tutto, per creare questa libertà, questa gratuità, per far agire questa libertà, questa gratuità, per insegnare all'uomo la libertà...
Ma questa capacità energica di aderire all'essere, in cui sta la libertà, ha in sé un meccanismo tremendo, come un mistero, Pegury dice "mistero dei misteri". La libertà si realizza come scelta, come opzione. Direbbe Althusser, in quel suo terribile giudizio: "La differenza tra il credere nella esistenza di Dio e il marxismo non sta in una ragione, è una pura opzione". Scelta di che? Accettare o non accettare l'Essere. Questa è una scelta che si ripropone ogni giorno, perché noi ogni mattina ci alziamo e ci poniamo di fronte alla realtà con lo sguardo spalancato, aperto, ingenuo di un bambino, pronto a dire pane al pane, vino al vino. "Sia il vostro dire sì, no; ogni altra parola viene dalla menzogna". Oppure ci alziamo con il gomito a coprire la faccia, guardinghi, per difenderci dalla realtà (accettare o meno l'Essere, la propria madre o Dio è lo stesso, la posizione è identica), accampando pretesti anche contro l'evidenza, naturalmente. E se si accampano pretesti, allora non è solo negazione, ma è menzogna. Le ragioni, i pretesti fondamentali, sono il dolore, in tutti i sensi, anche il dolore del proprio sentirsi venir meno, o la pretesa, la volontà di affermazione dell'uomo, non di sé, badate, non del proprio io, ma dell'uomo, appunto, alla Feuerbach.
Forse l'esempio più impressionante della prima ragione, il dolore dell'uomo, è una famosa poesia di Montale che mi permetto di citare: "Forse un mattino, andando in un'aria di vetro arida, rivolgendomi vedrò compirsi il miracolo; il nulla dietro di me, il vuoto alle mie spalle con un terrore di ubriaco. Poi come su uno schermo si accamperanno di gitto alberi, case, colli per l'inganno consueto, ma sarà troppo tardi. Ed io me ne andrò zitto, tra la gente che non si volta, col mio segreto". Quando ho letto questa poesia di Montale, improvvisamente, mi è parso di comprendere; perché questa è la posizione in cui si accende l'intuizione e l'esperienza mistica, questa percezione immediata del nulla delle cose, dell'inconsistenza di tutto, dell'effimero, è anche l'inizio dell'esperienza dell'Essere di cui tutto consiste e che tutto sostiene. “Rerum Deus tenax vigor", "O Signore, tenace consistenza di tutte le cose": qui invece, dalla stessa identica esperienza, si ha il nichilismo: è una pura opzione. Giustamente Peguy parla del "mistero dei misteri", la libertà.
Indubbiamente, da un punto di vista astratto, Montale non spiega una cosa (l'errore è costretto sempre a dimenticare o a rinnegare qualcosa): perché le cose sono, effimere (l'illusorio è già una valutazione) ma sono. Mentre un esempio tremendo dell'affermazione di sé (ma nell'affermazione di sé è l'affermazione della libertà dell'uomo), è un noto brano di Nietzche: "Un giorno il viandante chiuse la porta dietro di sé e pianse. Poi disse: "Questo ardente desiderio del vero, del reale, del non apparente, del certo, come lo odio!" Tutta l'imponenza del mistero del reale, se l'uomo non lo riconosce, è come niente. Il vuoto dietro di me. È come un nulla, non perché non ci sia, ma perché non è riconosciuto. E in questo senso Tischner, commentando le poesie di Papa Wojtyla, dice che "per Papa Wojtyla l'uomo permette a Dio di essere un Dio".
Dio, per essere riconosciuto come Dio, deve in certo qual modo attendere questa scelta, ma la negazione non può non corrispondere ad un ultimo atteggiamento di ira, sottile o clamorosa; ad una affermazione irosa, sorda, o potente. In quest'ira l'accento non è sull'affermazione di sé, della propria personale umanità, ma sul rifiuto di qua1cosa che è dato. È il rifiuto all'atto di un Altro, rifiuto della propria condizione umana in quanto è data, rifiuto della propria natura, rifiuto di una gratuità originaria. Stranamente, l'accento non è innanzitutto sull'orgoglio, sulla volontà di affermazione di sé, perché l'uomo, nella concretezza della sua persona, piuttosto si dissolve. "Chi non crede più in Dio - diceva Claudel nelle sue grandi Odi - non crede più nell'essere, e chi odia l'essere odia la propria esistenza".
Ma come mi è piaciuto leggere in Un uomo di Oriana Fallaci questa osservazione: "L’amara scoperta che Dio non esiste, ha ucciso la parola destino". Ma negare il destino è arroganza; affermare che noi siamo gli unici artefici della nostra esistenza è follia, la follia con cui Sartre diceva: "Le mie mani?! Cosa sono le mie mani? La distanza incommensurabile che mi divide dal mondo degli oggetti e mi separa da esso per sempre". Quanto più stringi e afferri, sei condannato a percepire, a sperimentare una lontananza: nessun nesso è possibile. È l'io che si dissolve, centro di relazione e di abbraccio, di affermazioni e di collaborazione.
Per questo il dissolvimento giunge fino al punto in cui Moravia ne La noia parla della "assurdità di una realtà insufficiente, ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza". Che terribile morte della ragione misura di tutte le cose, che non ha accettato di essere coscienza ammirata e stupita di una realtà non sua, che diviene sua nella misura della sua obbedienza, del suo sguardo bramoso, desideroso, spalancato in una accettazione continua. C'è comunque un'alternativa alla negazione di Dio, c'è un'alternativa al rifiuto di una responsabilità di fronte alla domanda, al bisogno espresso di Dio verso di noi.
Dentro il mistero della libertà, l'alternativa alla dimenticanza e alla negazione di Dio, dice il profeta Geremia, "è prostrarsi di fronte al lavoro delle proprie mani". Ma nella società attuale, per il meccanismo potente in cui tutto viene articolato e organizzato, è inevitabile che questo prostrarsi di fronte al lavoro delle proprie mani diventi prostrarsi di fronte al potere: quanto meno ne siamo coscienti, tanto più vi siamo soggetti. "Si è riusciti a far capire - dice Milosz, il grande Nobel per la poesia 1984 - all'uomo che se vive è solo per grazia dei potenti. Pensi dunque a bere il caffè e a dare caccia alle farfalle. Chi ama la res publica avrà la mano mozzata". Il male, che filosofia e letteratura definiscono e descrivono, si rifrange in noi, nelle mille azioni di ogni giorno. Totalmente o in parte, esse sono strappate al disegno del mistero, all'ordine ultimo, a causa del rifiuto della gratuità.
Questa negatività, questa incapacità di perfezione è l'avvenimento esistenziale più tragico per l'uomo cosciente di sé. Sempre io ricordo ai miei amici giovani l'espressione letterariamente più tragica di questa consapevolezza, la finale del Brand di Ibsen, quando colui che per tutta la vita ha ricercato l'attimo perfetto, l'atto interamente umano, ritto vicino alla sua capanna, mentre il tuono della valanga che lo travolgerà oramai sta compiendosi, grida: "Rispondimi, o Dio, nell'ora in cui la morte mi travolge: può tutta la volontà di un uomo ottenere un atto solo perfetto?”. Un atto solo umano? Per questo io ricordo con emozione, e anche con umana paradossale gratitudine, le parole di una persona che stimo profondamente, a proposito del peccato: "Il peccato sono forse io". L'affermazione sembra capovolgersi: l'uomo ha dunque bisogno di Dio per essere uomo? Come risposta Dio si fa uomo, si coinvolge. Certo, chi ha molto senso drammatico della vita, è molto vicino al cristianesimo, gli è molto più facile capirlo. Come risposta Dio si fa uomo, si coinvolge con l'uomo come compagno reale di cammino, totalmente familiare, accende un dialogo immediato senza lunghi, solitari ed ambigui spazi interpretativi. Così Dio si rende bisognoso degli uomini proprio come uomo. Ed è a questo punto che l'opzione si gioca in modo più drastico e diventa dramma storico e tragedia del pensiero.
In nome dell'autonomia della verità umana, in nome, cioè, del suo modo di concepire l'ultimo, quello che noi chiamiamo Dio, perché è inevitabile l'implicazione dell'ultimo nel dinamismo della ragione, l'uomo respinge con violenza, fino alla nausea, questa presenza amorosa che ha bisogno dell'uomo, ma gli chiede di amarlo con tutta la mente, con tutto il cuore, con tutte le forze, come dice il Vangelo. Così, dalla onestà dei farisei, al rifiuto del giovane ricco, allo scandalo di Giuda, l'abolizione di Cristo dalla memoria che decide e guida la vita singola e sociale, diventa peccato sociale. Una ovvietà della cultura dominante: Cristo è un grande uomo, a patto che venga abolito, come Cristo, dalla memoria. Tale abolizione diventa rinuncia alla categoria suprema della ragione, la categoria della possibilità. È assurdo, è inconcepibile, è impossibile.

Mi ricordo, ne "La fine dell'avventura" di Graham Green, che il protagonista, 1ibero pensatore, va di sera tardi in casa dell'amico cui era morta la moglie e ci trova il confessore della moglie, un fraticello smilzo, piccolo, fragile, che lui cerca di confondere attraverso una serie di invettive contro l'immagine religiosa cristiana della vita e dell'uomo. E quel povero fraticello, approfittando di un respiro dell'artista, “libero pensatore”, esclama timidamente: "Ma mi sembra di essere più libero pensatore io di lei, perché è più libero pensiero ammettere tutte le possibilità piuttosto che precludersene qualcuna". È dalla abolizione della memoria di Cristo come Dio-uomo che diventa possibile la lucidità isterica con cui tanta cultura moderna rinnega Dio, ma lo diceva Nietzsche: "Se togliamo Cristo, dobbiamo togliere Dio". Ma Cristo è un impegno del mistero, irreversibile, col tempo umano; la Bibbia lo chiama "Alleanza Eterna". Dio è fedele a se stesso, Cristo è lo svelarsi della natura del mistero verso l'uomo. Che cos'è il mistero verso l'uomo? Misericordia. La gratuità iniziale, originale, per cui l'uomo è, si svela compiutamente nel suo cuore, nella sua profondità affettiva. È misericordia.
La risposta negativa dell'uomo non risolve la grande questione di amore: Cristo si implica nella totalità della esistenzialità stessa dell'uomo, nella totalità della mia esistenza. L'idea che per il cristianesimo la salvezza, cioè il senso positivo del mondo è legato ad un punto infinitesimale che è il sì di una ragazza di 15, 16 o 17 anni al massimo, che viveva in uno sperduto villaggio della Palestina, basterebbe a farmi capire il divino. Così, sull'altro versante, un uomo viene baciato, in quella notte, ed esclama: "Amico, a che sei venuto? Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell'Uomo". Coinvolto con l'esistenzialità umana, col gioco della sua libertà, secondo le movenze normali, quotidiane di essa, implicato nella totalità dell'esistenza come uomo, Cristo si rende bisognoso delle concrete, visibili cose che l'uomo usa: l'acqua nel Battesimo, l'olio nella Cresima, il vino e il pane nell'Eucarestia, la parola nella Confessione; il gesto, dovunque. Ma la realtà storica totale di cui Cristo ha bisogno per compiere la sua presenza al cammino dell'uomo verso il destino, è l'unità fra tutti coloro che il Padre gli ha dato.

Dice il XVII capitolo di S. Giovanni: "L’unità di tutti coloro cui è stato dato di conoscerlo". Inizio dell'unità totale dell'umanità, è l'unità fra tutti coloro che il Padre gli ha dato, la Comunità Ecclesiale, "questo ambiente dell'esistenza redenta dell'uomo", come ci disse Giovanni Paolo II il 29 settembre, la Comunità Ecclesiale, esistenza redenta dunque non perfetta.... ambiente affascinante, dove ogni uomo trova la risposta alla domanda del significato per la sua vita, cioè Cristo centro del cosmo e della storia. Perché non c'è nessun fascino nella vita più grande che l'esplodere chiaro del significato. Perché il fascino è l'attrattiva del vero, "pulchrum splendor veri" diceva S. Tommaso.
Così, in un certo senso, l'inizio cristiano non è l'inizio di una religione e neanche di un'etica, ma di un'estetica. L'etica verrà, come conseguenza, da un amore destato, e l'amore è destato dalla bellezza, che è l'attrattiva propria della verità. Comunità Ecclesiale: dove tutti i temperamenti, tutte le storie, cioè tutti i movimenti, le associazioni, scaturiscono dall'unica domanda di quel significato e insieme, senza alcuna possibilità di dominio, completandosi e aiutandosi l'un l'altro come grande e appassionata compagnia, fluiscono verso l'unica foce; la testimonianza a tutto il mondo umano di Cristo morto e risorto. Ma questa Comunità Ecclesiale è un popolo, o, come diceva Paolo VI (25 luglio 1975) "una entità etnica sui generis", un popolo di uomini: Dio non ha bisogno di santi, ha bisogno di uomini.
Così dunque Eliot descrive il cammino di questo popolo nel VII Coro della Rocca: "Da quel momento sembrò come se gli uomini dovessero procedere dalla luce alla luce, nella luce del Verbo attraverso la passione, il sacrificio, salvati a dispetto del loro essere negativo, bestiali come sempre, carnali, egoisti come sempre, interessati, ottusi come sempre lo furono prima, eppure sempre in lotta, sempre a riaffermare, sempre a riprendere la loro marcia sulla via illuminata dalla luce, spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, ritardandosi, tornando, eppure mai seguendo un'altra via". Questo Cristo ha introdotto nella nostra vita, facendosi compagno nostro, la dignità, la libertà come tensione all'infinito; se l'uomo è rapporto con l'infinito, l'unica dinamica degna è la tensione ad esso. Come un bambino che, nato, deve imparare a camminare, e mille volte cade, e mille volte riprende, ma tutto in lui è tensione al cammino e alla vita.
Eliot prosegue: “Ma sembra che qualcosa sia accaduto che non è mai accaduto prima, sebbene non si sappia quando, o perché, o come, o dove. Gli uomini hanno abbandonato Dio non per altri dei, dicono, ma per nessun Dio, e questo non era mai accaduto prima; che gli uomini negassero gli dei ed adorassero come dei la ragione o il denaro, il potere o ciò che chiamano vita, razza, dialettica. La Chiesa ripudiata, la torre abbattuta, le campane capovolte, cosa possiamo fare? Deserto e vuoto, deserto e vuoto, perché deserto e vuoto è il mondo là dove non c'è ricerca di un significato, e tenebre sulla faccia dell'abisso. È la Chiesa che ha abbandonato l'umanità, o l'umanità che ha abbandonato la Chiesa? Tutte e due. Quando la Chiesa non è più considerata, e neanche contrastata, e gli uomini hanno dimenticato tutti gli dei, tranne l'Usura, la Lussuria e il Potere".
Il Dio dell'uomo è ciò che l'uomo è; ciò che l'uomo è, è il suo Dio. Ma l'uomo non è lussuria, denaro e potere. Questi dinamismi pretendono continuamente di definire l'uomo e l'uomo può diventarne, soprattutto teoricamente, schiavo, prigioniero; ma l'uomo è definito da qualche cosa di più, dove il calcolo è travolto. Nonostante tutto, nonostante che l'uomo sia attraversato continuamente dalla fame e sete della lussuria, del denaro e del potere, affermare questo più, tendere a questo più, vivere questa lotta e, nella propria fragilità, mendicare come poveri lungo le strade, è il modo umano di vivere la gratuità, di vivere cioè la propria vera natura, immagine di Dio, di vivere quel rapporto con l'infinito, creatore per grazia. Tale capacità di gratuità, questo scatto oltre il calcolo, verso l'infinitamente grande che si è reso bisognoso della nostra esistenza, è il test della vita. "Son venuto perché abbiano la vita e la abbiano in sovrabbondanza", una vita che non sia costretta a dimenticare o rinnegare nulla.
Permettetemi di citare questo brano del Diario di Kierkegaard: "Il rapporto di negatività polemica che il paganesimo metteva fra l'idea di una vita futura e l'esistenza presente, si vede anche dall'obbligo che le anime avevano, giungendo ai Campi Elisi, di bere l'acqua del fiume Lete". Per entrare nel loro paradiso i pagani credevano che le anime dovessero prima bere l'acqua del fiume Lete, che nella radice greca vuol dire "dimenticare": per essere felici nell'al di là, bisognava dimenticare tutto. Ma questa è la norma per ogni ideologia, teorizzata o implicata nel modo di vivere. Il Cristianesimo invece insegna che dobbiamo rendere conto, che ha un valore eterno anche una parola detta per scherzo. Ciò significa, tra l'altro, la presenza totale del nostro passato, anche se un altro Lete, la misericordia, ce ne toglie il lancinante dolore: è il mutamento profondo, la conversione profonda del significato del mio stesso male.
Il Vangelo dice: "Anche i capelli del tuo capo sono numerati". Una vita che diviene se stessa, cioè sempre più vita, come diceva S. Agostino: "La vita non deve passare, letteralmente, dalla giovinezza alla vecchiezza, ma è la giovinezza che deve crescere sempre di più". Ciò che S. Agostino affermava per esperienza personale è testimoniato da una bellissima poesia di una poetessa settantenne, grande anche se naturalmente oggi dimenticata, Ada Negri, Giovinezza: "Non t'ho perduta, sei rimasta in fondo all'essere, sei tu, ma un'altra sei, senza fronda né fior, senza il riso che avevi al tempo che non torna, senza quel canto; un'altra sei, più bella. Ami, e non esigi essere amata, a ogni fiore che sboccia o frutto che rosseggia o pargolo che nasce, al Dio dei campi e delle stirpi rendi grazia in cuore; non ami il fiore perché lo cogli e lo annusi, ma perché è; non ami il frutto perché lo addenti, ma perché è; non ami il bambino perché è tuo, ma perché è".
Questa è la gratuità resa vita quotidiana, che riverbero nello sguardo a chi vive vicino!, che riverbero nel pensiero e nel travaglio per gente ignota che viva lontano!, che riverbero di missione! In fondo il Cristianesimo realizza l'immagine che Victor Hugo, in un bellissimo brano del suo Le Conteplation intitolato L'Eremita, descrive. Si immagina questo eremita che si alza al mattino presto, all'alba, e cerca alla luce della candela di cominciare a leggere e meditare il suo testo. Man mano che legge, il sole si alza e cresce, e così, nello stesso tempo, nella sua anima sì fa luce, non dalla giovinezza alla vecchiezza; è la giovinezza che deve crescere sempre. "Non fidatevi dell'amore" è l'ultimo ricordo di Paul Valery ai suoi amici. "Noi abbiamo creduto all'amore" è il messaggio di Giovanni. "So bene che Dio non mi ama, come potrebbe amarmi? E tuttavia in fondo a me, qualcosa, un punto dì me, non può impedirmi di pensare, tremando di paura, che forse, malgrado tutto, mi ama", dal primo quaderno di Simone Weil.

Questo è ciò su cui non può non attestarsi la nostra umanità, per quel poco di purità che mantenga. C'è un unico vero delitto, la dimenticanza del Dio che ha avuto bisogno di noi, che ha bisogno di noi. "Sento che la mia nave - dice un buon poeta spagnolo, Juan Ramòn Jiménez - ha urtato là sul fondo in qualcosa di grande". La nostra nave che sta navigando per l'Oceano della vita ha urtato là, sul fondo, in qualcosa di grande: Dio presente. E nulla accade. Nulla, quiete, onde. Tutto come prima, tutto è già accaduto e siamo già tranquilli nel diverso, ci siamo già rassegnati? Io auguro a me e a voi di non stare mai tranquilli, mai più tranquilli.